sabato 29 dicembre 2018

Una vecchia intervista ad Amos Oz. Sull’amore

Vorrei prima di tutto ricordare Amos Oz attraverso le sue parole, oggi che uno dei più grandi scrittori al mondo ci ha lasciato. Ho recuperato, nel mio archivio virtuale, l’intervista che mi commissionò L’Espresso, Era l’inizio del 2005. Andai a trovarlo ad Arad, nella sua casa nel Negev. Un’esperienza che ricordo dopo tanti anni come un privilegio, un regalo. Poi, metterò in fila i ricordi. Pochi, nettissimi.

LO SPAZIO ANGUSTO (E INTIMO) DELL’AMORE

Il diametro dell’amore è molto stretto. Quasi angusto. Lo spazio appena necessario a contenere dieci, al massimo venti persone. Uno, due, forse cinque posti nel mondo. E del buon cibo, qualche libro, e pochi brani di buona musica. Tutto qui. Al di fuori di questo cerchio magico, non c’è più l’amore. C’è qualcos’altro. Pace, pietà, fratellanza. Altri sentimenti, ma – per favore – non chiamateli amore, che non ha nessuna missione salvifica nei confronti del mondo.
Asciutto, profondo, scevro da ogni sentimentalismo, Amos Oz declina la parola “amore” dentro il contenuto diametro del suo mondo. Nel suo studio quasi monacale, in cui l’unica indulgenza al possesso sono i libri che tappezzano ogni angolo delle pareti. Nella sua casa, essenziale, di fronte a un panorama altrettanto asciutto. Ad Arad, città israeliana al crocevia tra il deserto del Negev e la steppa dei villaggi beduini.
“L’amore è il pretesto. La scusa per tutto”, dice con una punta di amarezza l’autore della Storia d’amore e di tenebra e di Michael mio. “Non è né la chiave né la cura per tutto. Dire che si ama il terzo mondo o l’Africa, il mondo arabo o l’America Latina, cosa significa? Nulla. Non significa nulla amare mille persone. L’amore è un sentimento intimo, non universale. E il diametro dell’amore comprende dieci, al massimo venti persone. Come diceva una vecchia canzone degli anni Sessanta, There is not enough love to go round
Secondo questa descrizione, non ci devono per forza essere bontà e bellezza, nell’amore…
Non le sto parlando di quello che vorrei fosse l’amore. Ma del fatto che l’amore può diventare una forza molto distruttiva. Chi ama può essere anche capace di atti terribili. Persino l’amore dei genitori per i loro figli è molto spesso un amore possessivo, che domina e che dice “concedimi di cambiarti per il tuo stesso bene”. In modo molto semplice, l’amore può diventare una forma di fanatismo, due elementi che hanno una relazione molto stretta tra di loro. Prenda il fanatico, quello che io chiamo un uomo a binario unico, un punto esclamativo che cammina.
Il fanatico non odia la persona che gli sta accanto. Anzi. La ama a tal punto che vuole cambiarla completamente, vuole convertirla. Perché possa essere felice. Cambiando il suo modo di vestire, lo stile di vita, il modo di mangiare, le idee. Il fanatico è convinto di amare il prossimo. E questo, ovviamente, èamore, con una componente egoistica molto forte. Perché, se Gesù ci ha insegnato che il vero amore è completamente altruistico, così non è nella realtà. Lo chieda a Otello, glielo potrà spiegare.
Ed è questa, allora, la faccia che l’amore mostra in questa era dello scontro tra le civiltà?
Non c’è uno scontro di civiltà in atto, in questo momento. C’è uno scontro tra i fanatici e noi, che siamo l’altra parte del mondo. Fanatici che sono dappertutto, non solo nell’islam, ma nel giudaismo, in America e in Europa, nella destra così come nella sinistra. Il fanatismo non è il tratto esclusivo di una civiltà. Anzi. I fanatici sono invece così forti, oggi, perché più il mondo diventa complicato, più le persone hanno bisogno di un demonio, di risposte molto semplici. Che raccolgano tutto, che spieghino tutto.
In questo tempo, anche se non è stato l’unico nella storia, la battaglia principale è dunque quella tra i fanatici e il resto dell’umanità. E non vedo nessuna differenza sostanziale tra la jihad e la crociata. Se qualcuno ama il mondo arabo così tanto da volerlo cambiare con la forza, con le bombe, con i mitragliatori, forse è amore, ma non è utile.
 Se non è scontro tra civiltà, non crede comunque che ora, in questo nostro tempo, la Storia sia piombata nella nostra vita, ci corra vicina ogni giorno?
No, non lo credo. La Storia, per quanto mi riguarda, l’ho avuta vicina per tutta la mia vita.  Sono nato, sono qui, esisto per un cataclisma della Storia. Lei viene dall’Europa, ed è troppo giovane per ricordarsi la seconda guerra mondiale, quando – certo – l’Europa visse una overdose di storia. E anche se è in Europa, viene dall’Italia e non dalla ex Jugoslavia o dalla Cecenia, dove l’overdose di storia è ancora palpabile in questi momenti. Insomma, tutte le fasi della storia sono speciali, e questo non è più catastrofico di altri. Non c’è, per esempio, una guerra mondiale in corso. Solo guerre locali. La differenza è, semmai, che oggi è c’è più scetticismo. Su tutto.
Avverte, nell’aria, l’odore, l’atmosfera che si respirava negli anni Trenta? Come passeggiare dentro un gioco di domino?
