Articoli


Michele Salvati 

Europa  

Troppi pregiudizi: Renzi non è un populista

L'articolo di Carlo Galli è brillante ma pieno di preconcetti sul sindaco di Firenze: ecco perché Il pezzo di Carlo Galli è la più brillante formulazione che sinora abbia letto dei giudizi, e soprattutto dei pregiudizi, ostili alla candidatura di Matteo Renzi a segretario del Partito democratico. Come direttore di questa rivista gli sono grato: il dibattito interno al Pd (come quello interno al Pdl…se ci fosse) è importante per il destino del nostro paese e non tollera reticenze diplomatiche: così scrivevo nell’editoriale del numero del Mulino ora in libreria a proposito di un articolo di Antonio Funiciello, un altro pezzo brillante, polemico e in radicale contrasto con quello di Galli. La nostra rivista si propone di dare un ampio spazio alle diverse posizioni politiche che oggi si confrontano nel Pd e anche di discutere dei caratteri personali dei candidati che le rappresentano. Sarebbe però opportuno, e più utile al lettore, se in questo dibattito la riflessione facesse premio sulla polemica e sulla ricerca di brillantezza retorica, e se venissero messi a fuoco in modo pacato i cinque temi sulla base dei quali la scelta di un candidato dovrebbe essere fatta.
Il primo è l’orizzonte ideologico-culturale al quale il candidato si iscrive. Nel caso di Renzi mi sembra chiaro: è il liberalismo di sinistra, e, se il sindaco fiorentino fosse un accademico come Galli e me, non farebbe fatica a giustificarlo. Dopo la crisi teorica del marxismo, il collasso del comunismo e le difficoltà delle socialdemocrazie tradizionali, questa è la posizione politicamente e intellettualmente dominante nelle sinistre di governo dei paesi industrialmente avanzati: tanta eguaglianza delle opportunità quanta è possibile raggiungere nel contesto internazionale in cui viviamo e nelle circostanze concrete in cui un governo opera.
Circostanze concrete, dunque un’analisi spietata della situazione italiana e delle proposte di riforma per migliorarla: questo è il secondo tema sul quale si debbono confrontare i diversi candidati. Molte di queste proposte saranno inevitabilmente comuni tra tutti i candidati, ma altre no: e soprattutto quel che manca, ma meno a Renzi che a tutti gli altri, è una narrativa affascinante in cui incastrare i singoli pezzi, un’idea di Italia come grande paese, civile ancor prima che prospero. Quell’idea di Italia che Veltroni era riuscito a dare nel suo discorso del Lingotto. O un’idea diversa, ma che riesca a tenere insieme aspirazioni individuali diffuse, fascino culturale e realizzabilità.
Il terzo grande tema è quello della ricostruzione del sistema politico italiano, a cominciare dalle sue regole elettorali e costituzionali. Data la sua urgenza – è uno dei compiti del governo Letta –bisogna essere chiari, sia sulle riforme immediate, sia su quelle a lungo termine: Costituzione sacra e inviolabile, alla Rodotà, o modifiche significative, sino al semipresidenzialismo francese? Qui non vedo per Renzi, un bipolarista convinto, difficoltà maggiori di quelle che dovranno affrontare i suoi avversari. Nessuno per ora scopre completamente le sue carte, ma dovranno pur scoprirle per il congresso.
Il quarto tema – il partito – è parte del terzo, della ricostruzione di una democrazia decente dopo i guasti del bipolarismo assatanato degli ultimi vent’anni. Data la sede in cui si svolgerà il dibattito, questo sotto-tema sarà quello dominante, come già si vede dalle bordate che Carlo Galli spara contro Matteo Renzi. Sia ben chiaro, anche a me piacerebbe l’alternativa “lunga, complessa e responsabile” che Galli disegna nel penultimo capoverso del suo articolo. Ma è mai il partito stato quella cosa lì, o in passato è stato l’oligopolio collusivo analizzato da Roberto Michels più di cent’anni fa? E può esserlo in futuro, nella “democrazia del pubblico” descritta da Bernard Manin? È in questa democrazia della televisione e dei social network che si confrontano i candidati alla segreteria e, mentre è apprezzabile ogni tentativo di rivitalizzare i circoli e forme di partecipazione di iscritti e simpatizzanti, bisogna rendersi conto che la personalizzazione della politica è arrivata per restare. L’importante è che nel partito operino sufficienti strutture di confronto da far coincidere le persone che poi dovranno esporsi al giudizio elettorale con progetti e visioni elaborate all’interno del partito, con (non troppo) diverse versioni del suo patrimonio ideale. Anche negli altri grandi paesi democratici la politica è fortemente personalizzata, ma i leader che emergono si sono formati nel partito- come Renzi- e non emergono dal populismo antipolitico, come Grillo o Berlusconi, sintomo delle disgraziate condizioni del nostro paese.
Quinto tema, le persone, i candidati leader, gli uomini e le donne con la loro età, la loro storia, le loro competenze, i loro tratti caratteriali. Persone in carne ed ossa non freddi avatar di idee e programmi. Anche l’attenzione per le persone è destinata a restare, ma va mirata nel modo più obiettivo possibile, e possibilmente in un contesto comparativo. A Carlo Galli Matteo Renzi – anche personalmente, mi pare – non sta molto simpatico. Come persona o come avatar? Gli sta più simpatico Civati, non così diverso da Renzi come stile comunicativo? O Cuperlo, che io trovo persona deliziosa, ma anche perfetto esemplare dell’Ancien Régime? E si è chiesto Galli perché nei rumors che circolano non è mai nominato Fabrizio Barca, di gran lunga la persona più affascinante e competente tra coloro che ancora sperano che il partito tradizionale sia salvabile?
Su questi cinque temi attendiamo contributi.

 

Massimo Faggioli 

Lazzati, cattolico controcorrente

Il "pensare politicamente" di un maestro dei cattolici democratici e la lunga battaglia contro Cl e contro il ruinismo-wojtylismo

Lazzati, cattolico controcorrente“Pensare politicamente” fu il marchio di alcuni esponenti del cattolicesimo italiano alle prese, nella storia repubblicana, con la sfida di inserire i cattolici nella politica nazionale senza renderli soggetti alle gerarchie ecclesiastiche, né proni alle tentazioni dell’occupazione del potere per il potere. Tra quelli che più hanno segnato il panorama del cattolicesimo politico della Prima repubblica vi è indubbiamente Giuseppe Lazzati, intellettuale milanese, studioso della letteratura cristiana antica. Componente del “gruppo dossettiano” che tanta parte ha avuto e ha nelle diatribe più interne ai cattolici, Lazzati ebbe la particolarità di confrontarsi direttamente e su più fronti per la difesa di un’idea alta di cattolicesimo impegnato in politica.
Il primo fronte fu quello del partito della Democrazia Cristiana: partecipe insieme a Dossetti e Fanfani all’opposizione a De Gasperi, fondò nel settembre 1946 l’associazione Civitas humana da cui nacque la rivista Cronache Sociali, del cui comitato di redazione fece parte, segnalandosi per le prese di posizione contrarie ai Comitati civici di Luigi Gedda e in favore dell’autonomia dell’azione politica dei cattolici dalle gerarchie ecclesiastiche. Ricoprì incarichi politici anche rilevanti per sette anni, dal 1946 al 1953 (padre costituente, uomo di partito nella Democrazia cristiana, deputato impegnato nell’azione legislativa): come Dossetti lasciò la politica attiva nel 1953, ma senza mai operare una svolta teologica ed ecclesiale al di fuori dall’agone pubblico in senso proprio, e prese le distanze da una Dc sempre più fautrice di politiche liberali e non ispirate alla dottrina sociale cristiana. Scrisse nel 1975: «Non possiamo non riconoscere la contraddittorietà dell’azione politica condotta dai cattolici italiani a partire dal dopoguerra: essi hanno tradito lo spirito della Costituzione che aveva posto i fondamenti di uno Stato sociale, gestendo per trent’anni uno Stato liberale».
Il secondo fronte fu quello locale politico-ecclesiale milanese, in un periodo-chiave per il ruolo della “capitale morale” d’Italia (e forse anche del cattolicesimo italiano). Docente alla Cattolica di Milano dal 1958 al 1979, e rettore nel lungo quindicennio post-1968 fino al 1983, Lazzati dovette destreggiarsi tra la difesa dell’istituzione di fronte alla radicalizzazione degli anni settanta (anche degli studenti cattolici) e l’aggressività di Comunione e Liberazione scaturita dal capoluogo lombardo. Tenace oppositore dell’idea ciellina della “presenza” nelle istituzioni del potere come sbocco privilegiato alla vocazione politica del cristiano, Lazzati soffrì le rappresaglie di Cl in vita e dopo la morte.
Il terzo fronte fu quello ecclesiale, ovvero dell’istituzione cattolica, che non vide sempre di buon occhio la sua idea di indipendenza del laicato dalle gerarchie: in un’Italia che, a inizio anni ottanta, subiva la virata di Giovanni Paolo II verso un “modello polacco” di azione diretta delle gerarchie nella vita politica del paese, Lazzati riprese e sviluppò, per un contesto assai mutato, la “Civitas humana” fondata da Dossetti nel 1946 e fondò tra 1984 e 1985 (anno fatale per l’ascesa del ruinismo) la sua rete “Città dell’uomo”. Con il ruinismo-wojtylismo da una parte e la cultura modernizzatrice della “Milano da bere” craxiana dall’altra parte, Lazzati sapeva di agire contro corrente, sia nella chiesa sia nella politica italiana.
Processo di beatificazione di Lazzati a parte, il “pensare politicamente” di questo maestro dei cattolici democratici italiani parla di problemi ancora tipici della questione politica cattolica e non. In primo luogo vi è il nodo del rapporto tra cattolicesimo italiano e la formazione del suo laicato o delle sue élite (che esistono sempre, checché ne dicano gli ideologi della politica in rete): Lazzati era fermamente convinto della necessità di una formazione e di una cultura che venissero prima di ogni impegno politico diretto. Laicità, mediazione culturale e dialogo erano i temi-chiave di questa idea di formazione. Non c’è da stupirsi che i nemici privilegiati di Lazzati fossero quelli di Cl, in quegli anni in cui il Meeting di Rimini iniziò a diventare la passerella del “who’s who” della politica in Italia (papi compresi).
Il secondo nodo è quello della relazione tra cristianesimo e opzioni politiche, che Lazzati vedeva in termini di pluralismo, ad esclusione di ogni settarismo e strumentalizzazione del cattolicesimo come instrumentum regni. Lazzati rese concreta questa sua presa di posizione con la definizione del suo movimento come indipendente sia dai partiti (in primo luogo dalla Dc) sia dalla chiesa (in esplicita opposizione al modello ciellino).
Il terzo nodo, forse quello più importante oggi, è un “pensare politicamente” che si rifiuta di ridurre la politica ad amministrazione. Allora, negli anni ottanta, la polemica era contro quel sottobosco pre- e para-leghista, come la tecnicizzazione della politica portata avanti dal politologo (della Cattolica) Gianfranco Miglio, una concezione amorale della politica come tecnica.
Da trent’anni a questa parte sono molto cambiati sia il cattolicesimo italiano sia la sua rappresentanza politica, ma l’importanza di queste lezioni rimane immutata.
 
L’insidia inaspettata per Letta
   


La Stampa 10 agosto 2013
luigi la spina



Non si è mai visto un presidente del Consiglio pessimista sulla durata del suo governo, ma Enrico Letta, prima del breve periodo di vacanza, forse potrebbe aver ragione nel sostenere che l’esecutivo sia più solido di quanto appaia.  
I motivi della sua fiducia, oltre a quello d’obbligo per ragione d’ufficio, si basano sostanzialmente sulla mancanza di vere alternative.  
Mancanza di vere alternative che derivano dalla composizione dell’attuale Parlamento e dall’impossibilità di chiedere agli italiani di cambiarla, con un nuovo voto, senza l’approvazione di una diversa legge elettorale.  
 
Governo obbligato, dunque, governo fortunato? Mica tanto, vista la quotidiana sorte di dover sopportare le continue polemiche tra i due principali partiti della sua maggioranza, alleati per forza e avversari per vocazione. Con l’effetto concreto di essere costretto a rinviare le scelte fondamentali, quelle sui nodi dell’economia che più interessano agli italiani, come le tasse sulla casa o l’Iva, e di limitarsi al varo di provvedimenti sui quali difficilmente si potrebbe essere contrari. Ultimo esempio in ordine di tempo, l’inasprimento delle pene per le violenze sulle donne.  
All’apparenza, vengono dal Pdl le minacce più serie per il governo, come l’ultimatum di Berlusconi sull’abolizione totale dell’Imu per la prima casa, ripetuto ieri, sembra dimostrare. E’ evidente la scelta di ipotizzare l’apertura di una crisi e nuove elezioni, da parte di quel partito, su un tema così popolare e non sulla richiesta agli italiani di approvare, con il voto, un salvacondotto giudiziario per il suo leader. Ma è discutibile il vantaggio, per Berlusconi, della sostituzione di questo governo Letta con un qualsiasi altro, vista la notoria e assoluta contrarietà di Napolitano a elezioni anticipate e l’impraticabilità di indirle con una legge elettorale che la suprema Corte si appresta a dichiarare incostituzionale.  
Più insidioso per Letta, invece, è l’atteggiamento del suo partito. Il Pd pare, in questo momento, del tutto disinteressato alle sorti del governo e tutto concentrato sull’esito di un nuovo «duello infinito». Come quello che, per gli ultimi vent’anni, ha paralizzato il maggior partito della sinistra italiana, la competizione tra D’Alema e Veltroni, così, magari per i prossimi vent’anni, si annuncia la sfida tra gli eredi della nuova generazione, Letta e Renzi. I prodromi dello stesso infausto destino ci sono tutti e il surreale andamento dell’ultima direzione Pd, con il balletto di annunci e smentite sulla data delle primarie, conferma i peggiori pronostici. Da mesi, in quel partito, si parla solo di calendari e di regole, questioni certamente appassionanti per gli italiani oppressi dalla crisi e dalla disoccupazione. Da mesi, non appare una proposta chiara e concreta di politica economica che possa far interessare e, magari, far discutere i cittadini. 
Da una parte, Berlusconi vellica i magri portafogli dei nostri connazionali, occupa sempre da protagonista il dibattito politico, costringendo gli altri a seguire la scia dei suoi temi, contestando le ricette economiche dell’Europa e del Fondo monetario e riscuotendone i relativi vantaggi demagogici. Dall’altra, si ode un balbettìo confuso e incerto tra omaggi rituali ai rigori monetari delle autorità politiche ed economiche internazionali e timide obiezioni sull’efficacia di quelle ricette. Così, l’unica cosa comprensibile è la condanna a un compromesso continuo, prima sull’alleanza con Berlusconi, poi sull’Imu, poi sul possibile aumento dell’Iva e, infine, persino sulle sorti del ministero retto dall’ex vicesegretario del partito. Un atteggiamento che ricorda quello della Dc, all’epoca della prima Repubblica, nei confronti dell’occasionale «governo amico». 
Ecco perché, quasi insensibilmente, quasi inconsapevolmente, quasi involontariamente, l’autismo del Pd, una malattia dalla quale quel partito non riesce a guarire, potrebbe coinvolgere il presidente del Consiglio, dal momento che Letta è anche uno dei duellanti per la futura leadership, e le conseguenze dello scontro con Renzi potrebbero avere decisivi riflessi sulla sua poltrona a Palazzo Chigi. 
Alla vigilia della settimana di ferragosto, ci si potrebbe chiedere se la durata del governo, nel prossimo autunno, sia augurabile o no. La risposta è difficile, perché dipende dalla soluzione delle scelte economiche finora rinviate. Quella timida ripresa internazionale che si annuncia non sarà agganciabile anche dall’Italia senza misure, da parte della politica, concrete e rilevanti sul piano dell’occupazione e degli investimenti. L’unica consolazione è che, a fine mese, avremo quella risposta, perché il tempo dei rinvii è scaduto.


Processo Mediaset, l'ira di Silvio Berlusconi per l'accelerazione in Cassazione: "Non garantisco più nulla"

"Tenetevi pronti a tutto. A questo punto io non garantisco più nulla. Non posso rimanere fermo aspettando che mi crocifiggano". Adesso è saltato davvero ogni schema. Quando Silvio Berlusconi piomba a Roma la scossa della Cassazione ha già prodotto i suoi effetti. Devastanti. L'ex premier è una furia. Perché l'accelerazione della sentenza al 30 luglio è una clava che rischia di fare a pezzi la strategia difensiva del Cavaliere. Giudiziaria, perché dà meno tempo alla difesa. E soprattutto affida la pratica a un collegio giudicante che non è quello nel quale Ghedini, Longo ma anche coppi riponevano fiducia. Ma anche politica: "Abbiamo mostrato senso di responsabilità - si è sfogato l'ex premier coi suoi - ma non è servito a niente. Altro che pacificazione. Questo è un massacro".

Già, un massacro. Perché nell'inner circle del Cavaliere la sensazione è che il cerchio si stia chiudendo. L'ultimo mese parla chiaro: l'appello Mediaset, la condanna Unipol, quella Ruby. E ora la Cassazione, chiamata al verdetto nel mese di agosto. Chiusa cioè la finestra elettorale estiva, e in un momento in cui è difficile ottenere le urne ottobre. Ecco, la Cassazione ha fatto saltare il "piano": aspettare settembre, alzando il tiro sull'economia. E magari rompere un minuto prima del Verdetto, alla prima soffiata utile della Cassazione. Adesso è impossibile. Ad agosto si vedrà se il Cavaliere è condannato e interdetto. E non c'è "piano b".

E' in questo clima di panico che per la prima volta da settimane viene riaperto il dossier della rottura, per puntare subito a elezioni. Verdini e Daniela Santanchè quasi lo urlano: "Dobbiamo rompere alla prima occasione utile e puntare al voto". Stavolta l'ex premier non lo considera un azzardo. Spifferi che seminano un panico altrettanto intenso a palazzo Chigi: "Le vicende giudiziarie - ripete Letta conscio del contrario - non influenzano la vita del governo". Ma il premier si sente "sorvegliato speciale" da Berlusconi. E' con un brivido lungo la schiena che Letta ha visto una dopo l'altra le dichiarazioni dei suoi ministri contro la Cassazione. Anche quella di Angelino Alfano. È già la rottura di un equilibrio. In molti ricordano che, dopo la manifestazione di Brescia, Letta disse ad Alfano: "Un'altra manifestazione così e me ne vado".

Ecco, l'escalation è iniziata. Nella mai dismessa war room di palazzo Grazioli la parola più pronunciata è "voto". Perché a questo punto è la situazione politica, prima ancora di quella giudiziaria, ad assomigliare a una prigione per Berlusconi. A meno che la Cassazione non lo assolva - e su questo nessuno scommette un euro - la ghigliottina di agosto rischia di essere fatale: "Stare al governo non serve - sussurra un ex ministro - ma, se rompiamo, Berlusconi si trova a fare una campagna alla Grillo, fuori dal Parlamento". Uno scenario da brivido. Reso complicato dal fatto che manca l'occasione per l'Incidente. E che lo scioglimento non è automatico: "Manca l'occasione per rompere - dicono i fedelissimi - e rischiamo un'altra maggioranza che faccia a pezzi Berlusconi".

Ed è proprio di fronte a questo inferno che l'ex premier ha rinunciato a parlare all'assemblea dei gruppi e ha fatto sapere che non parlerà per dieci giorni. È un clima da ultimi giorni di Pompei. Rabbia, paura, voglia di reagire. Anche la riunione dei gruppi parlamentari si trasforma in uno sfogatoio, all'insegna del può succedere di tutto. C'è chi, come Daniela Santanchè chiama a una grande manifestazione di massa a difesa di Berlusconi. C'è chi, come Mariastella Gelmini propone di firmare i referendum dei radicali sulla giustizia e dimissioni di massa dei parlamentari. C'è chi, come Brunetta, si dice pronto a tutto di fronte al golpe. Insomma, è il refrain, "qualcosa va fatto". E comunque sarà una scossa. Sul governo.

Alessandro De Angelis

Uffingtonpost  - 10/07/2013
 




Bentornata Costituzione

Piergiovanni Alleva
Il Manifesto 04.07.2013

La notizia è di quelle che, come si dice, cambiano completamente lo scenario: la Corte Costituzionale ha accolto l'eccezione di incostituzionalità parziale dell'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori proposta dalla Fiom e giudicata non infondata da alcuni tribunali. E ha modificato il testo di quell'articolo in un modo poco evidente ma importantissimo: la Fiom può rientrare a pieno titolo in tutte le fabbriche Fiat, e con la Fiom in quelle fabbriche rientrano la Costituzione e la dialettica democratica. CONTINUA|PAGINA15 Un vero successo per la Fiom, e il fallimento dei piani di Marchionne.
Al principio della storia c'è un equivoco: quando entrò in vigore lo Statuto dei lavoratori, l'articolo 19 prevedeva che le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) con tutti i fondamentali diritti che ad esse si collegano (assemblee retribuite, permessi sindacali, etc.) potessero essere costituite nell'ambito dei sindacati aderenti a confederazioni maggiormente rappresentative (lettera a) o anche sussidiariamente dei sindacati comunque firmatari del contratto nazionale (lettera b). Perché intervenne un referendum popolare nel 1995 che cancellò la lettera a?
Per evitare che, certi sindacati in realtà non rappresentativi in una categoria, ad esempio i Tessili, potessero pretendere di costituire Rsa nelle unità produttive, solo perchè aderivano a una confederazione che magari era rappresentativa nella sanità o nella scuola. Però, in tal modo, la cancellazione della lettera a dal punto di vista formale e letterale rendeva il requisito della lettera b, cioè l'aver firmato il contratto nazionale, l'unico requisito alla cui stregua un sindacato poteva costituire una Rsa.
Di qui il paradosso: un sindacato poteva costituire una Rsa non perché a lui aderissero molti lavoratori o anche la maggioranza assoluta, ma solo perché il datore di lavoro aveva accettato di firmare con lui un contratto collettivo.
Un paradosso che per molti anni è risultato innocuo, perché c'era l'unità sindacale, ma dopo la sua rottura lo scenario è cambiato, e in modo drammatico: si sono moltiplicati i casi di contrattazione separata, che hanno visto profonde spaccature tra i confederali.
Quella piccola anomalia, si rilevava allora un'arma pericolosissima puntata contro la democrazia sindacale, perché nel momento del passaggio da un contratto a un altro, se il nuovo accordo veniva firmato solo, poniamo, da un sindacato, soltanto questo poteva poi mantenere le Rsa, mentre gli altri le perdevano: e in sostanza venivano cacciati, come entità organizzata, dalla fabbrica.
Sembra incredibile, ma c'è chi ha fatto di tutto questo una precisa strategia, e si è trattato della Fiat di Marchionne: chi non ricorda lo sbalorditivo spettacolo dei delegati Fiom di una storica fabbrica bolognese del Gruppo Fiat (Weber) ripresi dalla tv mentre con i classici scatoloni in mano lasciavano i locali della Rsa che avevano occupato per tanti anni?
Una profetica sentenza del tribunale di Bologna consentì loro di rientrare e formare di nuovo le Rsa. Il problema si è moltiplicato e diffuso a macchia d'olio nelle oltre 60 fabbriche riconducibili al gruppo Fiat, minacciando di andare ben al di là, perchè lo stesso contratto nazionale metalmeccanici 2012 è un contratto separato non firmato dalla Fiom per le pessime condizioni economico-normative che in esso si contemplano.
La questione è finita in Corte Costituzione, che due giorni fa l'ha discussa in pubblica e affollata udienza, e ha emesso una sentenza importantissima: per formare una Rsa non è necessario aver firmato il contratto, ma è sufficiente aver preso parte alla negoziazione, rifiutando poi la firma per motivi di merito.
Non può sfuggire il vero significato giuridico e politico dell'affermazione: viene respinta l'idea portata avanti dai difensori della Fiat, anche in sede di udienza, che l'articolo 19 premiasse i sindacati «comprensivi» delle ragioni datoriali, e quindi disposti a firmare tutto o quasi tutto. Si è invece ricostituita una visuale dialettica per la quale il sindacato che sia rappresentativo, partecipa al tavolo negoziale, ma può rifiutare senza timore soluzioni nel merito inaccettabili. Ed è quello che ha fatto la Fiom in questi anni nei rapporti con Fiat e Federmeccanica, e quindi ha diritto di ricostituire dappertutto le Rsa, senza dover aderire ai contratti «bidone» firmati dagli altri.
Vi è poi un corollario, non meno importante: che siccome il diritto di costituire o mantenere le Rsa dipende dal fatto di aver partecipato alla negoziazione, l'eventuale non invito, premeditato, del sindacato non gradito al tavolo, diverrebbe un comportamento antisindacale, in quanto impeditivo di per sé del diritto e della possibilità di costituire Rsa.
Un passo avanti in sintonia con l'accordo del 28 Giugno 2011, il quale prevede il diritto del sindacato rappresentativo (che rappresenta più del 5%) di essere invitato al tavolo. Diritto a cui è collegata, ora, pure la costituzione delle Rsa.

La svolta "neutrale" di Papa Francesco
Basta interventismo sulla politica italiana

La Cei si dovrà adeguare. Non più test di cattolicità per gli inquilini dei Palazzi romani, bensì collaborazione sui temi caldi della crisi attuale. Il nuovo corso negli incontri con premier Enrico Letta e con il sindaco di Roma, Marino






La svolta "neutrale" di Papa Francesco  Basta interventismo sulla politica italianaCITTÀ DEL VATICANO  -  Non è più tempo di fulmini bioetici. Il Papa offre alle istituzioni italiane un'alleanza sulle emergenze sociali. Un'agenda serrata di misure a sostegno dei ceti più bisognosi e contro l'assenza di futuro delle nuove generazioni. Non più test di cattolicità per gli inquilini dei Palazzi romani. Bensì collaborazione sui temi caldi della crisi attuale. Quello che è in atto è un cambio di strategia, un ritorno alla grande tradizione diplomatica della Santa Sede che fu di tutti i Pontefici della seconda metà del Novecento.
Le due udienze che Francesco ha concesso ieri al premier Enrico Letta e al sindaco di Roma Ignazio Marino hanno evidenziato bene quello che dal 13 marzo scorso, con la chiusura del Conclave, è iniziato di nuovo nei rapporti fra la Chiesa e il mondo della politica e delle istituzioni. Una tattica diversa, che mostra un primo e principale segno di discontinuità fra Francesco e il suo predecessore Benedetto XVI che quando ricevette in Vaticano Walter Veltroni sindaco di Roma lo redarguì pubblicamente per gli "attacchi insistenti e minacciosi " contro la famiglia tradizionale. Mentre il segretario di Stato Tarcisio Bertone fece lo stesso con il "cattolico adulto" Romano Prodi all'epoca dei Pacs. Un "modus operandi" a cui tutti, Conferenza episcopale italiana in testa, stanno cercando di adeguarsi.

Francesco ha chiesto a Letta lumi intorno alle "principali prove" che l'Italia e l'Unione Europea stanno sostenendo a proposito dell'adozione di misure che creino e tutelino l'occupazione, soprattutto giovanile. E, insieme, anche le preoccupazioni sul Medio Oriente. Mentre con Marino  -  giorni fa in piazza San Pietro il sindaco aveva già incontrato il Papa e gli aveva regalato il libro scritto con il comune amico Carlo Maria Martini  -  ha parlato di fragilità sociale, del disagio delle periferie, "del nostro impegno per una città che offra le stesse opportunità di studio a un bimbo o a una bimba, a prescindere dalla classe sociale a cui appartiene". Ciò su cui il Papa non si è per nulla soffermato sono i temi cosiddetti "non negoziabili", quei problemi che da tempo vedono contrapposta la Chiesa cattolica alla cultura dominante: aborto, eutanasia, matrimonio omosessuale. Temi presenti nelle agende politiche di governo e amministrazione comunale, al pari dei temi sociali.

Eppure, nessun accenno. Perché? In Vaticano spiegano: è un problema di strategia. Il Papa preferisce mantenere il riserbo sulle questioni che investono sensibilmente la sfera politica, piuttosto che esprimere con forza il punto di vista della Chiesa arrivando di fatto ad acuire le distanze.

Certo, il cattolico Letta non spaventa la Chiesa in merito. Eppure il Partito democratico, di cui fino a pochi mesi fa egli era vicesegretario, ha idee precise circa la maggior parte di questi temi sensibili. Marino, invece, sulla carta sembrerebbe preoccupare di più. Era il 2 giungo quando su Avvenire, quotidiano dei vescovi, apparve un appello rivolto a Marino e a Gianni Alemanno, sottoscritto da rappresentanti di associazioni cattoliche romane e nazionali (da Scienza e Vita e dal Forum Famiglie a Retinopera, fino a Rinnovamento nello Spirito e Mcl; ma con le assenze di Azione Cattolica, Acli, Sant'Egidio, Focolarini), nel quale si chiedeva ai due di prendere posizione riguardo alla libertà di scelta educativa per i genitori e alle scuole paritarie, il tema della vita nascente, quello dei registri dei testamenti biologici, e anche sulla tutela della famiglia, con una richiesta di dire se volessero istituire dei registri "per le unioni civili omosessuali". A questo appello Marino non rispose. Tanto che, pochi giorni dopo l'elezione, fu ancora Avvenire a insistere titolando così: "Campidoglio, rischio-deriva sui valori".

Il Papa e i vescovi italiani la pensano diversamente? Senz'altro no. Ma forse questi ultimi stanno comprendendo soltanto ora, a passi lenti, la nuova strategia papale. Ieri Letta e Marino sono stati ricevuti con le rispettive famiglie. L'abbraccio dato al sindaco di Roma è stato caloroso, quasi inusuale. Tutto è filato liscio. Per ora, niente sembra essere come prima. 
La Repubblica 5 luglio 2013

  
Il belpaese in rovina
Internazionale 2 luglio 2013
I carabinieri controllano i danni dopo un crollo Pompei, il 2 dicembre 2010. (Salvatore Laporta, Ap/Lapresse)
L’Italia, ripresa dall’Unesco per la cattiva gestione del sito archeologico di Pompei, ha un rapporto tormentato con il suo immenso patrimonio artistico e culturale. Ne è molto orgogliosa, non investe abbastanza nella sua conservazione.
“Negli ultimi cinque anni il bilancio del ministero della cultura è stato ridotto di due terzi”, ha ammesso lo stesso ministro della cultura Massimo Bray in un’intervista con Il Messaggero.
L’Italia spende solo l’1,1 per cento del suo bilancio alla cultura, nella classifica europea l’Italia è indietro rispetto all’Islanda (7,4 per cento), alla Spagna (3,3 per cento) e alla Francia (2,5 per cento). La media europea è del 2,2 per cento, scrive Le Point.
Questo scarso impegno ha delle conseguenze disastrose sui monumenti italiani. Ne è un esempio il degrado che colpisce gli scavi archeologici di Pompei, vicino a Napoli. Mentre a Londra il British Museum organizza una mostra su Pompei e Ercolano che registra il tutto esaurito, l’Italia trascura i resti delle città romane seppellite dalle ceneri del Vesuvio nel 79 dopo Cristo.
Il presidente della commissione nazionale per l’Unesco in Italia, Giovanni Puglisi, ha denunciato lo stato di abbandono e i danni in cui si trovano gli scavi. In particolare “l’esistenza di edifici abusivi” attorno al sito e “la carenza di sorveglianza” sugli scavi.
Scrive Le Figaro: “La minaccia alla conservazione di Pompei è reale. L’Italia non ha ancora attuato il piano di gestione programmata, adottato di comune accordo con l’Unesco nel marzo 2012. Questo piano prevedeva l’apertura di trentanove cantieri per salvare Pompei ed Ercolano entro il 2015. Ad oggi, solo due sono operativi”.
Oltre a problemi di manutenzione, l’Italia deve affrontare una carenza di personale per accogliere i turisti. La scorsa settimana, centinaia di turisti venuti a Roma per ammirare il Colosseo, l’Ultima cena di Leonardo da Vinci a Milano o la Galleria degli Uffizi a Firenze hanno trovato le porte chiuse per le riunioni sindacali e gli scioperi.
(Tony Gentile, Reuters/Contrasto)
Il Colosseo in rovina. Il numero dei visitatori del Colosseo, il più grande anfiteatro mai costruito nell’impero romano, è aumentato negli ultimi dieci anni. È passato da un milione a circa sei milioni di visitatori l’anno, anche grazie al successo del film Il Gladiatore di Ridley Scott (2000). Ma al momento è in cattive condizioni di conservazione. Il progetto di restauro, finanziato dall’imprenditore Diego Della Valle, dovrebbe partire a luglio dopo diversi ritardi.
“L’amministrazione dei beni culturali è in coma. Stiamo pagando il prezzo per le politiche disastrose degli ultimi anni”, ammette il famoso archeologo Salvatore Settis.
Una soluzione ai problemi del paese potrebbe venire dal contributo dell’Europa. Nel caso di Pompei, l’Unione europea si è impegnata a dare all’Italia fino a 41,8 milioni di euro per un restauro del sito di Pompei, attraverso il Grande progetto Pompei, un intervento di recupero che costerà in totale 105 milioni di euro.
Il caso In via Milano il sito industriale ha ancora materiale ad alto rischio

Ci sono tonnellate di Pcb
nei macchinari aziendali

Se l'azienda chiudesse sarebbero fuori controllo

La Caffaro di via MilanoLa Caffaro di via Milano
C'è una «bomba» ad orologeria all'interno dello stabilimento Caffaro. È composta da decine di quintali di Pcb presenti nei trasformatori dei macchinari. Se venissero abbandonati sarebbe altissimo il rischio che quei veleni fuoriescano finendo nel terreno. Non solo. Nell'azienda sono presenti ancora diversi quintali di fanghi di mercurio, pericolosa sostanza utilizzata in passato per la produzione del cloro.
«Per quanto riguarda i Pcb ci sono diverse tonnellate dentro ai macchinari - ci confida un operaio all'uscita della fabbrica su via Nullo - Per ora sono sotto controllo, le eventuali perdite vengono rilevate da allarmi ottici ed elettrici». Ma se l'azienda dovesse chiudere? «Sarebbe un problema enorme. Le guarnizioni si seccherebbero in poco tempo. Il pentaclorobenzene ed il triclorobenzolo finirebbero nelle vasche di contenimento, realizzate in cemento ma non ricoperte di vernici speciali per assicurarne l'impermeabilizzazione. Quindi i liquidi potrebbero finire nel terreno». E sarebbe un'altra enorme minaccia per la prima falda. La stessa che oggi viene tenuta artificialmente bassa per evitare che salga a sfiorare i primi 30 metri di terreno avvelenato presente sotto i capannoni. Quel terreno dove per novant'anni è finita una quantità enorme di sostanze chimiche sfuggite al ciclo produttivo.
Cloro, mercurio, pcb, solventi clorurati, tetracloruro di carbonio, Ddt ed altri pesticidi. Insomma, se dal 1936 al 1984 l'azienda chimica di via Milano ha prodotto 150mila tonnellate di Pcb e se un millesimo di questa produzione è finita nei fossi, contaminando centinaia di ettari di campi e arrivando fino nella Bassa, a Capriano del Colle, un'altra fetta della sua pesante eredità dorme ancora dentro la fabbrica. «Le cisterne sono state svuotate» assicurano i lavoratori ma i trasformatori e i refrigeratori dei macchinari necessari alla produzione di clorito e clorato di sodio (utilizzati per la potabilizzazione dell'acqua e venduti alla Dupont) contengono ancora delle grosse quantità di quei liquidi resistentissimi e non infiammabili. Una presenza scomoda anche per il rinnovo dell'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che la Provincia sta rinnovando. E senza la quale la Spa con sede a Pisa (che si è detta disposta a sostituire i macchinari) non può lavorare. La stessa Arpa ha sottolineato la critica presenza di quei fluidi oltre che la necessità di potenziare il filtraggio dell'acqua, visto che dall'azienda nel vaso Franzagola escono ancora 3 etti di policlorobifenili al mese. Altro capitolo scottante è quello dei fanghi contenenti mercurio: «Quando la Caffaro è stata messa in liquidazione nel 2009 il commissario Marco Cappelletto ha stanziato un po' di fondi per la bonifica, ma sono finiti presto» prosegue uno degli operai più anziani.
Tutti elementi di criticità che complicano ulteriormente il caso Caffaro. Che rendono ancora più «miseri» i 6,7 milioni stanziati nel 2006 dal ministero per la bonifica. Perché se i veleni hanno inquinato cento chilometri di rogge, 270 ettari di terreni agricoli, orti, parchi pubblici e l'enorme massa di terra sotto lo stabilimento (pari all'intero colle Cidneo) sono presenti ancora in grosse quantità dentro l'azienda. E proprio dall'azienda secondo gli operai andrebbe iniziata la bonifica, evitando di farla morire. Rendendo ancora più drammatico il disastro ambientale.
pgorlani@corriere.it

Del Bono: «Sesana commissario
per il sito Caffaro»

Il suo nome verrà proposto al ministro dell'Ambiente. La mossa strategica annunciata nel primo consiglio comunale

Giulio Sesana, ex direttore ArpaGiulio Sesana, ex direttore Arpa
Mossa strategica del sindaco Emilio Del Bono. Nel corso del primo consiglio comunale svoltosi lunedì 1 luglio ha pubblicamente annunciato che proporrà al ministro dell'Ambiente Andrea Orlando (in visita a Brescia il 20 luglio) il nome di Giulio Sesana, ex direttore Arpa Brescia come commissario ad acta per il sito di interesse nazionale Caffaro. Ha anche annunciato che istituirà una commissione indipendente per affrontare al meglio il problema e capire le eventuali responsabilità. Una mossa che rinsalda la volontà dell'amministrazione di affrontare il problema ambientale, visto che non mancheranno le intense sinergie con il nuovo assessore all'ambiente Gigi Fondra.
LE MOSSE IN AGENDA - Sesana (in pensione proprio dal 1 luglio. sostituito da Maria Luisa Pastore, ex direttrice dell'Arpa Monza) potrebbe così mettere a disposizione della città le numerose competenze ambientali assommate in questi anni e coordinare i necessari interventi di bonifica, a partire dal risanamento dei fossi inquinati, dei parchi pubblici e dei giardini privati, affrontando anche l'importante compito della messa in sicurezza della fabbrica di via Milano sotto la quale ci sono oltre 4 milioni di metri cubi di terra avvelenata. Proprio da lì sta ancora scorrendo verso la Bassa una limitata quantità di Pcb, circa 3 etti al mese.

LA FEDELI DI PISA, CHE LAVORA NELLO STABILIMENTO INTENZIONATA AD ANDARSENE IN FRIULI

Caffaro, rischio chiusura finale
con disastro ambientale

Far funzionare i pozzi costa 1,4 milioni l'anno: troppo per l'azienda che ha «in gestione» il capannone


La Emilio Fedeli spa, gestista da Donato Antonio Todisco, che ha in gestione un pezzo dell'ex azienda Caffaro, in amministrazione controllata da 4 anni, è stanca di pagare sobbarcarsi costi enormi della gestione ambientale. Per far funzionare le idrovore che pompano 10 miliardi di litri d'acqua l'anno dalla falda, mantenendola così bassa ed evitando che salga a toccare i veleni dispersi dall'azienda in un secolo di attività, spende circa un milione e mezzo l'anno. Costi energetici troppo alti. Per questo l'azienda sarebbe intenzionata a trasferirsi nello stabilimento di Torviscosa (Udine) dove il gruppo Caffaro ha un altro stabilimento. Ma se le pompe smettessero di emungere l'acqua ci sarebbe il rischio di una piccola catastrofe ambientale, visto che la falda salirebbe a toccare gli inquinanti (Pcb, mercurio, solventi clorurati, pesticidi) con un serio rischio anche per la potabilità dell'acquedotto cittadino. Le intenzioni dell'azienda di Pisa sono state diffuse dalla Cgil. La prossima settimana il sindaco Del Bono incontrerà i vertici dell'azienda per scongiurare questa ipotesi.
Decreto carceri: si può fare di più

Lo sconto per buona condotta resta di 45 giorni: saltata l'ipotesi ventilata nei giorni scorsi grazie alla quale per ogni sei mesi scontati senza rapporti disciplinari lo sconto di pena sarebbe stato portato a 60 giorni.

L'affidamento ai servizi sociali e la possibilità di sospendere l'esecuzione della pena restano fermi ai tre anni di pena: dunque saltata l'ipotesi di estendere questa misura per reati fino a 4 anni. Unica novità: cancellati i vincoli della ex Cirielli. Certo una buona novità, ma accompagnata da troppa cautela: infatti, se prima il magistrato in base alla legge non poteva concedere le misure alternative a recidivi reiterati (ovvero che avevano commesso il reato tre volte) ora se vuole, se ci sono le condizioni, a suo giudizio, può concedere le misure alternative. Insomma nessun automatismo e molta discrezionalità. Ovviamente esclusi da questi benefici i reati più gravi (4 bis) come ad esempio la rapina.

Sono queste in grande sintesi e a una veloce lettura le novità del decreto sulle carceri approvato stamane dal Consiglio dei Ministri. Azzardo: sarà tanto se entro l'anno usciranno duemila detenuti.

In conclusione: considerando che nelle carceri italiane ci sono oltre ventimila detenuti in più delle celle disponibili; considerando che ci sono oltre 50 mamme con bambini piccoli sotto i tre anni; che sono alcune migliaia i malati che avrebbero bisogno di cure mediche in ospedale; che per molti tossicodipendenti non ci sono alternative vere; che per tanti detenuti stranieri sarà impossibile accedere ai domiciliari perché privi di alloggio; che sono attualmente in carcere almeno 10 mila persone con una pena inferiore a un anno; che il 50 per cento dei detenuti in attesa di giudizio alla fine viene riconosciuto innocente...

Beh, per tutto questo... considerando l'emergenza, la condanna della Corte Europea dei diritti dell'uomo e infine le attese di tanti per un carcere dove sia rispettato l'articolo 27 della Costituzione... sono convinto che uno sforzo in più potesse essere fatto. Continuiamo a sperare. Nel nome del Diritto.

Francesco Lo Piccolo


De Benedetti: "La Bossi-Fini ha fallito, ha creato irregolarità e criminalità"

Lunedì 24 Giugno 2013
Il presidente della Fondazione De Benedetti: “Più sono gli irregolari, più crescono i reati”. Kyenge;: “No a etnicizzazione del crimine”
Roma – 24 giugno 2013 – Leggi troppo restrittive creano irregolarità. Ed è nell’irregolarità che cresce anche la criminlità. Concetti che spesso sfuggono all’opinione pubblica, se il 53% della popolazione associa il termine immigrazione al concetto di criminalità, e solo l'8% all'idea di integrazione.
Del rapporto tra immigrazione irregolare e criminalita' si e' discusso in occasione della XV conferenza europea ''Carriere legali ed illegali'', promossa dalla fondazione Rodolfo de Benedetti, che si e' svolta sabato a Caserta con il contributo di docenti ed istituzioni.
''Che la Bossi-Fini abbia fallito - ha sottolineato Carlo De Benedetti, presidente della fondazione Rodolfo De Benedetti - lo ha ammesso lo stesso Fini. La gente ha acquisito l'equazione immigrazione uguale criminalita'. Ma non e' cosi'. Infatti, e' solo con l'immigrazione irregolare che aumenta la criminalita'. E l'immigrazione irregolare e' dimostrato sia aumentata con regole piu' strette: tanto piu' sono gli irregolari, tanto piu' crescono i reati, spesso compiuti da chi dovendo sopravvivere diventa manovalanza della criminalita'''.
Questo trend può essere ribaltato puntando sull'integrazione più che su leggi restrittive. Spiega Tito Boeri: ''Le persone che hanno goduto di un permesso di soggiorno col click-day, hanno violato la legge meno degli altri nell'anno successivo''.
 Il problema carceri (con oltre un terzo dei detenuti di origine straniera) rimane uno dei nodi irrisolti affrontati dalla fondazione. ''Ci stiamo lavorando, predisponendo misure strutturali'' fa sapere in un messaggio letto in apertura del convegno il Guardasigilli, Annamaria Cancellieri. ''Penso - e' l'idea di De Benedetti - che l'indulto serva a poco. Meglio costruire nuove carceri, magari nelle periferie delle grandi citta', mettendo in vendita vecchi penitenziari che sorgono al centro delle citta', penso per esempio a Regina Coeli''.
Sull'eccessiva enfasi che i media danno ai crimini commessi dagli immigrati convergono De Benedetti ed il ministro Kyenge per la quale ''nel rapporto tra immigrazione e criminalita' c'e' un problema di tipo culturale sul quale c'e' molto da fare''.
Per il ministro troppo spesso ''i media danno molta enfasi ai crimini commessi dagli immigrati mentre il crimine non va etnicizzato''. La tesi del ministro e' ''che davanti alla legge si e' tutti uguali'' e che dunque va giudicato il crimine per quello che e', a prescindere da chi lo commette. ''Vanno condannati i reati - ha concluso - non le identita' di chi li commette. Nostro dovere e' combattere la violenza, che sia messa in atto dagli italiani o dagli stranieri"

 

Giovanni De Mauro














Paradosso


Ci sono diversi paradossi nelle rivelazioni del Guardian su Prism, il sistema di sorveglianza messo in piedi dalla National security agency. Il primo lo sottolinea Evgeny Morozov: è difficile convincersi che questo sistema di sorveglianza funzioni visto che la Nsa non riesce a controllare neanche i suoi impiegati.
Il secondo: il 56 per cento dei cittadini statunitensi pensa che Prism sia un modo accettabile per combattere il terrorismo. “C’è una notiziola di cui vorrei parlarti”, ha detto qualche giorno fa Janine Gibson, caporedattrice dell’edizione americana del Guardian, ad Alan Rusbridger, il suo direttore. Rusbridger è volato a New York e da lì hanno coordinato uno degli scoop più importanti della storia del giornalismo, che è anche il primo del Guardian negli Stati Uniti. Con 57 dipendenti, di cui solo 29 giornalisti, la presenza del quotidiano londinese in America è ancora modesta. Ma non dal punto di vista del pubblico che riesce a raggiungere.
Il Guardian è un quotidiano di medie dimensioni nel Regno Unito, dove perde terreno anno dopo anno e oggi vende circa duecentomila copie, però è il terzo sito tra i quotidiani di tutto il mondo con 40 milioni di visitatori unici al mese, di cui un terzo negli Stati Uniti. Ha appena lanciato anche un’edizione in Australia, e il suo progetto è sempre più chiaro: affermarsi come una fonte d’informazione globale, una voce di sinistra e liberal nel mondo. Un altro paradosso è che l’edizione di carta del Guardian è quasi introvabile negli Stati Uniti, perché la sua strategia di espansione oltreoceano non è basata sui ricavi in edicola, ma sulla pubblicità online. E il suo scoop dimostra una volta di più che per raggiungere tanti lettori non è necessario scendere a compromessi con la qualità giornalistica.

Internazionale, numero 1004, 14 giugno 2013














Al via la maturità per 500mila tra nodo dei bonus e molta paura


Si parte il 19 giugno.  Incongruenze nel meccanismo di calcolo del bonus per l'accesso alle università. Dipende dall'istituto e modifica il voto ottenuto dai singoli ragazzi

di SALVO INTRAVAIA
Al via la maturità per 500mila tra nodo dei bonus e molta paura
Tra polemiche e novità partono gli esami di maturità 2013. I primi a lasciare i banchi di scuola saranno – il prossimo 6 giugno – gli alunni emiliani. Gli ultimi – il 14 giugno – quelli della provincia autonoma di Bolzano. La monotonia degli anni precedenti, quest’anno, è stata scossa dalla questione del bonus-maturità lanciato dall’ex ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, che ha reso operativo il collegamento tra carriera scolastica e accesso all’università a numero chiuso. Per il resto, il rito della maturità si ripeterà come gli anni passati: prova di Italiano con la consueta fuga di notizie dalle aule poco dopo la dettatura della traccia ed esami che si snoderanno fino a luglio con il colloquio pluridisciplinare. Le novità di quest’anno sono due: il bonus che si potrà spendere per l’accesso alle facoltà a numero programmato a livello nazionale – Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura e Professioni sanitarie – e la data di chiusura degli esami, per la prima volta indicata dal ministero sulla circolare relativa agli esami.
Le novità. Da quest’anno, il voto di maturità – purché superiore o uguale a 80 centesimi – consentirà agli studenti che intendono vestire il camice bianco o ai colleghi che intendono intraprendere la carriera di architetto di guadagnare un bonus – da 4 a 10 punti – che si andrà a sommare all’esito del test di ammissione, il cui voto sarà espresso in novantesimi. Ma il meccanismo tirato fuori dal ministero – per fronteggiare i diplomifici dove fioccano voti altissimi – ha prodotto una serie di incongruenze che creeranno certamente mille polemiche e disparità anche tra alunni della stessa città. L’attribuzione del bonus è infatti legato ai voti della maturità conseguiti lo scorso anno dagli alunni della stessa scuola e varia da istituto ad istituto. Un criterio che permetterà, ad alunni che conseguiranno un voto inferiore, di acciuffare un bonus più alto di compagni che si diplomeranno con votazioni maggiori.
Candidati alla maturità. Seguendo un trend in atto da qualche anno i candidati alla maturità sono ancora in calo. Stando ai dati forniti dal ministero, che continua con la politica di trasparenza sui numeri, i candidati alla maturità saranno oltre 491mila, di cui 50mila in forza nelle paritarie. Ma a raggiungere le prove d’esame saranno un numero inferiore di studenti, visto che ancora occorrerà sottrarre i non ammessi agli esami dagli stessi insegnanti interni della scuola. L’anno scorso furono 5,6 su cento.
La macchina della maturità. La complessa macchina della maturità è ormai pronta. Le commissioni sono state pubblicate lo scorso 3 giugno. Quest’anno, dal cervellone di viale Trastevere sono uscite oltre 12mila commissioni che vedranno impegnati per 4/5 settimane di stressante lavoro estivo – dopo un certo turn-over per gli insegnanti che si metteranno in malattia  – quasi 37mila commissari esterni e 73mila membri interni, coordinati da 12 mila presidenti di commissione. In tutto, oltre 122mila presidi e professori che passeranno in rassegna i circa 464mila studenti che arriveranno agli esami, dopo essere passati dal giudizio dei prof interni.
Gli esami. Il d-day è fissato per mercoledì 19 giugno, quando gli studenti saranno chiamati ad affrontare la prova scritta di italiano optando tra le ormai consuete quattro formule previste dalla normativa: analisi del testo, saggio breve/articolo di giornale, tema storico e tema di attualità. E già circola sul web l’immancabile tototema. Anche quest’anno il plico contenente la traccia della prova sarà online. Il giorno dopo, sarà la volta del compito di Matematica allo scientifico e della versione di Latino al classico per la seconda prova scritta. E lunedì 24 giugno gli studenti saranno chiamati a svolgere la terza prova scritta, sotto forma quasi sempre di quizzone con domande a risposta multipla e a risposta aperta. A questo punto entrano in gioco le commissioni che correggeranno i compiti, pubblicheranno i risultati degli scritti e avvieranno i colloqui: cinque candidati al giorno al massimo fino al 18 luglio.
 














Frontiera

Giovanni De Mauro



Ai 13.500 giornalisti statunitensi che negli ultimi tre anni hanno perso il lavoro si sono appena aggiunti i 28 fotoreporter del Chicago Sun-Times, il secondo quotidiano più importante di Chicago, che il 30 maggio hanno ricevuto una lettera di licenziamento. “Il nostro giornale si sta evolvendo insieme ai suoi lettori”, ha detto in un comunicato la proprietà.
Ricordate il drammatico video dell’uomo che ha ucciso un soldato a Londra, ripreso con le mani insanguinate e una mannaia in mano? È stato trasmesso da Itv News e poi dalle tv di tutto il mondo. Ma non l’ha girato un giornalista. Il video è stato fatto con un BlackBerry da una persona che si trovava lì per caso (stava andando a fare un colloquio di lavoro). Qualche anno fa, a Ferrara, David Randall si divertì a chiedere alle centinaia di ragazzi e ragazze che l’ascoltavano quanti sarebbero stati disposti a farsi operare d’appendicite da un “citizen chirurgo” o a farsi difendere in tribunale da un “citizen avvocato”. Il citizen journalism, cioè il giornalismo partecipativo, quello che coinvolge attivamente i lettori, offre grandi opportunità.
Soprattutto oggi che con gli smartphone si possono scattare foto, girare video, scrivere testi da qualunque angolo del pianeta. È impossibile che i giornalisti riescano ogni volta a trovarsi nel posto giusto al momento giusto, mentre è sempre più probabile che lì dove succede qualcosa ci sia almeno una persona con uno smartphone. Per questo i citizen journalist sono alleati dei giornalisti. E viceversa: senza l’esperienza dei giornalisti professionisti, senza la loro capacità di dare un senso al materiale grezzo che arriva dai lettori, quel flusso resta informe. È solo quando finisce in prima pagina sul New York Times che la foto scattata da un lettore diventa una notizia. Jay Rosen, della New York university, ha parlato di networked reporting. È una nuova frontiera, e la stiamo attraversando ora.
Internazionale, numero 1003, 7 giugno 2013

 

Che cosa succede se Grillo vola via


Stefano Menichini 

Europa  
 
Comunque vada, la crisi di M5S lascia liberi eletti ed elettori. Qualcuno potrebbe pensare che la legislatura grillina possa già chiudersi
Siamo andati a chiederlo a qualche elettore vip, ai simpatizzanti dichiarati di Beppe Grillo: che cosa sta succedendo? Che cosa ne è della spinta propulsiva di Cinquestelle, non solo a quattro mesi dal trionfo elettorale ma a meno di due mesi dalla vicenda del Quirinale, dalla quale obiettivamente i grillini sembravano essere usciti con ben altra coerenza e solidità rispetto, per dire, al Pd?
Dario Fo è granitico nella sua fiducia verso Grillo, pensa per esempio che l’ostracismo dichiarato alla Rai e ai giornalisti sia meritato e sacrosanto. Marco Travaglio al contrario è convinto che, con M5S in parlamento, Grillo avrebbe dovuto assolvere a precisi doveri di trasparenza rispetto ai media. Per un altro giornalista, Cruciani, il vero buco nero è nell’incompetenza media dei parlamentari. In generale, la delusione clamorosamente leggibile nel voto amministrativo è condivisa da quella fetta di intellighenzia che aveva puntato sul movimento in una logica anti-sistema.
Come avverte anche Ilvo Diamanti, è presto per dichiarare chiusa l’avventura M5S. Il clima circostante però è talmente cambiato che tutti devono rifare calcoli politici che erano tagliati sullo scenario di un terzo del parlamento arroccato a lungo termine su posizioni d’opposizione senza margini di dialogo né recupero.
A oggi, parlando dei parlamentari fedeli alla linea dura di Grillo e Casaleggio, nessuno può essere sicuro su quanti saranno e che cosa faranno fra appena un mese. Sulle mosse del fondatore si può fare qualsiasi ipotesi: potrebbe seguire i consigli dei simpatizzanti e cominciare a “fare politica” (improbabile); rinchiudersi in un fortino con meno eletti ma più fedeli (facile), o addirittura decretare la fine di un’intera fase di Cinquestelle voltando le spalle al parlamento “tomba maleodorante”.
In ogni caso, inevitabilmente si libereranno forze in parlamento. Mentre – molto più importante agli occhi dei partiti – sono già tornate “libere” enormi fette del mercato elettorale.
Il primo fenomeno, e ancor più il secondo, andranno osservati con attenzione dall’osservatorio di palazzo Chigi. Se è vero che la diciassettesima legislatura è nata nel segno di Grillo, quando questo segno dovesse sbiadirsi qualcuno potrebbe pensare di cancellare anche gli equilibri politici che la legislatura ha generato. E magari cancellare la legislatura stessa, riforme o non riforme.



















Basta con lo sproporzionato potere leghista al Nord

La Repubblica martedì, 11 giugno 2013

Naufraga fra i canali della marca trevigiana la strategia con cui Maroni aveva sperato di resuscitare la Lega, dopo che già erano state sconfitte le sue velleità separatiste: trasformarla in succursale nordista del berlusconismo, federando al suo interno il notabilato locale conservatore, restio ai vaniloqui sulla Padania ma desideroso di restare al potere, magari aggrappandosi a localismi di stampo bavarese o carinziano.
Doveva essere la terza metamorfosi di un movimento che in 25 anni non è riuscito a fare la sua rivoluzione, ma invece si era inserito con abilità nelle fragilità culturali di una destra illiberale vincenti, traslocando a Roma la sua classe dirigente, identificandosi con quel malgoverno e replicandone gli scandali, fino a rendere impossibile disciogliere il vincolo di sudditanza da Berlusconi.
Un colpo di mano ideato da Bossi nel 2010, con la complicità di Tremonti, profittando del momento di massima debolezza del Cavaliere, aveva regalato al leghismo l’orgasmo di una Padania apparente: Zaia in Veneto e Cota in Piemonte al vertice di regioni in cui davvero l’elettorato di destra sceglieva Lega di fronte a un Pdl che andava in frantumi. Ma che di mera illusione ottica si trattasse, lo aveva già dimostrato, prima della disfatta di ieri, il paradosso Maroni: pur di coronare il sogno, e congiungere dal Pirellone lombardo i lembi di una ricca maxi-regione, il segretario leghista si dichiarava pronto a rinunciare alla segreteria politica del suo movimento e a rinnovare il patto indecente con lo screditato Formigoni. Così, quello che in teoria avrebbe dovuto risaltare come il momento della massima forza leghista, rivelava platealmente il suo bluff. Maroni aveva dovuto umiliare pubblicamente Bossi e, con il fondatore, non colpiva solo il malcostume delle appropriazioni indebite di soldi pubblici, ma le stesse fondamenta indipendentiste. Ad agitarle delegava un giovane compiaciuto nelle ostentazioni xenofobe ma privo di radicamento significativo, Matteo Salvini. Ma a tutti era chiaro che il vero braccio destro di Maroni era Flavio Tosi, il sindaco di Verona che per primo aveva teorizzato la trasformazione del leghismo in federazione di liste civiche.
Paradosso nel paradosso, Flavio Tosi da ieri è il primo della lista degli sconfitti, avendo perso la roccaforte simbolica di Treviso, anche perché non ha saputo fare a meno di ricandidarvi una figura detestabile per la sua matrice reazionaria, fascistoide e razzista, per giunta prossimo a compiere 84 anni, di cui gli ultimi venti trascorsi come Federale di Treviso: Giancarlo Gentilizi. Credo che l’Italia civile debba riconoscenza ai cittadini di Treviso che ci hanno liberato da una simile leadership che le recava oltraggio. Ma la sconfitta del Carroccio è generalizzata, senza guardare troppo alle singole candidature.
Maroni che aveva contravvenuto alla sua promessa di dimettersi da segretario del partito, una volta divenuto presidente della Regione Lombardia, e per questo aveva rinviato la scadenza congressuale all’estate 2014, ora non potrà ignorare le accuse di tradimento rivoltegli da Umberto Bossi con non casuale scelta di tempi. Bossi fino a ieri poteva apparire una figura patetica e isolata, ma ora è probabile che gli stessi governatori del Veneto (Zaia è in perenne contrasto con Tosi) e del Piemonte (Cota ha rapporti tesi con Maroni) finiscano per affiancarlo in uno scontro interno dall’esito incerto.
Il dissolversi dell’elettorato leghista, mai così esiguo da decenni, rende improbabile che il Nord sofferente per la crisi torni in futuro a investire su un revival di Bossi, preso atto del fallimento della leadership di Maroni che ha lavorato bene per sé ma non certo per il partito. Ciò non significa che le pulsioni separatiste e reazionarie in cui per un quarto di secolo si è riversata la questione settentrionale abbiano fatto il loro tempo. Troveranno nuovi attori protagonisti.
Ma intanto il Nord Italia deve fare i conti con un’anomalia democratica evidente: le sue tre principali regioni –Lombardia, Veneto, Piemonte- sono guidate da altrettanti esponenti di un partito ultraminoritario che ha profittato della ricattabilità di Berlusconi per impossessarsi di un potere sproporzionato. Il naufragio della Lega segnala questo nodo da sciogliere a un Nord Italia ormai amministrato in larga misura da sindaci di centrosinistra. E se anche Maroni, per rimanere abbarbicato al poco che gli resta, continuerà a garantire una benevola astensione al governo Letta, il suo bluff va ben evidenziato. Se non altro i leghisti abbiano la compiacenza di smetterla di spacciarsi come portavoce del popolo del Nord, quando sono un partitino che non raggiunge il 5%.

Dalle urne più forti Renzi

e la vocazione maggioritaria 

 

Il Pd ha bisogno che il governo non fallisca ma anche di fare le riforme
Lo straordinario successo delle amministrative dovrebbe avere sul Pd un effetto stabilizzante. Da un lato, i ballottaggi hanno dimostrato che le larghe intese e il governo Letta-Alfano, al contrario di quel che si è detto e scritto per settimane da parte dei soliti “profeti di sventura”, fanno male al Pdl (per non dire del M5S) e bene, si direbbe molto bene, al Pd.
Dall’altro, la vittoria riconsegna intatto al Pd il problema di sempre: come trasformare la prevalenza alle amministrative in vera supremazia alle politiche. Quando vota anche l’Italia “profonda” (e non solo quella delle città) e tornano a votare anche molti astenuti, alle amministrative prevalentemente di centrodestra.
La comprensibile (e strameritata) euforia di queste ore non deve infatti farci dimenticare, senza nulla togliere al valore dimostrato dai nostri candidati e dal Pd nel suo insieme, che l’altra volta, in queste stesse città che hanno visto oggi la schiacciante vittoria del centrosinistra, si era votato insieme alle politiche: con gli effetti sulla partecipazione al voto e sull’orientamento dell’elettorato che sono facilmente comprensibili.
In ogni caso, mai come dopo il voto di domenica e lunedì, il problema del Pd (e del segretario Epifani, che ha già al suo attivo il non trascurabile merito di aver rasserenato il clima interno al partito) è chiaramente quello di come valorizzare appieno, per stare al dibattito pubblico di questi giorni, entrambe le principali “risorse” di cui dispone. Non mi riferisco soltanto alle due giovani personalità che ormai occupano autorevolmente la scena democrat: Enrico Letta e Matteo Renzi.
Ma anche e soprattutto alle due grandi sfide che esse evocano: da un lato, la prova di governo, che si è dimostrato essere condivisa e apprezzata, o quanto meno compresa e accettata, dalla gran parte dei nostri elettori, ma che resta un’impresa di straordinaria difficoltà, dalla quale dipende non poca parte della credibilità del Pd agli occhi del paese; dall’altro, la “vocazione maggioritaria”, cioè la tensione a conquistare, anche grazie alla prova di governo e alla nostra capacità di “elaborarla” politicamente, una parte consistente dei voti in fuga dal centrodestra, in modo da produrre quel riallineamento elettorale, quel cambiamento strutturale dei rapporti di forza nel paese profondo, senza il quale non potrà mai darsi una vera vittoria del centrosinistra e dunque un vero governo del Pd.
In questa prospettiva, la candidatura di Matteo Renzi alla guida del Pd, un’ipotesi che il sindaco di Firenze sembra oggi considerare quanto meno possibile, mi parrebbe una opportunità che sarebbe un errore grave non cogliere. Il Pd ha infatti non solo interesse, ma bisogno, un bisogno vitale, che il difficile esperimento del governo Letta-Alfano abbia successo. Non servono molte parole per argomentare questa convinzione: basti immaginare in che condizione verrebbe a trovarsi l’Italia se l’esperimento fallisse, se il governo non riuscisse a creare le condizioni di una ripresa della crescita e dell’occupazione e se le forze politiche di questa difficile maggioranza parlamentare dovessero, ancora una volta, dimostrarsi incapaci di un accordo, di una mediazione alta, sulle riforme costituzionali.
Ma il successo del governo Letta-Alfano, se richiede tutta la pazienza e la duttilità di cui siamo capaci e della quale, per fortuna, Enrico Letta dispone in abbondanza, non verrà, non potrà venire, dall’utilizzo sistematico di istituti a lungo utilizzati nella logica del “governo debole” italiano: il rinvio, la proroga, la deroga. Su questo Renzi ha ragione da vendere (e Letta mostra di condividere): il governo durerà, non se saprà abilmente “tirare a campare”, ma solo se saprà fare le riforme che sono necessarie al paese, sia sul terreno economico e sociale, sia su quello politico e istituzionale.
Dunque, il Pd che serve al governo non è un partito che frena le riforme, nell’illusoria speranza che si possa prolungare artificialmente la vita della politica che componeva i conflitti redistributivi scaricando i costi sulla spesa pubblica e in definitiva sulle generazioni future; o nella tenace resistenza ad ogni cambiamento di una forma di governo che appariva inadeguata già ai padri costituenti.
Il Pd che serve al governo (e in definitiva al paese) è un partito che organizza il consenso attorno ad una prospettiva riformista, ad un progetto di cambiamento capace al tempo stesso di visione e di concretezza, di radicalità morale e di apertura inclusiva, motivando e mobilitando le tante energie che il pluralismo della sinistra italiana ha prodotto, ma guardando ben oltre i tradizionali confini della sinistra italiana. È solo vincendo questa prova che sarà possibile vincere anche quella successiva, quella delle elezioni che dovranno darci finalmente un governo del Pd, un governo che apra quel ciclo riformista che l’Italia non ha mai conosciuto.
Sconfitta nelle urne, svuotata da Grillo, la destra è allo sbando: torna la violenza?

Dopo l'agguato neofascista di Velletri ai 99 Posse riemerge una domanda. In attesa dell'esito del voto di Roma






















Un agguato preparato con cura ai 99 Posse e al loro cantante Zulù, ferito da una banda di neofascisti a Velletri. Una molotov lanciata contro il portone del centro sociale Astra 19 a Roma. Negli ultimi giorni, mentre da Parigi arrivava la terribile notizia della morte di Clément Méric, il diciottenne militante antifascista aggredito selvaggiamente da alcuni skinheads neonazisti e deceduto dopo una brutta caduta, anche nel nostro paese la cronaca ha cominciato a segnalare alcuni episodi che potrebbero annunciare un violento risveglio dell’estrema destra. In Francia, molti osservatori concordano nell’attribuire il riemergere dei gruppi della destra radicale al clima pesante che si respira nel paese da diversi mesi: in particolare da quando i conservatori hanno deciso, con la scusa dell’opposizione ai “matrimoni gay”, di puntare tutto sulla piazza per tentare di dare una spallata al traballante esecutivo progressista e al presidente Hollande.
E in Italia? Quali potrebbero essere le ragioni di un “ritorno di fiamma” dell’estrema destra? Nel porsi un simile quesito si devono considerare innanzitutto due fattori, entrambi legati più alla politica e ai “palazzi” che alla strada. Il primo riguarda i “numeri” attuali dell’ultradestra, il secondo – che potrebbe passare anche per l’esito del ballottaggio per il Campidoglio tra Alemanno e Marino – le sue prospettive politico-organizzative.
Nel lungo ventennio berlusconiano il neofascismo – o se si preferisce “il fascismo del Terzo millennio – aveva finito per molti versi per essere risucchiato nella spirale della “destra plurale” di governo: dall’asse Lega-Forza Nuova contro gli immigrati al Nord, alle “serate letterarie” di CasaPound a Roma dove sono passati sottosegretari e intellettuali organici del centrodestra, solo per citare due esempi.
Poi, di fronte all’emergere della crisi economica e al lento sfumare del carisma del Cavaliere, la stessa galassia nera ha cercato di reinventarsi in chiave più smaccatamente anti-sistema – traendo ispirazione chi da Alba Dorata chi dal Front National di Marine Le Pen. Peccato che su questa strada abbia incontrato un valido competitor: secondo l’analisi dei flussi elettorali realizzata dall’Istituto Cattaneo all’indomani delle politiche di febbraio, «tra il 25% e il 35% di questo elettorato è andato al Movimento 5 Stelle».
Persa così l’occasione di cavalcare (evolianamente) la tigre del malessere sociale, alla destra della destra non resta che sperare in una qualche sorta di palingenesi organizzativa. E l’ultima frontiera in questa prospettiva potrebbe essere legata proprio al destino del sindaco di Roma. Questo perché l’ex leader della destra sociale di An, a lungo, fin dai tempi del Fronte della gioventù, punto di riferimento dell’area identitaria della destra, è l’unico che potrebbe guidare un’ipotetica ricostruzione comunitaria del mondo politico che si situa oltre il partito unico berlusconiano. Prospettiva che però non è detto interessi ad Alemanno. Eterno o potenziale numero due, prima con Fini tra i giovani del Msi e poi in An, quindi (autoproclamato) con lo stesso Berlusconi, una volta sconfitto, Alemanno dovrebbe inventare per sé e per l’area che a lui guarda con attenzione, un nuovo ruolo e una nuova prospettiva. Prospettiva che potrebbe andare anche oltre l’attuale profilo del Pdl, dove i postfascisti non pesano quasi più niente, per puntare, come gli ha consigliato da tempo Francesco Storace, a rimettere insieme le truppe disperse della destra nazionale. Forse in questo modo si potrebbe anche evitare che il vento rabbioso che è cresciuto nelle piazze delle destre transalpine, arrivi a soffiare anche da noi.
Immigrati dietro le sbarre
Il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) che si trova alle porte di Roma non è ufficialmente una prigione, ma la differenza sembra essere solo una questione semantica.
Delle alte inferriate separano file di baracche che di notte vengono chiuse a chiave, mentre il cortile resta illuminato a giorno. Ci sono videocamere di sicurezza ovunque, le guardie sono in tenuta antisommossa, le persone recluse possono spostarsi solo in alcune zone del centro e possono indossare solo ciabatte.
Il Cie di Ponte Galeria è una delle undici strutture simili esistenti in Italia. Secondo le autorità servono a regolare l’immigrazione irregolare e rispettano le linee guida dell’Unione europea. Ma sono sempre più numerose le critiche che le accusano di essere disumane, inutili e troppo costose. Elisabetta Povoledo del New York Times ha incontrato alcune delle persone che vivono in questo limbo tutto italiano.
internazionale 06/06/2013
l primo cittadino di Firenze: «I saggi? La politica fa così se non vuole risolvere le cose»
Renzi pronto a correre per la guida del Pd
«Segretario e sindaco non sono incompatibili»
«Sono stanco di passare per il monello in cerca di un posto. Il pranzo con Briatore? No a questo moralismo senza morale»

 BRESCIA - Matteo Renzi fatica a camminare tra la stazione e la metropolitana di Brescia, tutti tentano di fermarlo, qualcuno ha scritto a mano su foglietti di carta: «Renzi segretario». «È così dappertutto. Sono stato in posti dove non è andato nessuno: prima in Friuli per la Serracchiani, poi a Treviso, Vicenza, San Donà di Piave, Villafranca. Visti i risultati dei nostri candidati sindaci, mi sono convinto che il Pd può vincere ovunque, anche in Veneto, anche qui in Lombardia. La nostra gente ci chiede soprattutto questo: stavolta fateci vincere davvero. Perché noi non abbiamo mai davvero vinto: nel '96 facemmo la desistenza che provocò poi la caduta di Prodi; nel 2006 arrivammo primi con 24 mila voti mettendo insieme Turigliatto e Mastella, Luxuria e Lamberto Dini; stavolta abbiamo mancato un gol a porta vuota. Noi dobbiamo dare una risposta alla nostra gente, agli emiliani che sono stati i primi a dire no a Marini, ai bersaniani che in queste ore mi chiedono: Matteo ora basta, ci stai o no?».
Appunto: ci sta o no? Si candiderà alle primarie per la segreteria del Pd?
«Dipende dal Pd, non da me. Se riusciamo a uscire dalla palude, a imporre i nostri temi, la nostra gente capirà il governo con il Pdl. Se tiriamo a campare, se ci facciamo dettare l'agenda da Berlusconi, se non riusciamo a fare le riforme, allora...».
Le pare che le riforme siano partite bene?
«La prima cosa dovrebbe essere la legge elettorale. Invece vedo che la si vuol mettere per ultima. È sbagliato. È l'idea che "il problema è ben un altro" che porta a non far niente. Se non si trova un accordo sul sistema elettorale, mi pare difficile che lo si trovi su tutta la riforma dello Stato».
La vedo scettico.
«Sento che si parla di saggi, di commissioni. Ma non occorre un saggio per dire ad esempio che la burocrazia italiana è da rifare; te lo dice anche uno scemo. Quando la politica non vuole risolvere le cose, fa una commissione. Invece bisognerebbe chiudersi in una stanza e decidere».
Quindi lei è a un passo dalla candidatura.
«Io mi sono stancato di passare per il monello in cerca di un posto, il ragazzo tarantolato con la passione del potere. Sono l'unico che non si è seduto su nessuna poltrona ed è rimasto dov'era prima. Se c'è bisogno di me, me lo diranno i sindaci, i militanti. Persone che stimo molto, mi consigliavano di non farlo; ora però si vanno convincendo anche loro. Di sicuro, se succede, non sarà come l'altra volta una campagna improvvisata, per quanto bella. C'è bisogno di una squadra ben definita».
A quali nomi pensa?
«I migliori in ogni campo: energia, scuola, innovazione tecnologica. Di solito ai politici interessa il loro futuro personale. Io non ho ancora le idee chiare sul mio futuro, ma le ho chiarissime sul Pd e sull'Italia. Noi tra dieci anni possiamo essere la locomotiva d'Europa. Ma dobbiamo cambiare. Dobbiamo aiutare gli imprenditori invece di ostacolarli. Dobbiamo abbassare il costo dell'energia. Dobbiamo avere il coraggio di dire al Sulcis che non ha senso andare avanti con il carbone di Mussolini pagato dallo Stato».
Perché non può farle il governo Letta queste cose?
«Io spero che Letta abbia successo. Lo stimo, abbiamo un bel rapporto. Apprezzo il suo equilibrio; mi convincerà meno se cercherà l'equilibrismo. Non so fino a quando potremo governare con Schifani e Brunetta, i loro capigruppo. Il governo dura se fa le cose. È come andare in bicicletta: se non pedali, cadi. Io posso anche uscire a cena con gente che non sopporto, ma solo se il cibo è buono, la conversazione decolla e dopo si va a vedere un bel film. Se invece si resta in silenzio, meglio alzarsi e andarsene».
A leggere il suo libro, sembra quasi che le abbiano fatto intravedere Palazzo Chigi mentre c'era già un accordo alle sue spalle...
«Non credo sia così. La verità è che non era il mio turno. A Palazzo Chigi io andrei per smontare tutto e ricostruire daccapo: il fisco, la burocrazia. Per fare questo occorre un mandato forte. Letta dice che ci vuole il cacciavite. Io userei il trapano».
Non crede che se lei fosse eletto segretario il governo rischierebbe di cadere in pochi mesi, come Prodi quando divenne segretario Veltroni?
«Il rischio c'è. Anche più grave di quello del 2007: allora c'era un governo di centrosinistra, questo è un governo che vede sinistra e destra insieme. Ma sarebbe ancora peggio vivacchiare senza risolvere nulla, perdere un altro giro».
Dovrà scegliere tra segretario del Pd e sindaco di Firenze?
«Il problema non si pone, almeno non si pone adesso. Non c'è incompatibilità. Avere una funzione nazionale sinora ha aiutato a fare meglio il sindaco, ad esempio a trovare i fondi per salvare il Maggio fiorentino. Ora poi l'Europa finanzierà direttamente i Comuni e non solo le Regioni. Con la riforma del titolo V della Costituzione abbiamo fatto un grosso errore: alla burocrazia statale si è aggiunta la burocrazia regionale».
Berlusconi chiede il presidenzialismo, lei frena. Ma non era presidenzialista pure lei?
«Non ho in mente una soluzione piuttosto di un'altra. Si può pensare all'elezione diretta del premier, che rafforza il governo, o del presidente della Repubblica, che però a questo punto non potrebbe più essere una figura di garanzia, dovrebbe essere un capo. L'importante è che ci sia qualcuno che si assuma la responsabilità, a cui dire grazie se ha successo o dare la colpa se fallisce».
Ma lei si vedrebbe al Quirinale?
«Le ho già detto che la mia preoccupazione non è il mio futuro politico. Ho 38 anni. Sa quali sono le due cose che mi danno più fastidio?».
Dica.
«La prima è quando mi descrivono roso dall'invidia, come se il mio treno fosse passato. Quando attribuiscono a me trame contro Letta, tipo la mozione di Giachetti per il ritorno ai collegi uninominali. Ora, se c'è uno che ha diritto di parlare di legge elettorale è Giachetti, ha fatto pure lo sciopero della fame, io non lo farei neppure se mi pagassero, ma rispetto le battaglie dei radicali. Nel merito sono d'accordo con lui; ma non ne sapevo nulla. Paradossalmente, sono proprio gli ex democristiani a dipingermi come un piantagrane. Tentano di logorarmi».
E la seconda?
«Quando mi dicono che non sono di sinistra. A me, il primo sindaco ad aver fatto un piano a volumi zero che ferma la cementificazione, con l'obbligo di aprire un giardino a dieci minuti di passeggiata da ogni casa, con le chiavi affidate alle mamme. Ora ho pedonalizzato un'altra parte del centro, dietro Palazzo Vecchio. Ma di questo non parla nessuno. Si parla solo del pranzo con Briatore».
Anche lei, però...
«Mi hanno dipinto come un'olgettina perché sono andato ad Arcore da Berlusconi, e ora con Berlusconi hanno fatto un governo. Mi hanno attaccato perché sono andato dalla De Filippi; dopo di me sono andati don Ciotti e Gino Strada e nessuno ha detto niente. Mi prendono in giro per il giubbotto di pelle, e non sanno che la pelletteria è un settore che tira, in dieci anni ha raddoppiato l'export. Ora mi attaccano perché ho incontrato Briatore. Io non la penso come lui. L'imprenditore cuneese con cui sono più in sintonia è Oscar Farinetti. Però sono curioso. Non voglio chiudermi nel mio steccato. Penso di poter imparare qualcosa da qualsiasi persona; a maggior ragione se è diversa da me, se ha avuto successo in quello che ha fatto, nello sport e nel lusso, se crea posti di lavoro».
Con il Billionaire?
«Non vado al Billionaire, non ho il fisico. Ma questo moralismo senza morale lo trovo insopportabile, questa saccenteria, questa pretesa di superiorità etica è la maledizione della sinistra. Per me la politica è una prateria, non una riserva indiana. Tra poco faccio il comizio. Sa qual è il passaggio su cui prenderò più applausi? Quando dirò che bisogna andare a cercare i voti della destra. Berlusconi vinse nel '94 con il milione di posti di lavoro e il nuovo miracolo italiano, nel 2001 con "meno tasse per tutti", e noi ironizzammo su questo. Fu un errore. Il Paese ha bisogno di speranza, sogni, fiducia. Berlusconi ha illuso gli italiani. Poi è seguita la disillusione. Ora è il tempo delle decisioni».
Lei ha preso l'abitudine di vedere pure D'Alema.
«Ma quale abitudine! Solo perché adesso ci parliamo... Ammiro il suo humour. Alla direzione Pd è andato da Matteo Orfini e gli ha detto: "Vedo che finalmente ci sono giovani turchi che fanno qualcosa di interessante. Peccato che siano a Istanbul».
Con D'Alema avete un patto?
«No. Con D'Alema è interessante discutere. Come con Veltroni. Io non rinnego la battaglia per la rottamazione. La rifarei; anche se rinunciare a D'Alema e tenersi Fioroni non è stato un affare. Però un partito ha bisogno di molte intelligenze e voglio ripartire dalle giovani leve, anche chi ha votato per Bersani. Voglio un partito vivo, in cui vengo fatto fuori e faccio fuori, ma in modo aperto, trasparente. Non chiedo fedeltà. Chiedo lealtà».
Non ha paura, da segretario di partito, di non avere più l'appeal sull'opinione pubblica che ha ora? Di non essere più Renzi?
«Io funziono solo se sono Renzi. Non sarò mai la copia di un funzionario di partito. La questione è un'altra: rimettere l'Italia in gioco, recuperare un pensiero lungo, passare dal Paese del piagnisteo al Paese dell'opportunità».
Il decreto sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti la convince?
«Ho fatto voto di non parlare male del governo; quindi taccio».
Non può cavarsela così.
«Mi pare la logica dell'"adelante con juicio". Si poteva avere più coraggio. Spero che il Parlamento lo migliori. E che venga abolito il Senato, trasformandolo in camera delle autonomie: 315 parlamentari in meno significano meno costi e più efficienza. Ma l'importante oggi non è dire; è fare. Subito. Non le sembra che a Roma abbiano già perso troppo tempo?».
Aldo Cazzullo
Corriere della sera 6 giugno 2013 

  31,5

Tito Boeri






















Internazionale 04/05/2013

Secondo l’Associazione italiana editori (Aie), sono 31,5 milioni gli italiani che in un anno non leggono neanche un libro. È il 54,7 per cento della popolazione di potenziali lettori. In Italia la diffusione dell’editoria di massa è coincisa di fatto con la nascita della tv e il numero di lettori non ha mai superato il 50 per cento. Un ulteriore problema riguarda la segmentazione: non più del 15 per cento dell’intero campione è formato dai cosiddetti lettori voraci, cioè da chi legge almeno un libro al mese. Il quadro negativo è in parte mitigato dal recente studio dell’Aie sulla lettura infantile, dal quale emerge che bambini e ragazzi leggono più degli adulti e che la differenza tra i giovanissimi e gli adulti è in crescita. Dopo i 14 anni la diffusione della lettura diminuisce di pari passo con la crescita dell’uso di internet. La progressiva flessione della lettura dopo l’adolescenza, e il successivo crollo nell’età adulta, suggeriscono l’esistenza di forme di utilizzo del tempo competitive rispetto alla lettura. Come osservano Luciano Canova ed Enzo di Giulio su lavoce.info, rincarano la dose alcuni dati sul livello di dealfabetizzazione degli adulti scolarizzati, contenuti nel Programme for the international assess­ment of adult competencies, uno studio promosso dall’Ocse. In Italia il 5 per cento dei nativi non è in grado di decifrare singole cifre o lettere (alfabetizzazione elementare) e il 33 per cento non è in grado di capire o scrivere una frase breve. Forse queste informazioni avrebbero dovuto essere tenute in conto nel dibattito politico specialmente durante le campagne elettorali.


Il Papa: l'ipocrisia è la lingua dei corrotti, il cristiano parla con amore e con verità

2013-06-04

Un cristiano non usa un “linguaggio socialmente educato”, incline all’ipocrisia, ma si fa portavoce della verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini. È l’insegnamento che Papa Francesco ha offerto nell’omelia della Messa celebrata questa mattina a Casa Santa Marta. Con il Pontefice hanno concelebrato il patriarca dei cattolici armeni, Nerses Bedros XIX Tarmouni, mons. Fernando Vianney, vescovo di Kandy nello Sri Lanka, e mons. Jean Luis Brugues della Biblioteca Apostolica Vaticana, accompagnato da un gruppo di collaboratori della struttura. Presenti anche la presidente e il direttore generale della Rai, Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi, con i loro familiari.
Dai corrotti alla loro lingua preferita: l’ipocrisia. La scena evangelica del tributo a Cesare, e della subdola richiesta dei farisei e degli erodiani a Cristo sulla legittimità di quel tributo, fornisce a Papa Francesco una riflessione in stretta continuità con l’omelia di ieri. L’intenzione con cui si avvicinano Gesù, afferma, è quella di farlo “cadere nella trappola”. La loro domanda se sia lecito o no pagare le tasse a Cesare viene posta – rileva il Papa – “con parole morbide, con parole belle, con parole troppo zuccherate”. “Cercano – soggiunge – di mostrarsi amici”. Ma è tutto falso. Perché, spiega Papa Francesco, “questi non amano la verità” ma soltanto se stessi, “e così cercano di ingannare, di coinvolgere l’altro nella loro menzogna, nella loro bugia. Loro hanno il cuore bugiardo, non possono dire la verità”:
“E’ proprio il linguaggio della corruzione, l’ipocrisia. E quando Gesù parla ai suoi discepoli, dice: ‘Ma il vostro parlare sia ‘Sì, sì! No, no!’. L’ipocrisia non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola. Mai! Va sempre con l’amore! Non c’è verità senza amore. L’amore è la prima verità. Se non c’è amore, non c’è verità. Questi vogliono una verità schiava dei propri interessi. C’è un amore, possiamo dire: ma è l’amore di se stessi, l’amore a se stessi. Quell’idolatria narcisista che li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia”. Quello che sembra un “linguaggio persuasivo”, insiste Papa Francesco, porta invece “all’errore, alla menzogna”. E, sul filo dell’ironia, osserva che quelli che oggi avvicinano Gesù e “sembrano tanto amabili nel linguaggio, sono gli stessi che andranno giovedì, la sera, a prenderlo nell’Orto degli Ulivi, e venerdì lo porteranno da Pilato”. Invece, Gesù chiede esattamente il contrario a chi lo segue, una lingua “sì, sì, no, no”, una “parola di verità e con amore”: “E la mitezza che Gesù vuole da noi non ha niente, non ha niente di questa adulazione, con questo modo zuccherato di andare avanti. Niente! La mitezza è semplice; è come quella di un bambino. E un bambino non è ipocrita, perché non è corrotto. Quando Gesù ci dice: ‘Il vostro parlare sia ‘Sì, sì! No, no!’ con anima di bambini, dice il contrario del parlare di questi”. L’ultima considerazione riguarda quella “certa debolezza interiore”, stimolata dalla “vanità”, per cui, constata Papa Francesco, “ci piace che dicano cose buone di noi”. Questo i “corrotti lo sanno” e "con questo linguaggio cercano di indebolirci”: “Pensiamo bene oggi: qual è la nostra lingua? Parliamo in verità, con amore, o parliamo un po’ con quel linguaggio sociale di essere educati, anche di dire cose belle, ma che non sentiamo? Che il nostro parlare sia evangelico, fratelli! Poi, questi ipocriti che cominciano con la lusinga, l’adulazione e tutto questo, finiscono, cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Chiediamo oggi al Signore che il nostro parlare sia il parlare dei semplici, parlare da bambino, parlare da figli di Dio, parlare in verità dall’amore”.

La “semplicità” di papa Francesco






Marco Ivaldoprofessore ordinario di Filosofia morale e di Etica e religione presso l’Università degli studi “Federico II” di Napoli
Il papa Francesco sorprende, attira la simpatia delle persone assai al di là della cerchia dei cattolici, e dei cattolici praticanti in particolare, per la genuinità del suo tratto, la semplicità dell’atteggiamento, il modo diretto e aperto di rapportarsi agli altri, la spontanea condivisione che egli manifesta dei confronti dei malati e dei sofferenti, insomma: per il suo simpatetico andare incontro alla vita. Ci si potrebbe domandare: si tratta di una situazione favorevole provvisoria, sostenuta o alimentata soprattutto da fattori emotivi, dalla novità rappresentata da un vescovo di Roma venuto dalla “fine del mondo”, ma destinata a sfiorire con il trascorrere del tempo ed eventuali prese di posizione ‘impopolari’?
Penso che quando si sottolinea la semplicità di papa Bergoglio bisogna coglierne decisamente il significato spirituale. Semplicità non significa affatto semplicismo, come è ben ovvio, ma nemmeno si identifica con semplificazione. Da discepolo di quel personaggio straordinario e assai “moderno” che è stato Ignazio di Loyola papa Bergoglio ha un sensorio particolare per la complessità dell’animo umano e la molteplicità (anche caotica) degli “spiriti” e delle tendenze che caratterizzano la sua natura. Al tempo stesso, nei suoi scritti e conversazioni si impone decisamente l’idea che il leader, in particolare il leader religioso, non debba essere pieno di sé ed ostinato, troppo prescrittivo per via dell’eccessiva sicurezza di sé, ma debba lasciare spazio al dubbio, e coltivare la virtù dell’umiltà, quell’umiltà che egli lodava in Benedetto XVI durante il bellissimo incontro di Castelgandolfo. Chi vuole guidare il Popolo di Dio – diceva al rabbino Skorka – “deve farsi piccolo, raccogliersi in se stesso con i suoi dubbi, con l’intima esperienza delle tenebre, del non saper agire”.
Probabilmente molte persone simpatizzano con papa Francesco assai al di là della appartenenza ecclesiale o confessionale alla Chiesa di Roma perché questi interpreta un bisogno del tempo, cioè la fame di cose essenziali come antidoto allo stordimento delle coscienze e al pervertimento delle priorità fondamentali che hanno largamente corso ai nostri giorni. Forse parecchie persone sono spiritualmente stanche dei troppi venditori di sogni illusivi – anche se esse non sempre tematizzano o vengono aiutate dai “dotti” a mettere a tema questa frustrazione -, e papa Francesco nel suo fare e nel suo dire rivela loro l’esistenza di una dimensione diversa del vivere, dove antiche parole come ad esempio quella del “prendersi cura” acquistano di nuovo la loro potenza simbolica ed etica. Probabilmente molte persone, sperimentando nella propria carne la fatica di vivere in questo nostro mondo violento e ingiusto, abbastanza ostile all’”umano”, desiderano, prima che una normativa rigida – come erroneamente pensano anche diversi uomini di chiesa -, un orientamento relativo al senso del vivere, l’apertura di un orizzonte di speranza che legittimi una fiducia di fondo nella vita. Desiderano qualcosa che ha a che fare con il “religioso”, inteso come una dimensione o un atteggiamento dell’uomo che resiste ad ogni riduzione naturalistica o a ogni liquidazione nichilistica, ma che nemmeno si identifica con una particolare religione di chiesa, e ancor meno con una specifica sistemazione dottrinale di tale religione di chiesa, benché non sia mai vivibile al di fuori di un concreto riferimento a una tradizione e comunità.
Penso che papa Francesco, con i suoi gesti e le sue parole, interpreti queste domande, spesso latenti e non formulate, che hanno a che fare essenzialmente con la dimensione del senso e del simbolico, cioè con la dimensione del “religioso”. Questa dimensione si impone come domanda aperta anche nelle nostre società ‘secolari’ (che non vuol dire necessariamente: irreligiose o areligiose oppure antireligiose), anche se non assume i linguaggi di una religione storica o di una chiesa. L’opposizione corrente nei media fra “credenti” e “laici” non mi sembra in grado di interpretare questa condizione variegata del “religioso” nella nostra epoca.
Ciò che per me è poi molto interessante è che il papa Francesco, come è comprensibile, risponde a questo bisogno “religioso” ancora e sempre ponendo “Cristo al centro”, cioè non per le vie di una indistinta “spiritualità” o di un sincretismo religioso (di tipo ‘new age’), ma traendo linfa e alimento da una concreta persona ‘storica’ (storico-escatologica) e dal suo messaggio, e richiamando la chiesa per prima alla coerenza fra parole e fatti. 
Sono consapevole della natura frammentaria di queste riflessioni. Sono un tentativo, come tale molto provvisorio e lacunoso, di trarre insegnamento da una figura di vescovo di Roma che sembra invitarci a un ri-orientamento che parta dallo strato profondo dell’animo, un ri-orientamento ‘ontologico’.  La “semplicità” di papa Francesco potrebbe allora essere detta anche: essenzialità. Si tratta di andare all’essenza; e una tale essenza sembra consistere più in un contenuto esistenziale da sperimentare in concreto che in un programma dottrinale, che non viene messo da parte, certamente, ma che viene ricondotto alla sua funzione di mediazione ‘seconda’. Mi sembra di cogliere da qui un invito (di fatto) a prendere in considerazione una diversa scala di priorità, che diviene molto rilevante in chiave ecumenica e inter-religiosa, secondo la quale il riferimento ‘inclusivo’ a Cristo  è il fattore determinante, e la tradizione  - che è sì una, ma è anche plurale – e la chiesa ritrovano la loro natura propria di mediazione e di servizio.
         

Così il Papa fa cambiare i vescovi
di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 31 maggio 2013
Mentre parlava con il sorriso sulle labbra, alcuni dei vescovi che stavano ad ascoltarlo in San Pietro accomodati sulle sedie di velluto bordeaux, si sono guardati negli occhi. Alla fine di quei dodici minuti, il discorso più breve rivolto da un Papa alla Cei, nulla può essere come prima per la Chiesa italiana. Nonostante il tentativo di mettere il silenziatore su quanto è accaduto. Lo scorso 23 maggio, con il suo dirompente intervento all’assemblea generale dei vescovi, Francesco ha infatti lanciato un segnale inequivocabile. Non ha parlato di politica né dell’agenda dei lavori parlamentari, non si è soffermato a elencare i programmi della Conferenza episcopale. Ha tenuto una personale meditazione mettendo in guardia i vescovi dal rischio del carrierismo, dal diventare «funzionari» e «chierici di stato» distaccati dalla gente, dalle «lusinghe del denaro», dal pensare troppo all’organizzazione e alle strutture. Questo ha voluto dire ai suoi «confratelli» italiani al primo incontro ufficiale.
«Francesco - spiega lo storico Alberto Melloni - ha pronunciato un discorso morbido nelle forme ma duro nella sostanza, e ha indicato una linea diversa da quella seguita fino ad ora». Come dire che si chiude un’epoca: quella inaugurata dal cardinale Ruini e proseguita dal suo successore Angelo Bagnasco, chiamato ora ad aprirne un’altra. «Negli ultimi decenni - osserva Melloni - è stato proposto dalla Cei un progetto pastorale e politico. Ora il Papa pone al centro dell’attenzione un modello di vescovo. Per l’Italia è un grande salto».
Non si tratta di cambiare parole d’ordine, aggiungere qualche citazione sulla «povertà» o sulle «periferie», o magari cambiare la scaletta degli argomenti nei frequenti interventi pubblici. Non basta il copia-incolla per risultare in sintonia. È come se il Papa chiedesse a tutti una rivoluzione copernicana, o meglio e più semplicemente, una vera «conversione». Sono quasi tre mesi che il vescovo di Roma pescato «dalla fine del mondo» sta mostrando con il suo esempio come intenda il compito di un pastore. Nessuna formalità, nessun distacco, prediche semplici e profonde, che la gente capisce e apprezza. E quando vedi Francesco farsi inghiottire ogni mercoledì dai gorghi della folla in piazza San Pietro, rimanendovi volentieri immerso per ore come se non avesse null’altro da fare, capisci che cosa significa per lui essere «vicino» alle persone «Il Papa, a noi che siamo abituati a comandare credendoci già convertiti, mostra come un pastore debba stare in mezzo al gregge», dice Francesco Cavina, vescovo della terremotata Carpi.
L’assemblea della Cei non ha messo a tema il nuovo pontificato. C’erano altri programmi da
discutere, predisposti da tempo. E così più d’uno dei partecipanti ha ricavato l’impressione di un imbarazzo. La novità deve ancora essere digerita e assimilata, magari cercando di farla rientrare negli schemi preesistenti. «C’è il rischio, per noi pastori, di non farci interrogare da ciò che il Papa dice e dai suoi gesti così eloquenti - conferma a La Stampa  un presule del Sud, il vescovo di Rossano Santo Marcianò. «Credo che dobbiamo lasciarci alle spalle - aggiunge una mentalità e uno stile che fino ad oggi abbiamo adottato. Vedo attorno a me tanta voglia di novità, di ritorno all’essenziale».
La «voglia» di ritorno all’essenziale è quella dei semplici fedeli e di tanti sacerdoti, che hanno preso a seguire le parole del Papa e sono colpiti dai suoi gesti. Anche i vescovi hanno potuto toccare con mano questa novità. La sera del 23 maggio in San Pietro, Francesco non s’è limitato a parlare. È sceso dall’altare per abbracciare uno ad uno tutti i pastori delle diocesi italiane, un saluto durato più di un’ora. Invece di farli venire in fila davanti a lui per omaggiarlo, è andato lui da loro, sconvolgendo il protocollo e facendo storcere il naso a più di qualcuno.

  
                                                                                    

Comunicazione politica, lezione dal Cile

Nelle sale "No - i giornali dell'arcobaleno" del cileno Pablo Larrain



Paola Casella Europa Maggio 2013 


C’è un film cileno che gli italiani dovrebbero vedere, e che sarebbe di grande interesse anche per i responsabili della comunicazione politica del centrosinistra. Si tratta di No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larrain (quello di Tony Manero e Post Mortem) e ricostruisce la campagna referendaria che, nel 1988, servì a decidere se far restare Augusto Pinochet al potere per altri otto anni, dopo 15 di governo ininterrotto.

Sotto le pressioni della comunità internazionale il dittatore aveva acconsentito al referendum certo di essere riconfermato, e aveva accettato che le televisioni nazionali trasmettessero ogni giorno a reti unificate 15 muniti di spot a favore del sì (per la riconferma di Pinochet) ma anche del no. Il film di Larrain racconta come la campagna per il no fosse stata affidata ad un giovane pubblicitario, René Saavedra (la star messicana Gael Garcia Bernal), che decise un approccio del tutto inaspettato, dal punto dei vista dello zoccolo duro dei membri storici dell’opposizione.

Saavedra scelse di usare le armi della pubblicità dando per assunto di base che tutta la società cilena, tanto di destra quanto di sinistra, avesse assorbito la cultura neoliberale imposta da Pinochet (e suggerita dagli Stati Uniti) di cui la pubblicità televisiva era specchio fedele. Il giovane pubblicitario sapeva bene che, come scrive Carlo Freccero nel suo Televisione, il piccolo schermo «non è più “naturaliter di destra” perché il conservatorismo neoliberista è diventato l’unica realtà riconosciuta non solo da destra, ma anche da sinistra». E decise di ritorcere quella realtà televisiva contro il dittatore che l’aveva propaga(nda)ta per 15 anni.

Naturalmente quando il team del no, composto di dissidenti in passato imprigionati e torturati per le loro posizioni politiche, vede il primo spot concepito da Saavedra il commento orripilato è: «Sembra una pubblicità della Coca Cola», e molti membri del gruppo rifiutano sdegnosamente l’approccio del giovane pubblicitario trovandolo irrispettoso della sofferenza patita da chiunque fosse all’opposizione in quegli anni di dittatura.

Ma è solo la forma degli spot di Saavedra a cambiare, non il contenuto dei messaggi, che parlano anche di tortura, disparità economiche, diritti umani. Ed è René ad avere ragione nel capire che il nemico, qualche volta, si combatte con le sue stesse armi. Attenzione: non facendo un lavoro di rincorsa, come quello effettuato dalle reti Rai rispetto alle reti Mediaset – per portare il parallelo sul terreno di casa nostra – ma di lancio in avanti.

La campagna per il no di Saavedra, giocata sui simboli del neoliberismo e della società del marketing, racconta un futuro possibile e visionario che va oltre il presente trombonesco e trionfale illustrato dalla campagna del sì. Sia Pinochet che Saavedra capiscono infatti che i cileni hanno il terrore di un ritorno al passato, a un socialismo che faccia sentire tutti almeno temporaneamente più poveri. Dunque il pubblicitario non commette l’errore di offrire agli elettori quella prospettiva, bensì trasmette loro il miraggio di una società più «allegra» in cui tutti troveranno la loro dimensione. Il no è un prodotto che ti invita ad essere giovane e coraggioso>>, sintetizza, con il pragmatismo della sua generazione.

Il bello del film è che gradualmente anche Saavedra acquisirà quella consapevolezza politica e sociale che il suo upbringing gli aveva azzerato. Come dire che la contaminazione del neoliberismo, una volta ritorta contro chi l’ha manipolata per i propri interessi, innesca un processo di decontaminazione, si fa anticorpo. Saavedra trova il vaccino contro il populismo mediatico di Pinochet usando i suoi codici comunicativi per sconfiggerlo alle elezioni: ed è questa vittoria profondamente democratica a dare un senso alla sua battaglia.

«Si può dire che la campagna per il no ha superato la destra sia da sinistra che da destra», ha detto Garcia Bernal. In questo superare da destra (a livello comunicativo) rimanendo di sinistra c’è una preziosa lezione di comunicazione politica.




La beatificazione di Don Puglisi conferma la fine della complicità della Chiesa 


Rete 2018 e Movimento 139: non la rete di Grillo, ma "ascolto e partecipazione" rivoluzionari

Leoluca Orlando non ci sta. Decaduto il partito di Di Pietro con il quale era già prima del voto, in aperta rottura, dalla sua Palermo, passando per Roma, lancia la fase costituente di un nuovo movimento politico 139 Coerenza e Democrazia.
 
Un movimento tutto in divenire che pone, già nel nome, il rispetto dei principi e delle regole stabiliti dai 139 articoli della Costituzione italiana. A Montecitorio oggi la conferenza stampa di presentazione. Per Orlando una nuova sfida dopo le tante della sua vita che l’hanno visto a più riprese primo cittadino del capoluogo siciliano, paladino poi, con una tessera scudocrociata in tasca, dell’antimafia, fondatore di un movimento di successo ante litteram come la Rete.
Orlando c’è e si vede e sono in molti ancora a dirsi pronti a seguirlo.

Sindaco Leoluca Orlando, l’antimafia è stata sempre una sua bandiera. L’Italia nella lotta contro le mafie sta facendo passi in avanti?

Venerdì è stato un giorno di gioia per la Beatificazione di don Pino Puglisi, ma anche un richiamo forte a tutti e a ciascuno di essere coerentemente degni del suo ricordo, della sua testimonianza, del suo sacrificio. Oggi, dopo il Magistero del Cardinale Salvatore Pappalardo, le chiare parole di Giovanni Paolo II in terra di Sicilia, dopo i documenti dei Vescovi Siciliani, la Beatificazione di don Pino Puglisi spazza via e definitivamente l’utilizzo perverso della Fede da parte dei mafiosi e spazza via alibi, complicità e incertezze di uomini di Chiesa e di fedeli troppe volte subalterni al sistema di potere fondato su perversione culturale, politica, economica e religiosa della mafia. La mafia ha troppe volte agito pervertendo la Fede e utilizzando complicità e silenzi di uomini di Chiesa e credenti. Per questo ho detto venerdì "Grazie Pino. Grazie Papa Francesco", oltre chiaramente ai ringraziamenti alle forze dell'ordine per il lavoro che svolgono per la lotta alla mafia e alla criminalità in genere. Spero che i ringraziamenti il prossimo anno si possano fare anche nelle tante ricorrenze di delitti dove non c'è ancora verità e giustizia.


Amministrare una città difficile come Palermo e allo stesso tempo dedicarsi a creare nuovi movimenti. Non ha perso il suo spirito originario che la portò a contestare la Dc di Lima ed Andreotti?

Si chiama coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa e lo spirito originario significa non svendere i propri valori e il proprio progetto a nessuno, al miglior offerente. Tre anni fa abbiamo fondato La Rete 2018, un movimento politico che per statuto non ha un livello di rappresentanza istituzionale e il cui simbolo non troverete mai presente in una competizione elettorale. La Rete 2018 ha solo i livelli di lievito culturale e di sintesi politica. Un luogo dove ci si sente simili nel nostro non sentirci mai a posto, mai arrivati, mai in grado di capire sempre tutto. Nel nostro continuare a interrogarci, a guardarci dentro e a guardarci attorno, nel nostro andare ad abbattere un altro recinto senza limitarci a contemplare il recinto appena abbattuto. Ora come nel 1991. Figuratevi che tre anni fa abbiamo pensato al 2018 come orizzonte temporale de La Rete, ma il 6, 7, 8 giugno al dodicesimo incontro de La Retitudine il tema sarà 2018 o 2023?

La Rete da lei fondata ebbe un ampio successo. Cosa è cambiato politicamente da allora?

Per quanti hanno vissuto l'esperienza de La Rete non è cambiato nulla in quanto in questi 22 anni (1991-2013) ogni volta che mi sono trovato a scegliere fra i valori, il progetto e il partito ho sempre scelto i valori e il progetto che sono oggi gli stessi di allora. Le ricordo che la denominazione completa era La Rete per il Partito Democratico. Purtroppo anche gli avversari sono sempre gli stessi e tra questi ci sono anche i 101 del PD che non hanno votato Prodi per l'elezione del Presidente della Repubblica. I 101 che, oggi come allora, non credono nel progetto del vero Partito Democratico e che tra i valori e il progetto scelgono il Partito o meglio l'apparato del partito, l'autoconservazione e la logica dell'appartenenza, del recinto.

Il governo delle larghe intese è, in qualche modo, il ritorno del centrismo. La sinistra radicale è fuori dal Parlamento, Sel e M5S siedono all’opposizione mentre anche la destra di Fratelli d’Italia è fortemente critica. Che differenza vede tra il governo Letta/Alfano con i governi di espressione democristiana?



Il Governo Letta: lo giudicheremo per quello che farà e per quello che non farà. Dico solo che il Governo Letta è apparso come l'unico possibile, e certamente è conferma della fine del sistema tradizionale dei partiti italiani e conferma della crisi della Politica, come già accaduto con il cosiddetto Governo tecnico di Mario Monti. Ciò che dobbiamo chiederci è come sia stato possibile che ieri si siano create le condizioni per rendere inevitabile un Governo che vede insieme forze politiche alternative e dobbiamo chiederci cosa fare domani per evitare il ripetersi di errori e di deliri di onnipotenza/autosufficienza.

L’Europa dell’austerità è diventata in qualche modo una croce per gli Stati che ne fanno parte.

Lei che è stato anche parlamentare europeo come considera questo nuovo scetticismo e quali ricette propone per la riforma delle istituzioni europee?

Io sono stato parlamentare europeo ed ora sono vicepresidente dell'ALDE (Alleanza dei Liberali e Democratici Europei). Qualche giorno fa a Pola alla riunione del Bureau dell'ALDE ho detto che la crisi economica, sociale e culturale che stiamo attraversando può essere superata attraverso la costruzione degli Stati Uniti d'Europa dei cittadini e delle cittadine e non delle Banche, della speculazione finanziaria e delle caste. Prima mi chiedeva dell'attuale Governo. Qualche giorno fa ho letto su Twitter questa dichiarazione di Enrico Letta "#aspen @EnricoLetta Unione bancaria EU è cruciale ma sarà difficile convincere uomo e donna della strada che sia il loro problema centrale" io ho risposto "@LeolucaOrlando1: “@LeolucaOrlando a @EnricoLetta: UE Cittadini/Cittadine -e non UE banche - è cruciale per superare crisi economica/sociale singoli Stati EU". Il mio pensiero sull'Europa e la differenza con Letta e il suo Governo è tutta qui.

Grillo e il Movimento 5 Stelle. Cosa pensa di questo fenomeno?

Le rispondo con alcuni tweet con cui rispondevo a chi mi chiedeva le differenze con Grillo e il M5S. Grillo: “il Movimento cambierà il mondo” ... Orlando: “noi non vogliamo cambiare il mondo, ma attrezzarci per farlo”. Grillo: “la rete sostituirà il palazzo” ... Orlando: “l’ascolto e la partecipazione sono la vera rivoluzione”. Grillo: “l’Italia fuori dall’Europa" ... Orlando: “noi vogliamo costruire gli Stati Uniti d’Europa che siano l’Europa dei cittadini e delle cittadine e non l’Europa delle banche e della speculazione finanziaria”. M5S è solo protesta che si è fatta rappresentanza istituzionale. Noi vogliamo costruire un percorso di valori, comune e condiviso.



Mov139 nasce sulle macerie di Italia dei Valori e in polemica con Di Pietro. Che movimento sarà?


Mov139 (Movimento139) non nasce sulle ceneri di Italia dei Valori e non nasce puntando il dito contro Di Pietro. Mov139 nasce perché i partiti in Italia sono tutti morti, compresa Italia dei Valori, che invece dei valori e del progetto ha scelto, come tutti gli altri, l'autoconservazione di una classe dirigente autoreferenziale ormai lontana dalle importanti esperienze del passato e dai consensi di cittadine e cittadini. Mov139 nasce perché è finito il tempo dei congressi costruito su tessere, spesso raccolte a pacchetti e spedite dal loro "titolare" con versamento cumulativo. Un' istigazione a costruire correnti, a perpetrare un sistema di falsi tesserati, che votano ai congressi, ma non partecipano alla vita democratica del partito e per questo incapaci di rappresentarne le proposte sui territori. Mov139 nasce perché è giunto il tempo di costruire un vero Partito Democratico. Un Partito dove ognuno possa mantenere la propria identità culturale e politica, anche se vissuta in luoghi e soggetti politici di lievito culturale e sintesi politica diversi, ma allo stesso tempo possa confrontarsi nella convinzione che le diversità siano una ricchezza e non un ostacolo. Un Partito che sia un mosaico composto dalle tante tessere delle culture politiche europee (liberaldemocratica in tutte le sue accezioni, socialista e socialdemocratica europea, cattolico democratica, sinistra europea, verdi europei). Un Partito dove ogni tessera possa avere la possibilità di crescere liberamente, all'interno della cornice, senza essere soffocata o tollerata dalle altre.

La vostra proposta è quella di un’assemblea costituente.

Proprio perché, come dicevo prima, è finito il tempo dei congressi di tessere false e di tesserati che partecipano solo all'elezione del capo o del capo corrente, noi proponiamo un percorso nuovo, diverso. Diverso anche rispetto al percorso delle primarie, come le conosciamo fino ad ora. Noi vogliamo avviare un percorso dove si confrontino idee che camminano sulle gambe di uomini e donne. Primarie di comunità e non Primarie per scegliere con trionfalismo un capo ridotto poi a "re travicello", costretto a galleggiare e poi essere travolto da rissose correnti. Sono stati così travolti e mortificato i milioni di voti ottenuti in primarie. Primarie aperte per scegliere un'Assemblea Costituente che si faccia occasione e stimolo per costruire una coalizione per l'Europa e l'Italia dei cittadini e delle cittadine, alternativa all'Europa e all'Italia delle caste, delle lobby finanziarie e delle speculazioni corporative.


Quali obiettivi vi ponete?

Mov139 - 139 come gli articoli della nostra Costituzione - vuole essere un'esperienza politica democratica per la protezione, la salvaguardia e la legalità dei Diritti, della Costituzione e della Pace; il riconoscimento di meriti e bisogni; la promozione dell'autonomia creativa dell'individuo; il superamento della crisi finanziaria-etica-culturale attraverso lo sviluppo di un benessere equo e sostenibile; il rispetto e la tutela dell'ambiente; una vera riforma federale dell'Europa e dell'Italia che imponga un ripensamento del sistema dei poteri locali e richieda pertanto riforme forti e concrete, che non sommino spese centrali a spese locali, ma che realizzino un'Europa dei cittadini e delle cittadine, un federalismo delle responsabilità e delle diversità.


Smantellare il conflitto di interessi di Berlusconi è ancora una priorità?


Il problema non è più soltanto Berlusconi, ma il Berlusconismo e i tanti Berluschini di borgata che purtroppo sono diventati sistema. Una volta c'era la tangente e sapevi come combatterla ora c'è un sistema che è difficile da combattere perché fatto da tanti piccoli conflitti di interessi che a volte sono diventati cultura comune. Ecco noi dobbiamo avere la forza, insieme a quanti non si rassegnano a subire la drammatica crisi politica-economica-culturale-etica, di ribellarci, di cambiare cultura, attraverso una rivoluzione gentile, se vogliamo costruire futuro per le nuove generazioni. Poi se il Governo Letta farà una legge sul conflitto di interessi la leggeremo, la valuteremo e se ci convincerà la appoggeremo.


Rivoluzione Civile, che esperienza è stata?

Un'occasione persa. Una prova in più che i partiti sono morti e che alle elezioni 2+2 non fa quasi mai 4. A parte questo noi abbiamo aderito al progetto di Rivoluzione Civile perché lo ritenevamo l'unico contro il Berlusconismo e la politica senz'anima del Governo Monti, ma ci siamo accorti che ormai non basta più costruire un progetto basato sull'essere contro qualcuno o qualcosa. Dobbiamo costruire un progetto dove si sta insieme per realizzare un programma di governo comune che nasca attraverso il confronto nelle Primarie di comunità. E siccome, come dicevo prima, le idee viaggiano sulle gambe delle persone, anche Primarie di comunità che insieme ai programmi da attuare scelgano le persone che nelle istituzioni dovranno attuarlo.


Quale sarebbe il ruolo del Movimento 139 Coerenza e Democrazia se si tornasse a breve alle urne?



Ne riparliamo nel 2018???

 

L'AMACA DI M. SERRA
 Anche dalla straordinaria goffaggine delle dichiarazioni post-voto, si capisce che i ragazzi delle Cinque Stelle stanno imparando, a loro spese, quanto è dura la politica, e quanto è facile, quando si entra in quel giro, fare brutta figura. È un attimo impegolarsi, dopo una sconfitta, in balbettii di giustificazione; o addirittura dare la colpa agli elettori cattivi che non capiscono dove stanno Verità e Giustizia, come ha fatto il capo in persona (poi dice che non è di sinistra…).
Non è il momento, questo, di infierire. Si poteva immaginare che all’eccesso di baldanza sarebbe seguito, alla prima vera difficoltà, un eccesso di smarrimento. È però il momento per suggerire a quei ragazzi – di qui in poi – un pochino di prudenza in più nel giudicare chi, prima di loro, aveva provato a farla, la politica, e magari non con le peggiori intenzioni. Trovarsi, oggi, negli stessi scomodi panni, con un microfono davanti al naso con solo frasi sciocche che emergono dallo stomaco chiuso per la delusione, dovrebbe aiutare a capire che l’Uomo Nuovo non ha il
ltempo di cottura dell’uovo alla coque (tre minuti). Per prepararlo ci vogliono tempo e pazienza. Nonché umiltà, che è il solo lievito di ogni vero cambiamento, in politica e no.
La Repubblica 29 maggio 2013

Il flop grillino non illuda i vecchi partiti


federico geremicca
La Stampa 29/05/2013

Si sono fatti amare poco, e questo è fuori discussione. E il loro capo, Beppe Grillo, è il leader più detestato nella «cittadella politica». In pochi mesi, gli insulti, lo spirito censorio e l’assoluta indisponibilità al confronto, hanno fatto del M5S un corpo estraneo rispetto al sistema politico nel quale - pure - il 24 e 25 febbraio avevano fatto irruzione. 
Ce n’era a sufficienza, dunque, perché la prima sconfitta elettorale attirasse sul movimento critiche e commenti al vetriolo. Nulla di nuovo: chi vince irride all’avversario, chi perde si lecca le ferite. Ma dietro le reazioni sarcastiche, sembra trapelare - stavolta - un di più di eccitazione, quasi un’euforia, che pare spiegarsi - in alcuni casi - con un sentimento che va oltre la soddisfazione per la semplice sconfitta dell’avversario politico: l’idea, insomma, che per Grillo e il suo movimento sia cominciata la parabola discendente (il che, per altro, è possibile), che i «duri e puri» dello scontrino abbiano i mesi contati e che tra non molto - insomma - si potrà tornare a suonare la musica di prima.  
Il consenso ottenuto dal M5S e l’uso che di quel consenso è stato fatto, sono due cose diverse e meriterebbero due ragionamenti del tutto diversi. Nulla di quanto scritto in queste prime ore può esser contestato, a proposito delle ragioni della sconfitta di Grillo: candidati poco noti, la deludente azione politica - se vogliamo chiamarla così - svolta dai parlamentari eletti, il profilo più nazionale che locale del movimento e il ruolo svolto da Grillo stesso, certo meno presente ed efficace che in occasione delle elezioni politiche. Detto tutto ciò, però, sarebbe illusorio immaginare che le ragioni alla base del consenso ottenuto solo tre mesi fa, si siano eclissate, superate da un positivo evolvere della situazione. 
La crisi del M5S, insomma, non cancella e non toglie drammaticità ai motivi che avevano dato forza al movimento: in particolare non toglie dal campo l’urgenza di una profonda riforma del sistema politico, del suo modo di funzionare e della modalità e quantità di risorse pubbliche che vi vengono destinate. Proprio il finanziamento ai partiti è stato - contemporaneamente - il miglior cavallo di battaglia di Grillo e l’affondo più doloroso subito dalle forze politiche tradizionali. Ma se su questo piano qualcosa si è mosso - inutile negarlo - è stato sotto l’azione pressante (e spesso sgradevole, è vero) del M5S; e se qualcosa di nuovo è accaduto anche nelle istituzioni - si pensi al profilo dei Presidenti di Camera e Senato - le ragioni vanno ricercate ancora lì: nel successo delle liste di Grillo (e qui, in fondo, è la vera differenza tra il disertare le urne ed esprimere comunque un voto, anche se di chiara protesta). 
Lunedì, mentre venivano chiuse le urne, le agenzie di stampa battevano la notizia della condanna a 3 anni e 4 mesi per Franco Fiorito, che nella sua funzione di capogruppo Pdl alla Regione Lazio si era appropriato di più di un milione di euro dei finanziamenti destinati al suo partito: altri processi sono in arrivano e molti filoni di indagine restano aperti a conferma che anche questa emergenza (oltre alle altre che stringono il Paese) è tutt’altro che superata. 
La cosa migliore da fare - ora che anche il Movimento Cinque Stelle è investito da una diversa ma ugualmente profonda crisi - sarebbe dunque andare avanti sulle riforme e sui tagli già annunciati dal governo, così da dimostrare che (Grillo o non Grillo) il sistema è in grado di riformarsi. La cosa peggiore, invece, sarebbe pensare di averla scampata, tirare un sospiro di sollievo perché «quei rompiscatole hanno perso e sono finiti», e tornare all’andazzo di prima. Sarebbe un errore imperdonabile: un po’ come quel malato che continua ad avere la febbre ma butta via il termometro in modo che, non potendo misurarla, può illudersi di non averla più...

 

 

Fermiamo il Pd a vocazione minoritaria

Precipitare. È il rischio che il Partito democratico corre se non riaccende alla svelta i motori, recuperando quell’impostazione originaria di partito aperto, in grado di ospitare le migliori espressioni riformiste e innovative del paese. Dal giorno in cui il popolo delle primarie consegnò a Walter Veltroni un consenso plebiscitario, è stato un continuo regredire, chiudersi, mostrarsi ostili all’arrivo di forze fresche. Il respingimento dei cittadini dai gazebo in occasione delle primarie per la scelta del leader del centrosinistra è un atto, in tal senso, paradigmatico.
Aprire la finestra e parlare al paese, entrare in sintonia con i cittadini, certamente non chiudersi nelle segrete stanze utilizzando la classica prassi del consociativismo: era questo che l’Italia chiedeva al partito degli anni zero. Fino ad oggi si è andati in direzione contraria. E ci sono timori, fondatissimi, sulla possibilità che si continui a perseverare, assumendo sempre più le sembianze di un partito novecentesco. Come può essere letta, se non in questi termini, l’ipotesi di sottrarre ai non iscritti il diritto di scegliere il prossimo segretario?
La nomina provvisoria di Epifani da un lato e le voci sulla posticipazione del congresso dall’altro scoraggiano ulteriormente un elettorato tramortito e rimandano l’avvio di un progetto politico davvero incentrato sul futuro, capace di indicare all’Italia la rotta da seguire per tornare ad essere un paese competitivo. Quel progetto non può che essere incarnato dal Partito democratico, per la ricchezza di esperienze politiche presenti al suo interno, punto di forza trasformatosi per troppo tempo in fattore di instabilità. Un partito che al più presto dovrà sciogliere il nodo della propria mission e della propria vision, chiarire a se stesso e agli altri cos’è e dove vuole andare.
Rendiamoci però conto, una volta per tutte, di vivere in una società liquida. Che il partito solido, le strutture pesanti, i signori delle tessere non sono state e non saranno in grado di interpretare. La nuova forza verrà definita partito leggero o comitato elettorale perenne? Non importa. L’alternativa è persistere nel tentativo vano di conservare un blocco di consensi destinato a un lento logorio, essere condannati a vita nelle parti della minoranza nel paese. Ed è un’alternativa da scartare. Perchè vogliamo governare l’Italia. Il ruolo di spettatori non fa per noi.

Troppe differenze tra le mense d’Italia


flavia amabile


L’allarme di Save The Children:
«A troppi bambini viene a mancare la possibilità di mangiare a scuola, insieme ai propri compagni: criteri di accesso al servizio di refezione molto restrittivi che finiscono per essere umilianti nei confronti delle fasce più deboli»


Paese che vai, mensa che trovi, è la conclusione a cui è giunta l’organizzazione Save the Children al termine di un monitoraggio dei servizi di refezione scolastica in 36 comuni italiani. Non c’è un comune uguale all’altro e una mensa uguale all’altra, i servizi, la qualità e le possibilità di accesso variano moltissimo da città a città. E’ uno dei tanti furti denunciati da Save the Children nell’ambito di “Allarme Infanzia”, la campagna che andrà avanti fino al 5 giugno. 
 “A troppi bambini oggi viene a mancare la possibilità di mangiare a scuola, insieme ai propri compagni, a causa di criteri di accesso al servizio di refezione molto restrittivi e che finiscono per essere stigmatizzanti e umilianti nei confronti proprio di quei bambini che hanno maggiore bisogno di aiuto - commenta Raffaela Milano, Direttore dei Programmi Italia-Europa Save the Children Italia - In un Paese dove il 35% dei genitori dichiara di aver dovuto ridurre la spesa alimentare, stiamo privando proprio i bambini più a rischio di un supporto fondamentale per la loro alimentazione e la loro crescita sana. Le differenze di trattamento tra città e città sono abissali. Non è giusto che un bambino che vive in una città anziché in un’altra debba trovarsi in situazioni opposte: accolto a mensa anche quando la sua famiglia non riesce a garantire il pagamento della retta, in alcuni comuni, o al contrario costretto a mangiarsi un panino, magari relegato in una stanza a parte, in altre città. 
 In Comuni come Parma o Palermo per esempio l’esenzione dal pagamento della quota di contribuzione al servizio non è prevista in alcun caso. In altri comuni, pur essendo prevista, non sono omogenei né i criteri né la soglia di accesso: si va da un tetto ISEE di 0 euro a Perugia ad un tetto ISEE di 8.000,00 euro a Potenza; inoltre alcune città prevedono l’esenzione per famiglie appartenenti a categorie particolarmente svantaggiate, come i rifugiati politici a Genova o i nuclei di origine rom a Lecce. Anche sul contributo da versare le differenze sono notevoli da città a città: a Napoli la tariffa massima mensile di 68,00 euro (con un ISEE superiore a 18.750,00 euro) è più bassa della tariffa minima mensile di 66,50 euro richiesta Brescia (con un ISEE inferiore a 16.840,00 euro).  
 Tra i comuni sottoposti al monitoraggio, solo in cinque hanno attivato delle misure di sostegno all’impoverimento delle famiglie legato o alla numerosità dei figli o alla perdita del posto di lavoro. Sono Verona, Parma, Pisa, Bari, Sassari. In 11 comuni - Brescia, Adro, Udine, Padova, Verone, Pescara, Perugia, Pisa, L’Aquila, Campobasso, Lecce – esistono vere e proprie discriminazioni come l’obbligo di residenza per l’accesso all’esenzione o la riduzione della contribuzione.  
 “La richiesta di questo requisito, secondo una ormai copiosa giurisprudenza, riveste il carattere della discriminazione indiretta a danno soprattutto di cittadini stranieri anche se poi, a farne le spese, sono anche bambini italiani di famiglie che risiedono nei paesi limitrofi al comune dove vanno a scuola”, sottolinea Antonella Inverno, Responsabile Area Legale di Save the Children Italia. A Brescia, per esempio, i non residenti pagano la retta più alta: 136,80 euro mensili. 
Un’altra discriminazione è l’esclusione in caso di morosità dei genitori, accade, ad esempio, a Brescia, Ancona, Salerno e Palermo. E a Vigevano, i bambini figli di genitori non in regola con le rette, consumano il pranzo portato da casa in una stanza separata. Save the Children, quindi, chiede che “tutte le scuole, a partire da quelle dei territori più svantaggiati, siano dotate di una sala mensa dove poter condividere il pranzo, garantendo l’accesso gratuito e non discriminatorio al servizio alle fasce più deboli. E’ necessario poi estendere a tutti i comuni una misura anticrisi elementare come quella di consentire a chi ha perso il lavoro di modificare la sua fascia di contribuzione alla mensa, senza basarsi sui redditi dell’anno precedente”.












































Eppure c’è un altro modo di pensare ai giovani


Laura Rozza Giuntella

Vorrei scrivere di un mondo diverso. Ieri girando per Roma ho avuto l’impressione che l’unica attività in corso fosse quella degli attacchini che oramai a tutte le ore scollano quintali di manifesti e li riattaccano sui cartelloni arrugginiti da migliaia di confronti elettorali … Una città che muore nel traffico incontrollato, in preda a stanche ma ancora potenzialmente distruttive tribù barbariche. Ognuno per sé. Difficile trovare uno spirito solidale, una voglia di fare insieme e per il bene di tutti in giro per la città (c’è per fortuna se uno lo va a cercare, per carità), ma non è proclamato non è visibile. Arrivo dopo un interminabile viaggio a Boston, la città ferita, eppure a ogni angolo di strada vedo ragazzi che spingono immensi e allegri carrelli gialli pieni di scatoloni. Sono finiti gli esami, i ragazzi tornano a casa. E’ confortante vedere questi ragazzi in giro per la città che spingono carrelli di libri, da noi non si vedono proprio i ragazzi, se non nelle piazze fumose e disperate della movida. I carrelli chi li fornisce? L’università. Le case in mattoncini rossi curatissime circondate da aiuole fiorite di chi sono? Dell’università! Qualcuno ha capito che i giovani, non importa dove siano nati, costituiscono la promessa. E non si tratta solo di buttarne una manciata nelle istituzioni, ma di farne il cuore di qualsiasi progetto. Ripartiamo dalla cifra, forse la più tremenda di questo anno 2013: il 38 per cento di giovani disoccupati … Vediamo come si intende far fronte a questa cultura abortista della nostra società, che butta una generazione di non–nati al futuro. Massacrati nelle scuole, private di ogni risorsa, persino dei gessi per scrivere alla lavagna … (altro che tablet), tenuti prigionieri in elefantiache università che non sanno promettere nulla (infatti, non è un caso la forte flessione nelle iscrizioni), buttati allo sbaraglio in miriadi di master post-laurea, in fila a pietire stage gratuiti o semi- gratuiti. Una società in pieno deficit di accudimento, come direbbe Moretti, che si ripiega su se stessa come quelle strane collose masse di manifesti stratificati, faccia sopra faccia, e staccati come un’unica pelle coriacea dai tabelloni oramai arredo perenne dei nostri marciapiedi.

Il partito apparato ha fallito

 ,  Europa 

Quando gli avvenimenti degli ultimi mesi potranno essere osservati con il giusto distacco forse gli storici, o meglio i sociologi, sapranno spiegarci com’è potuto accadere che il Partito Democratico sia passato, nel volgere di poche settimane, dall’attesa di una vittoria annunciata, dall’aspirazione alla guida del paese in una posizione di assoluta preminenza, al rischio di estinzione.
A chi prova a orientarsi in tempo reale non resta che procedere per ipotesi, certo influenzate dalle proprie preferenze e sistemi interpretativi.
La nostra è che per una sfortunata serie di coincidenze siano venute simultaneamente al pettine questioni da lungo tempo sul tavolo, mai risolte e sempre rinviate.
Vogliamo in particolare soffermarci sulla cultura politica dominante nel partito, che si porta dietro come una componente fondamentale quella organizzativa.
La composizione dei gruppi dirigenti, la loro traiettoria personale, al di là delle peculiarità personali, vede prevalere un professionismo politico che di fatto impone alla leadership – da chiunque espressa – di essere un fattore di conservazione.
Chi non ha altro ruolo sociale che quello di leader partitico non può nemmeno sognare di mettere a repentaglio tutto il proprio capitale sociale innovando rispetto all’esistente, perché percorrere strade ignote potrebbe esporlo al rischio di perdere tutto. Ma come un imprenditore che non può permettersi il rischio è condannato per definizione al fallimento, così un leader politico (un imprenditore politico) condannato alla reiterazione coatta di schemi e parole d’ordine gradite all’apparato è destinato alla sconfitta certa. Anzi certissima in un mondo che cambia a folle velocità. E che non trae più alcun beneficio da un partito che ancora pretende di insegnargli a orientarsi nel mutamento politico e sociale, che ciascuno di noi vive e legge in prima battuta senza bisogno di mediazioni.
Un partito apparato, in una situazione come questa, è votato al fallimento. Perché il meccanismo di selezione della sua classe dirigente si basa sulla competizione per conquistare il consenso di iscritti e simpatizzanti, che costituiscono ormai un sottoinsieme abbastanza insignificante dell’elettorato potenziale del partito. Per questo chi invoca il partito aperto, il partito mare, contrapposto al partito apparato, o partito lago, non sta semplicemente ponendo una questione organizzativa.
Egli pone le premesse sostanziali perché il Partito democratico, ultimo erede dei partiti che hanno costituito la spina dorsale della democrazia italiana, sia finalmente messo nelle condizioni di candidarsi autorevolmente a essere quella forza di cambiamento e innovazione che ha sempre aspirato ad essere. Fallendo poi sempre la prova.
Il Partito democratico del terzo millennio dovrà essere un partito aperto, realmente aperto, o non sarà nulla.


Don Andrea, il folletto col colbacco

Il suo ultimo capolavoro è stata l’elezione di Marco Doria a sindaco della città

Sotto le finestre della mia casa nel centro storico di Genova, al Carmine, c’è ancora un murales del 1970 dove si legge “Aiuto! Ci hanno rubato il prete”. Il prete è Andrea Gallo. Dovrei scrivere “era”, perché è morto questo pomeriggio, ma non so se riusciremo mai davvero a parlarne al passato, non solo per ragioni sentimentali. Una persona più immanente di Andrea Gallo è difficile da pensare. Mi ha sempre riportato all’idea di santità che hanno gli orientali, quella di un’immensa compassione, di un’estrema consapevolezza che tutto è Uno, che il bene e il male sono mescolati e non si può dividere il mondo in santi e peccatori, o almeno non come vorrebbe l’ortodossia.
Don Gallo era stato il vice parroco del Carmine negli anni Settanta, quando venne fuori che nel quartiere c’era una “fumeria di hashish”, ovvero una stanzetta dove alcuni ragazzi si trovavano e fumavano gli spinelli. Il Carmine confina con una zona molto chic, abitata dalla borghesia di antico denaro, che indignata chiedeva provvedimenti severi contro i capelloni drogati temendo il contagio, senza sapere che molti dei loro figlioli ben pettinati erano già contagiati, eccome. Don Andrea, predicando la domenica successiva, disse che non solo l’hashish è droga, ma anche il linguaggio. Con le parole, ricordò, si bolla una ragazzo difficile o povero come “inadatto agli studi”, oppure si definisce “difesa della libertà” il bombardamento di popolazioni indifese.Don Gallo era stato salesiano, folgorato da Don Bosco e poi da Don Milani. Appena ordinato sacerdote aveva servito in Brasile, ma raccontava che la dittatura lo aveva scacciato. Tornato a Genova, fu assegnato come cappellano alla Garaventa, una nave-riformatorio. Su quella nave, che a Genova si evocava per spaventare i bambini (“se non studi finirai sulla Garaventa”), sperimentava un’educazione amorevole e antiautoritaria. Mia madre raccontava che non era raro vederlo alla testa di un piccolo esercito di garaventini in divisa, tutti diretti al cinema. Sono stati i salesiani a togliergli l’incarico, nel ’64, e allora lui li lasciò, chiese di far parte della diocesi di Genova, fu spedito al Carmine. Ma lì la sua predica sulla droga del linguaggio non fu gradita né ai ricchi né al cardinale, il quale voleva confinarlo a Capraia, dato che a quel tempo l’isola era sotto la sua giurisdizione.  
Il quartiere si sollevò, fricchettoni con i capelli lunghi e pie donne si ritrovarono uniti nel chiedere che rimanesse, che non lo mandassero via. Il Cardinale tuttavia restò muto, e irremovibile. Allora Don Gallo rifiutò di obbedire, e si ritrovò per la prima volta “prete da marciapiede”, come poi si sarebbe definito sempre. Ma don Federico Rebora, un altro grande prete sociale genovese, lo accolse a san Benedetto al Porto, e lì venne fondata una comunità cristiana di base che ha raccolto intorno a sé una folla enorme, e non ha mai chiuso le porte in faccia a nessuno negli ultimi quarantadue anni. Tossicomani, matti, barboni, prostitute, transessuali, devianti di ogni tipo, poveri, migranti, lui accoglieva tutti, li proteggeva, li difendeva, di ognuno sosteneva le ragioni umane ma anche quelle politiche.Riceveva onorificenze di ogni tipo, fra cui “Persona gay dell’anno”, di cui andava fierissimo. Si schierava dall
 parte dei movimenti, senza esitare. Là dove la gente aveva bisogno, o protestava, difendeva un territorio, una fabbrica, un’impresa sociale, arrivava con un gran sorriso, a rallegrare e a predicare, a parlare di Gesù come di un amico suo e nostro. Credeva fermamente che la Chiesa dovesse fare quello che diceva, stare dalla parte degli ultimi, dare voce a chi non ne ha. Raccontava che il Cardinal Bagnasco, uomo di grande carisma ma anche di fermo rigore, dopo aver scoperto che Andrea aveva prodotto perfino un calendario con le foto delle trans di Vico Croce Bianca, lo aveva mandato a chiamare. Allora, Don Andrea, gli aveva chiesto, che cosa vogliamo farne di questi transessuali? Oh beh, Eminenza, me lo dica lei, aveva ribattuto Don Gallo.  
Si è sempre detto che fosse comunista, ma non credo. Di certo era un partigiano nel senso più ampio del termine. Su youtube ci sono molti video come quello in cui si slaccia un fazzoletto rosso dal collo e lo sventola come una bandiera, cantando Bella Ciao in Chiesa, alla fine della messa, con tutti i fedeli a fargli il coro. Lui era così, se vedeva una bandiera degna abbandonata per terra la raccoglieva, la faceva vivere. Ho sempre pensato che fosse sbagliato, come è stato detto, che se non fosse stato prete Don Andrea sarebbe stato un leader politico, intanto perché lui è stato un leader politico nel senso più nobile del termine, e poi perché l’avrei visto piuttosto come un grandissimo direttore di giornale. 
Don Gallo era un comunicatore eccezionale, istintivo, intuitivo e fulmineo. Era amico di cantautori famosi come di rapper scatenati, Assalti Frontali e Vinicio Capossela non mancavano di presentarsi al suo compleanno e di esibirsi per il puro piacere di vederlo contento. Aveva imparato come funzionava Facebook e ci si divertiva come un quindicenne, ultimamente seguiva anche Twitter. Capiva le novità, e lo incuriosivano. Era stato fan della prima ora di mentelocale, il sito fondato da Laura Guglielmi, già collaboratrice del manifesto, che più di dieci anni fa aveva lasciato un posto sicuro al Secolo XlX per il web anche grazie al suo incoraggiamento. Da allora Andrea accompagnato dal suo angelo, Domenico Chionetti detto Megu, si presentava in redazione a tutte le ore, pretendeva di fare i titoli, si faceva fotografare con i giovani redattori, non si perdeva una festa. Laura Guglielmi è stata infatti la prima persona cui ho telefonato quando ho saputo che il Don ha voltato l’angolo. Ci siamo dette: «Come è duro a volte il nostro mestiere, vorremmo piangere e invece ci tocca scrivere». Il suo ultimo capolavoro è stata l’elezione di Marco Doria a sindaco della città. Lo aveva sostenuto con tutta la sua influenza e il suo potere, aveva bacchettato la sindaca uscente, Marta Vincenzi, che se l’era presa. La sera della vittoria, sui gradini di palazzo Ducale, Marco Doria aveva detto poche pacate parole per ringraziare i cittadini, poi si era materializzato d’un tratto Andrea, come un folletto col colbacco. E quando aveva accennato un passo di danza sapevamo tutti che cosa stava per succedere. Così, ancora prima di lui, abbiamo cominciato a cantare insieme Bella Ciao.
Paola Tavella 22 maggio 2013

Migrazione e integrazione: che cosa ci chiede l’Europa?


Nell’Europa della crisi, democrazia, diritti e immigrazione sono temi sempre più spinosi da affrontare nel confronto politico a tutti i livelli. A Firenze, all’interno del Festival d’Europa , la Conferenza sullo Stato dell’Unione ha visto numerosi politici e rappresentanti delle istituzioni europee chiedere a cittadini e rappresentanti dei singoli paesi membri di affrontare il tema guardando al futuro.

Le misure di austerità, adottate da molti stati europei sotto l’attenta vigilanza di Ue e Bce sembrano avere fornito nuovi argomenti a quella parte di Europa xenofoba e miope presente soprattutto nei paesi più provati dalla crisi. Non succede solo in Italia: la pericolosa “mancanza di trasparenza e legittimità” — come la chiamano il ministro dello sviluppo regionale portoghese Miguel Maduro e l’ex ministro degli esteri britannico David Miliband — sta creando un forte deficit democratico, accompagnato da risultati economici e sociali preoccupanti.
L’Europa chiede ai suoi cittadini di non stare a guardare, ma al contrario di cogliere l’occasione delle elezioni europee del 2014 come un momento di grande partecipazione democratica. La scelta di chi ci rappresenterà, ha detto il Presidente Barroso, è cruciale per ristabilire la fiducia nel processo di integrazione economica e sociale.
Ci chiede di non dimenticare che la solidarietà deve essere un valore fondante delle relazioni tra stati membri e tra i suoi cittadini. Istruzione, formazione, ricerca e sviluppo sono necessarie per evitare  che le future generazioni siano stritolate dai vincoli fiscali. Investire negli stati membri più deboli, sottolinea Emma Marcegaglia (Presidente di Business Europe, la Confindustria d’Europa), rafforza l’integrazione e l’intesa politica all’interno dell’Unione.
L’Europa ci chiede di non utilizzare l’argomento dell’immigrazione nel dibattito politico e nei media in modo strumentale alla competizione elettorale, fomentando sentimenti xenofobi e razzisti. E ci chiede di non disconoscere il ruolo fondamentale dei migranti per la demografia e l’economia europea: “dire la verità” è il primo passo per rendere l’Unione Europea un posto attraente per i migranti — qualcosa di cui abbiamo davvero bisogno. L’Europa ci chiede di non continuare a demonizzare richiedenti asilo e migranti irregolari. Un tempo combattevamo le cause della migrazione (povertà e guerre), adesso combattiamo le persone. Ma, come ricorda la commissaria UE agli Interni Malmström, i trattati e le convenzioni sottoscritte dall’Europa sanciscono e proteggono i diritti umani di tutti, a prescindere dalla cittadinanza.
In tema d’immigrazione, integrazione e asilo trovare un accordo condiviso da tutti gli stati membri è un percorso lento e niente affatto scontato. Nonostante ciò, nel giorno della Festa dell’Europa, la voce di istituzioni e politica si è unita a quella di accademici ed esperti per riconoscere che non si può fare a meno della migrazione nel territorio europeo, e che le politiche di difesa dei diritti e d’integrazione pagano più di quelle di sicurezza e repressione. Le politiche d’integrazione per i gruppi più vulnerabili della società (donne, bambini, disabili, migranti, rifugiati, ecc.) servono a confrontarsi e a costruire un’Unione Europea più sociale e solidale, che oggi manca e che darebbe legittimità anche al processo integrazione economica e finanziaria.

di Caterina Francesca Guidi e Laura Bartolini










Il Pd che non c’è mai stato

Quando si parte con il piede giusto, si è già a metà dell’opera. E l’opera in questo caso è niente meno che il futuro dell’Italia. Il Pd, però, con il piede giusto, non è mai partito. Già, perché il progetto originario di Partito democratico a vocazione maggioritaria e aperto, riformista e pragmatico, alla fine è rimasto sulla carta delle buone intenzioni.
Il Partito democratico si è risolto nella giustapposizione delle due classi dirigenti che hanno contribuito a crearlo, ma non ha saputo mettere in moto quel processo virtuoso di cui aveva, e ha ancora, un grande bisogno la sinistra del nostro paese. In poche parole, non ha saputo creare una nuova cultura autenticamente democratica. Fin troppo facile concludere che il partito nuovo alla fine si è rivelato solo un nuovo partito, l’ennesimo.
Ultima prova provata in ordine di tempo del progetto mai nato, i veti incrociati che hanno trascinato il Pd nel gioco ad escludendum sul presidente della repubblica e lasciato sul campo del correntismo sfrenato, una base disorientata e rancorosa.
Risultato preceduto dalla schizofrenia più generale nella gestione della sconfitta elettorale, quando iniziava a emergere, fin da subito a dire la verità, che non vi erano le condizioni per arrivare a un accordo con il M5S dopo i continui, insistenti, maleducati “no” di Beppe Grillo. Gioco forza, per il Pd erano due le alternative tra le quali scegliere, subito e con coraggio, come qualcuno andava dicendo: o il voto o le larghe intese. Il Pd, come è ormai noto, ha intrapreso dopo due mesi dalla fine delle elezioni la seconda, dopo averla nascosta-negata-respinta. Una strada alla fine obbligata, dopo la sculacciata del presidente Napolitano che sapeva tanto di richiamo del buon padre di famiglia verso il figlioletto capriccioso che proprio non vuole capire.
L’opera è oggi allora non a metà, ma ancora tutta da costruire. Come tutto da rifare è anche per il Pd.
In un momento storico in cui il mondo corre alla velocità della luce, il Partito democratico deve trovare il coraggio di aprire davvero una fase nuova. La sinistra riformista nel nostro paese ha bisogno finalmente di un partito che non si fermi a guardare l’ombelico ma che alzi il proprio sguardo oltre l’orizzonte dell’immediato elettorale.
Per fare questo il partito democratico deve smarcarsi una volta per tutte da quella politica del riciclo fatta di parole e promesse, vecchi schemi culturali e frammenti di ideologie che riutilizzano materiali fin troppo noti e logorati. Il Partito democratico deve proporre invece al paese una idea di futuro che parta dalla lettura aggiornata della realtà fatta di lavoratori a partita Iva e contratti atipici che non hanno l’ombrello della cassa integrazione per ripararsi dalla crisi, ma anche di un lavoro che, per continuare a essere vocabolo di sinistra, non può non essere declinato principalmente in termini di sviluppo e non solo rivendicazione di diritti.
Senza dimenticare che una crescita è sana quando alla base c’è la valorizzazione del merito e delle competenze.
Il Partito democratico che vorrei è allora un partito che, a cominciare dalla riflessione su cosa significa oggi essere di sinistra, si assuma la responsabilità,  – che se poi la guardiamo tutta è insieme una privilegiata opportunità – di orientare il cambiamento.
L’Italia negli ultimi vent’anni si è arroccata, divisa e scontrata sulla dicotomia quasi referendaria “Berlusconi sì, Berlusconi no”. Una visione che di fatto ha precluso ogni possibilità di confronto, dialogo e progettualità. Questo ha inaridito il sistema paese che, al contrario, avrebbe avuto bisogno di innovazione, capacità di guardare al futuro, così da far crescere quella che viene definita storia, esperienza, know how, competenza. Insomma è come se si fosse creata una frattura tra chi ha costruito l’Italia, ovvero la generazione dei nostri padri e chi questo Paese dovrebbe ora prenderlo per mano e rinnovare e rimodernare mettendo da parte il catalogo obsoleto delle ossessioni.
Il Partito democratico ha davanti a sé la possibilità di partire questa volta con il piede giusto.
Gli italiani non sono rassegnati alla politica tout court, ma stanchi di una certa politica chiacchierona e inconcludente; non sono disinnamorati dell’Italia, ma arrabbiati con coloro che ne hanno imbrigliato le potenzialità, le idee e le forze nuove.
21 maggio 2013 Europa  Simona Bonafè






CORAGGIO

 Giovanni Colombo
 Stamattina, e non è la prima volta, mi sento un Don Abbondio. Come posso scrivere di coraggio?  Ci vorrebbe al mio posto un Fra Cristoforo,  che ne I Promessi Sposi, è,  per converso, il prototipo dell’uomo coraggioso, o ancor di più,  un Achille, chiamato nell’Iliade  thumoleonta, “cuor di leone”, o un Ulisse, l’eroe della tenacia, definito  nell’Odissea kradie sideree, “cuore di ferro”. Quindi prendete con benefico d’inventario i cinque punti che trovate qui di seguito.
1. Don Abbondio c’est moi! Per il Manzoni il curato di campagna, che scende per la via con il breviario in mano  e  s’imbatte nei due bravi  e  poi scappa a casa a prendersela con la sua Perpetua, è la figura archetipa della viltà. Non è cattivo, non mira a ottenere vantaggi personali, né tanto meno, a incrementare la propria potenza. “Assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete”, è consapevole “d’essere, in quella società come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”(capitolo I). Vuole stare lontano di pericoli, se la prende anche con la mula che nella discesa dal castello dell’Innominato al fondo della valle, sta troppo vicino al precipizio: “Anche tu – diceva tra sé alla bestia – hai quel maledetto gusto d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero!“ E tirava la briglia dall’altra parte; ma  inutilmente. Sicché, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui” (cap. XXIV).  Don Abbondio ha un suo “sistema”,  scansare  tutti i contrasti e cedere in quelli che non poteva scansare: “Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico” (cap. I). Il povero don si schiera sistematicamente col potere ma non in ragione  di una ponderata scelta presa di volta in volta, bensì per l’automatica adesione alla realtà così com’è. Accetta il mondo dei don Rodrigo e dei bravi come l’unico possibile e rinuncia alla buona battaglia. Non vuole disturbare gli  altri, anzi lascia che siano sempre gli altri a prendere le decisioni e ad assumerne i rischi conseguenti. Si sdraia sotto i potenti,  per un’ inerte spirito di adattamento alle logiche dell’esistente.
2. Se i don Abbondio sono così, chi sono, all’opposto,  i coraggiosi? In primis son coloro capaci di resistenza al reale, che dicono di no, non perché perenni bastian contrari o indocili pierini o ciechi temerari che non vedono i  pericoli, ma perché consapevoli che mai il senso si esaurisce nei limiti dell’esistente o della verità di volta in volta presentata come ultima.  I coraggiosi sono dei disobbedienti. Secondo Fromm, in La disobbedienza come problema psicologico e morale (1963), all’origine della civiltà occidentale c’è il coraggio di opporsi all’ordine stabilito: dal rifiuto del comando divino di Adamo e Eva alla disobbedienza ribelle di Prometeo. Ad essere più precisi, degni di chiamarsi coraggiosi sono coloro che vivono tutte e tre le dimensioni che compongono  la virtù del coraggio -  fra tutte le virtù la meno classificabile more geometrico - :  a) la parresia, il parlar franco che dice no al potere, o meglio alla gelida ideologia dell’ ”eterno presente” che congela ogni progetto di innovazione e di emancipazione; b) lo sforzo tenace orientato  a trasformare praticamente  lo stato di cose, malgrado gli ostacoli e le paure (per aspera ad astra!); c) la disponibilità a accettare i rischi conseguenti: la sicura diffamazione da parte del coro degli apologeti dello status quo, la possibilità del fallimento, in ultima istanza il pericolo della morte.  Si tratta di dimensioni unite tutte e tre  dal  “principio speranza”: non scatterebbe mai la disponibilità ad abbandonare l’inerzia del presente se  il futuro non apparisse promettente, come luogo dove  “essere altrimenti” ed “essere migliori”.
3. Ogni epoca ha avuto la sua buona dose di coraggiosi che sono usciti dai binari consueti. Sono loro che danno la sveglia, che impediscono al mondo la stanca ripetizione del mondo. Ma è stato soprattutto il Novecento, “secolo breve” ma più di ogni altro denso di tragedie, a insegnarci quanto è importante la resistenza di chi dice no. L’inquietante verità dello sterminio consumatosi dietro i reticoli dei lager sta nel circolo vizioso instauratosi tra  l’assetto  della realtà e la supina adesione ai suoi precetti. Il “tu devi kantiano”, ridotto a mera forma e per ciò stesso suscettibile di essere riempito con ogni contenuto, si è  capovolto nel devastante “imperativo categorico” del Terzo Reich : “agisci in maniera che, se il Fuhrer conoscesse le tue azioni, le approverebbe”. Il rispetto della legge si è tramutato nella viltà di chi non osa opporsi alla “logica illogica” di un ordine che offende la dignità dell’uomo e provoca distruzione e sangue. Così scriveva Bonhoeffer, uno dei pochi ad aver avuto il coraggio di dire di no al delirio nazionalsocialista, pagando con la vita le conseguenze della sua cospirazione ad Hitler: “Chi non riconoscerà ai tedeschi di aver raggiunto i massimi livelli di valorosità e di coinvolgimento personale nell’ubbidienza, nello svolgimento del proprio compito o nella professione? (…) Ma in questo modo i tedeschi hanno commesso un errore di valutazione nei confronti del mondo: non avevano fatto i conti con la possibilità che fosse fatto un uso malvagio della loro disponibilità alla subordinazione al coinvolgimento personale nel proprio compito “ (Resistenza e resa, pp. 62 -63).
Ripensando al Auschwitz, e allargando lo sguardo ai milioni di morti delle guerre mondiali, ai gulag, alle bombe atomiche,  vien da domandarsi quanto diversa sarebbe stata la piega degli avvenimenti  se in tanti avessero  agito in modo “irresponsabile”, secondo quell’eroismo del rifiuto che è l’antitesi  dell’obbedienza cadaverica dei funzionari dell’orrore.  Per questo bisogna tenere in sommo onore la memoria di quei pochi che si opposero ai totalitarismi,   come il citato Bonhoeffer, come i giovani della Rosa Bianca tedesca, che per aver scritto sei volantini contro il regime hitleriano furono arrestati, condannati per alto tradimento e decapitati da un’efficiente ghigliottina tedesca nel carcere di Monaco.  Anche in Italia, e pensando in particolare alla scuola,  sarebbe il caso di ricordare molto più spesso i nomi di quei dodici professori, i soli su oltre milleduecento accademici - l’1 per cento!- , che si opposero al giuramento di fedeltà al fascismo.

4. E oggi? Che succede nel ventunesimo secolo?  Ad un primo sguardo la parresia sembra autorizzata, anzi incentivata a dismisura sugli innumerevole mass media che intossicano la nostra esistenza. Ma appena lo sguardo si fa più acuto  ci si accorge che la critica è sì permessa a patto che la si accompagni con l’inazione e con  l’accettazione dell’imperativo: “consumate, e sopportate!”. L’odierno ordine del mondo sa di non essere perfetto, di più,  di essere un  gran hotel dell’assurdo,  semplicemente nega l’esistenza di alternative, convincendo le menti non delle proprie qualità, ma del proprio essere fatale. Il coraggio  deve allora determinarsi oggi soprattutto come impegno a  “defatalizzare” il mondo  incorporando  la praxis all’interno della teoria come sua possibilità reale, come luogo di inveramento della teoria stessa.  Le opere tornano decisive. E’ falso e vile  quel modo di vivere che non “fa” la verità. La verità nel senso biblico è prassi; non è come quella greca, puro fatto teorico, dell’occhio e del vedere. Non basta quindi interpretare il mondo, bisogna trasformarlo e  sottrarlo  al  fanatismo dell’economia e alla fede cieca nel Mercato.  Il gesto più coraggioso nel nostro contesto è abbandonare il furore dell’accrescimento e violare il ferreo principio del “do ut des”, che è l’articolo 1 della “magna charta” del mercato e del commercio. Viene un momento, ed è questo, in cui deve scattare l’asimmetria: chi ha, dia senza pretendere reciprocità. Do anche se tu non dai. Lo pretende lo stato di emergenza: il palazzo è uno solo, se non ci muoviamo, il crollo che sale dalle cantine farà precipitare pure le terrazze. Lo pretende anche una nuova visione, più sensata,  del nostro rapporto con gli altri e con le cose. Ci crediamo dei creditori mentre siamo in costante debito. Come ha scritto in una sua poesia Milo De Angelis, “Se ti togliamo ciò che non è tuo, non ti rimane niente”. Parole urticanti, ma a mio avviso vere, molto vere.
5. Una riflessione, per quanto breve, sul coraggio non può finire senza affrontare l’aspetto più problematico che la figura di don Abbondio testimonia. “Il coraggio, uno non se lo può dare”: è vero? Se Il coraggio è una virtù del cuore, non della mente, come del resto rivela il suo stesso nome, e se il cuore non è cuor di leone, dobbiamo rassegnarci? Si può cambiare il cuore? Cosa  ne può provocare la metamorfosi?  C’è una poesia di Vinicius de Moraes, Il muratore, che racconta di come un cammello si trasformò in leone.  Chi sapeva dire solo “sì” imparò a dire “no”.  E’ lunga,  ne posso qui riportare solo il pezzo centrale:
(…) Fu lui a costruire case dove prima era terra deserta. Come un uccello, senz’ali, volava alto come gli edifici che germogliavano dalle sue mani. Ma ignorava tutto della sua importante missione. (…)Fu così che un giorno   a tavola, mentre tagliava il pane, l’operaio fu pervaso  da un’improvvisa emozione nello scoprire, esterrefatto, che tutto quanto era sulla tavola, piatto, coltello e bottiglia - era opera sua, di un umile muratore.  Si guardò in giro, panca, nicchia, finestra, casa, città e nazione! Tutto ciò che esisteva era opera sua, di un umile operaio he sapeva esercitare il suo mestiere. Fu nel discernimento di questo momento solitario che, come le sue costruzioni, così l’operaio stesso crebbe. Crebbe in altezza e in profondità, nel respiro e nel cuore. Si notò una novità che sorprese tutti. Ciò che l’operaio andava dicendo un altro operaio lo ascoltava. Fu così che l’operaio di un edificio in costruzione che aveva sempre detto “sì” iniziò a dire “no”.
Nella poesia viene descritto il momento X  in cui l’operaio acquisì una nuova consapevolezza.  Stava mangiando, d’improvviso avvenne la trasfigurazione di ogni cosa. Nulla era cambiato – gli stessi mattoni, le stesse mura, gli stessi oggetti - e tuttavia la luce era differente.  Potremmo dire che gli  si manifestò la bellezza del mondo e la sua dignità di uomo creatore.  Qualcosa gli bruciò dentro, fu accarezzato dal futuro. E dalla sua bocca scaturì  il “no”, la parola rimasta dimenticata, inespressa,  la parola che avrebbe dato inizio a un cammino di liberazione. Lui e gli altri operai stavano diventando cospiratori, iniziavano a  respirare gli stessi sogni…
Il coraggio scatta da un bruciore interiore, da un cuore toccato e trasformato da un’esperienza di bellezza,  che spinge a parlare e agire senza più paura delle conseguenze. Il coraggioso non è tale fin quando non stipula un patto con se stesso: “accetto di legarmi alla verità che ha avvertito dentro di me, e di testimoniarla costi quel che costi.  In fede, io me stesso medesimo XY” . Dopo la firma, nessun successo storico è assicurato. Tendenzialmente il sottoscrittore finirà in luoghi scomodi e marginali.  Ma di certo la sua luce intima si espanderà al di fuori. Aleggerà un’intensa fragranza, foriera di nuova speranza. 
























































Senza pudore 

Gerhard Mumelter corrispondente del quotidiano austriaco Der Standard. Scrive questo blog per Internazionale

 9 maggio 2013

Siamo alla terza repubblica? Non scherziamo. La nomina dei ventinove presidenti delle commissioni di camera e senato usa il vecchio manuale Cencelli come una bibbia e dimostra che l’Italia non cambia mai. Il paese è nella crisi più grave dal dopoguerra? Aumentano i disoccupati e la povertà? Cresce la rabbia contro la casta? Non esageriamo.
A dieci giorni dal giuramento il governo Letta non si è inventato neanche un gesto di buona volontà. E il parlamento si è tuffato senza vergogna nella sua attività preferita: la distribuzione di poltrone. Una ressa indegna tra tensioni, accuse reciproche e franchi tiratori, nella quale il Pdl conferma i suoi peggiori istinti. Con i politicanti di sempre pronti ad assicurarsi l’ennesimo posto di prestigio.
Con l’ex piduista Fabrizio Cicchitto, in politica da 37 anni, che si aggiudica la presidenza della commissione esteri alla camera. E Pier Ferdinando Casini, premiato per la sua disfatta elettorale con la presidenza della stessa commissione al senato. Roberto Formigoni è indagato e ha fatto parte di un consiglio regionale pieno di indagati? Per lui c’è la presidenza della commissione agricoltura al senato. La nomina del Celeste  arriva a poche ore dalla richiesta di rinvio a giudizio.
La giunta per le autorizzazioni è stata affidata alle mani responsabili di Ignazio La Russa. È l’ennesima resurrezione dei professionisti della politica. L’ex ministro dell’agricoltura Giancarlo Galan alla cultura, l’ex ministro all’ambiente Altiero Matteoli ai lavori pubblici. Ci sono gli ex ministri Cesare Damiano,  Maurizio Sacconi e Francesco Nitto Palma, la cui elezione senza il consenso del Pd ha già rischiato di provocare una crisi di governo.
Ci sono le facce di sempre: Elio Vito, Daniele Capezzone e Anna Finocchiaro, in parlamento da un quarto di secolo in barba allo statuto del Pd. C’è il voltagabbana Antonio Razzi, già dell’Italia dei Valori, nominato segretario della commissione esteri.
Alla vicepresidenza della commissione finanze del senato c’è Franco Carraro, tre volte ministro e già presidente del Milan quando Enrico Letta era appena nato. Notevole anche il rispetto delle pari opportunità: tre donne su ventinove.  E finalmente anche l’M5s si prende la sua infornata di 28 poltrone. Finisce così il breve idillio con Sel, che accusa i grillini di “squallido poltronismo”.
Intanto Silvio Berlusconi, la cui condanna a quattro anni è stata confermata, fa saltare la convenzione per le riforme costituzionali e smentisce la sua candidatura alla presidenza: “Era uno scherzo.” Non c’è da meravigliarsi che il governo abbia deciso di rifugiarsi nell’abbazia di Spineto per “fare spogliatoio.” Il rischio però è di rimanere in mutande.

 

Sul filo sottile

Guido Formigoni

|
Il governo Letta è nato sotto il segno della necessità, ci è stato detto. E’ un governo che probabilmente era ormai dovuto, ma non è un governo qualunque. Poteva essere diverso. Sarebbe stato ancora possibile scegliere un governo con un profilo più basso, legato a un programma specifico e determinato. E’ invece stato scelto, con il determinante impulso del capo dello Stato, con l’assenso gaudioso di Berlusconi e con l’accettazione forzata del Pd un governo propriamente politico senza vincoli specifici. La sua composizione ha fatto parlare di un salto generazionale e ha evitato molti tra gli scogli possibili. Il suo programma proclamato è per ora un sapiente collage di posizioni, in cui si evita di prendere di petto molti problemi controversi. La navigazione è iniziata.
Occorre ragionare però sul suo orizzonte politico. Intanto e soprattutto, cosa pensare delle «larghe intese»? Si sono scomodati illustri precedenti nella storia della repubblica, come la «solidarietà nazionale» del decennio ’70. Mi pare un parallelo piuttosto forzato. In quel caso un governo comune tra avversari politici propriamente non si fece. Moro non lo voleva (lo avrebbe voluto Berlinguer, perché per il Pci era la rivincita sulla rottura del 1947, ma senza i numeri per farlo). Si fece piuttosto un accordo su una formula parlamentare di attesa (prima le astensioni, poi il Pci nella maggioranza su un programma concordato). La logica di Moro era appunto quella di utilizzare fino in fondo questo periodo di tregua per portare il Pci a sostenere definitivamente la democrazia (in un periodo di emergenza per la crisi economica e il terrorismo), e quindi poter mettere in grado il sistema di giungere a una legittimazione reciproca definitiva e (forse) all’ipotesi dell’alternanza.
Oggi si scambiano i passaggi fondamentali: il governo fatto assieme dovrebbe essere il presupposto di una «pacificazione» invocata, di un superamento delle delegittimazioni reciproche. Si sono cominciate a suonare molte sirene in questo senso. Vasto programma, diremmo a occhio e croce. Intendiamoci, non è che le intese tra diversi non si possano fare (e siano tutti inciuci deteriori): la nobile mediazione è l’arte somma della politica e si fa tra diversi, non tra uguali. Non è che svelenire il clima non sia positivo: non siamo tanto sfascisti da pensarlo. Non è che le istituzioni e le regole possano essere monopolio solo di una parte. Ma tutto ciò si deve verificare e sottoporre ad alcune condizioni, per non cadere nel rischio di andare molto oltre il dovuto. Proviamo sinteticamente a indicarne alcune.
La prima: per legittimarsi reciprocamente ci vuole la verità delle parole e dei fatti. Non si può chiedere al Pd di dimenticare il passato, quando Berlusconi ha governato allegramente screditando le istituzioni e l’immagine italiana nel mondo (fino a far sbellicare dalle risa l’Europa preoccupata e incerta). Cosa dire del presunto statista fallito che ha aumentato la spesa, tollerato l’evasione fiscale e lasciato l’austerità ai tecnici: non contento, è ritornato in campagna elettorale promettendo l’abolizione dell’Imu? Ci siamo dimenticati le leggi ad personam e l’uso disinvolto del potere a fini personali? Basta adesso il profilo prudente assunto negli ultimi due mesi per modificare l’esperienza di vent’anni? Difficile da sostenere. La legittimazione della destra italiana chiede di superare definitivamente il berlusconismo: gli elettori non vogliono? I politici non sono in grado? Prendiamone atto, prima di correre a disegnare scenari improbabili. Il macigno è ancora lì.
La seconda: la prima scelta per sostenere le larghe intese è concordare sulle regole in modo sobrio. Senza ributtare tutto all’aria a ogni pié sospinto. C’è stato tutto il tempo, sotto il governo Monti, per fare alcune riforme precise da moltissimi invocate (legge elettorale, bicameralismo, numero dei parlamentari). Chi ha impedito di farlo? Questa vicenda della convenzione per le riforme puzza invece di bruciato, come autorevolmente è stato sostenuto. Da una parte, invocare la «grande riforma» è sempre stato il modo migliore per menare il can per l’aia e in conclusione non fare niente, paralizzati dalle paure e dai veti reciproci. Dall’altra, ributtare per aria tutto (dalla forma di governo in giù) presenta il rischio di stravolgere gli assetti esistenti, con un progetto in cui si infarciscano provvedimenti disparati, lasciando poi anche di fronte all’eventuale referendum il cittadino incerto sul giudizio e facendo passare assieme provvedimenti popolari e provvedimenti potenzialmente ambigui. Sarebbe ben meglio presentare alcuni specifici progetti di riforma costituzionale (o di legge ordinaria) sui punti ormai maturi e procedere sollecitamente in parlamento.
La terza: governare assieme tra avversari politici che restano tali è possibile appunto ricordandosi ogni giorno che siamo nell’emergenza. E’ un’eccezione nella normalità parlamentare. Chiederebbe quindi di evitare vaghi e ampi disegni, che rischiano puntualmente di essere smentiti. Facile parlare di «crescita senza debito», «lavoro ma senza nuova spesa», «riduzione delle tasse, ma con i conti in ordine» e via di questo passo. Mi paiono palesi formule che coprono la contraddittorietà delle intenzioni delle parti contraenti l’accordo. La manfrina che Berlusconi ha avviato sull’Imu è il primo segnale dei problemi che possono nascere ogni giorno. Occorrerebbe forse piuttosto un programma sostanziale il più possibile definito e limitato, per poter in qualche modo gestire le condizioni dell’emergenza e riaffidare quindi sollecitamente ai cittadini lo scettro del decisore. Le prime settimane del governo saranno importanti per capire se ci sono queste priorità di fatto su cui il governo si qualificherà.

pubblicato sul sito  C3Dem







L'uomo ossessionato dal Diavolo
di Marco Damilano
Lo citava sempre, molto più di Dio. Fino a identificarsi con quell'epiteto, 'Belzebù', coniato per lui da Craxi. E fino alla vaga ma terribile confessione finale di una vita: "Per certe cose e per certe scelte che abbiamo fatto meritiamo l'inferno"
(06 maggio 2013) da L’Espresso

http://data.kataweb.it/kpmimages/kpm3/eol/eol2/2013/05/06/jpg_2206327.jpg

Il Divo è morto questa mattina a 94 anni, per combinazione quasi lo stesso giorno che aveva segnato la sua vita politica, il 9 maggio di trentacinque anni fa, il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nella Renault rossa in via Caetani. E non si può dimenticare, oggi che Giulio Andreotti è definitivamente consegnato alla storia, il giudizio che Moro diede di lui nel suo memoriale: «Non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell'insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà (si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice. Che cosa ricordare di Lei? Durerà un po' più, un po' meno, ma passerà senza lasciare traccia...».

Parole sferzanti. Moro aveva conosciuto Andreotti da ragazzo, nella Fuci del futuro papa Montini. Era più anziano di lui di appena tre anni, insieme avevano scalato tutti i gradini del potere. Lo odiava, racconta chi ha conosciuto i pensieri dello statista democristiano, Moro non si sarebbe mai potuto dare pace a sapere che lui era morto ammazzato in un covo di terroristi mentre il suo rivale gli sarebbe sopravvissuto per più di tre decenni. E il fantasma di Moro ha continuato a tormentare Andreotti, come intuito artisticamente da Paolo Sorrentino nel film "Il Divo" (2008). Fino a oggi.

Il Divo è morto questa mattina di pioggia nella sua Roma, ma sembrava scomparso da tempo. Si era già, consapevolmente o meno, affidato all'eternità della sua immagine, della sua leggenda nera. Orecchie da pipistrello, gobba crescente, occhi stretti come fessure di un salvadanaio dietro le lenti, labbra sottili, dita lunghe e affusolate. L'immagine dell'immortalità del regno democristiano. Il potere per il potere, che logora chi non ce l'ha. Il volto nascosto della Balena Bianca. La volpe machiavellica travestita da innocente colomba.

Avevano cominciato a chiamarlo Belzebù quando sarebbe stato impensabile vederlo sotto processo per mafia. Il primo a farlo fu Craxi nel maggio 1981. Craxi parlava del venerabile maestro della loggia P2 Licio Gelli come di Belfagor, un demonio minore, che per agire doveva avere alle spalle un mandante, un protettore, Belzebù. E tutti pensarono ad Andreotti. All'esistenza del diavolo, il sette volte presidente del Consiglio ci credeva davvero. A dirla tutta: nominava nei suoi interventi più il diavolo di Dio. Quasi un'ossessione, tipica di una certa religiosità tutta paura dell'Inferno et indulgentia plenaria. Nel 2000 scrisse una lunga lettera al Diavolo Capo, per il mensile "Lettere", con una chiusa beffarda: «Se, non si offenda, si arrivasse a concludere che davvero Lei è un'invenzione, ne riporterei personalmente un beneficio. Taluni miei avversari, pubblici o privati, la smetterebbero finalmente di chiamarmi Beelzebub».

Nel corso degli anni Andreotti era diventato Belzebù. Il Grande Vecchio. Il Male assoluto. Sempre associato a tante cattive compagnie: il maresciallo di Salò Rodolfo Graziani con cui ci fu il leggendario "abbraccio" di Arcinazzo, il generale Raffaele Giudice, Gelli, i banchieri Calvi e Sindona, il direttore di "Op" Mino Pecorelli. Morti avvelenati, morti ammazzati. L'uomo dei dossier e dell'Archivio, che si sussurrava contenesse i segreti nazionali. L'Armadio Andreotti, in cui nell'immaginario trovavano posto tutti gli scheletri d'Italia. Quando poi fu consegnato all'Istituto Sturzo in 3500 faldoni, conservati in un sotterraneo del cinquecentesco palazzo Baldassini, si vide che dentro c'era di tutto: documenti, ritagli, lettere, videocassette, nastri sonori, litografie, foto. Perfino, avvolta in una elegante confezione rossa, una tavoletta di cioccolato reperita chissà quando in un albergo di Cap Ferrat, in Costa Azzurra. Il Divo l'aveva pure assaggiata, prima di archiviarla: l'impronta del morso diventerà una reliquia dell'andreottismo, culto che ha dominato inconfessabilmente la vita della Prima, della Seconda e di tutte le Repubbliche.

Nessun commento:

Posta un commento