No. La cosa che, invece, mi preoccupa di più è che la gente si sia dimenticata della seconda guerra mondiale. Ragione per la quale noto una certa inclinazione di molte persone a essere sentimentali verso le cose del mondo, invece che chirurgici. L’assioma che si possa curare tutto con la buona volontà. Le ripeto una cosa che ho detto già molte volte. E cioè che, a differenza di molti pacifisti in Europa, non penso che il male assoluto sia la guerra. Il male assoluto è l’aggressione. La guerra è solo il risultato dell’aggressione. Chi, invece, punta l’indice contro il conflitto, si alza e dice “fate l’amore, non fate la guerra”. Come se l’amore fosse la risposta contro la guerra. Come se l’amore fosse l’opposto della guerra. Non è così.
Perché?
L’amore è un sentimento intimo e personale. La guerra è un fenomeno della storia. Il contrario della guerra non è l’amore. È la pace. Non credo all’amore tra le nazioni. Non credo che il problema, tra russi e ceceni, sia di cominciarsi ad amare. Hanno bisogno non di amore, ma di pace. L’amore è nella famiglia. Non è una forza internazionale. È sentimentalista, è kitsch pensare che ci possa essere amore tra le nazioni. Molti giovani idealisti tendono a pensare che amore, pace e pietà e perdono e fratellanza siano sinonimi. Non lo sono. Pace è qualcosa che si raggiunge tra nemici, e spesso a denti stretti. E’ un divorzio, non una luna di miele. Il sentimentalismo attuale su amore, pacifismo e fratellanza ha origine nel fatto che la gente si è dimenticata gli anni Trenta e la seconda guerra mondiale. Un’anziana sopravvissuta al campo di sterminio di Theresienstadt si è trovata di fronte a una dimostrazione pacifista. Li ha trovati ridicoli. “Chi mi ha liberato dal campo di sterminio – ha detto – non era un manifestante. Era un soldato”.
Allora, qual è la guerra giusta?
Niente al mondo mi costringerà a uscire di casa e a cominciare a combattere, se non l’urgenza di fermare l’aggressione. L’unica guerra giusta, a mio modo di vedere. Non combatterò mai una guerra dichiarata perché Israele vuole conquistare i luoghi santi della Bibbia. O perché il mio paese vuole una stanza da letto in più nella nostra casa. O per quelle che vengono chiamate risorse, o interessi nazionali.
E per portare democrazia, la farebbe una guerra?
No. Non si porta la democrazia sulla punta dei fucili. La democrazia può essere solo creata dalla seduzione, dalla tentazione. Da parte di chi può iniziare l’equivalente di un piano Marshall, sviluppare la società civile e, dunque, migliorare le condizioni della classe media. Non perché io ami la classe media, o perché sia il tedoforo della democrazia. Non dimentico, per esempio, che la classe media impoverita sia stata quella che ha portato Adolf Hitler al potere. Ma non esiste democrazia dove non esiste la classe media.
Torniamo all’amore. Prima ci si è chiesti se fosse possibile l’amore dopo la Shoah. Ora, all’alba del Terzo Millennio, ci si chiede se sia possibile dopo Beslan…
Certo che è possibile. Una domanda del genere assume che se alcuni fanno cose terribili ad altri, io debbo odiare tutti. Perché mai? La natura umana è fatta in maniera tale che possiamo avere sentimenti molto buoni, positivi, anche se siamo noi stessi  a essere sopravvissuti all’inferno. Anche chi è stato ad Auschwitz è capace di apprezzare e godere del buon cibo, del sesso, talvolta è molto felice di guadagnare un bel po’ di soldi. Questa è la natura umana. Questa è la nostra natura. Sappiamo che ognuno di noi morirà. E questo è, in un certo senso, peggio di Auschwitz e Beslan, perché riguarda noi. Me. Sono io che morirò. Eppure, se mangio del buon cibo, se ho una piacevole conversazione, se ascolto buona musica, ne godo come se io non dovessi morire. Nonostante io sia, come ciascuno di noi, nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione. Siamo strutturati in maniera tale da poter contenere più di una emozione. Chi, invece, ne può contenere solo una, è un fanatico.
Ma non è scioccato da Beslan?
Sì, posso essere scioccato da Beslan, dai genocidi, dalla crudeltà, e – nello stesso tempo, praticamente nello stesso tempo –… li ascolta gli uccelli fuori dalla finestra? È l’ora degli uccelli, qui nel deserto… È questo, per fortuna, il modo in cui  siamo fatti. Erano le otto e mezza del 6 giugno 1967. Quando ho visto il campo di battaglia, i cadaveri con la pancia squarciata, ho pensato che non avrei mai più potuto mangiare in vita mia. Quattro ore dopo. Era mezzogiorno e mezza. Ci fu un piccolo break nei combattimenti. Mi ritrovai a mangiare un panino e ad ascolare musica con la mia radio a transistor, in mezzo a un campo pieno di cadaveri. È il nostro modo di essere. È il modo in cui curiamo la sofferenza. E può anche darsi che una donna  sopravvissuta all’orrore, abbia comunque una digestione eccellente.
A proposito di donne, perché ne ha scelte così tante come personaggi centrali dei suoi romanzi?
La risposta è estremamente semplice. Amo le donne e sono curioso. Amo le donne più dell’ovvia maniera mascolina di amarle. Ma se lei mi chiede perché, le dico che sono più bravo a descrivere che a definire. Non sono un sociologo o un ideologo. Non posso definire perché amo il deserto, il mare, o qualche volta l’inverno. Le amo, in maniera più forte della ovvia maniera edonistica in cui molti uomini pensano di amare le donne. Purtroppo, il mondo è pieno di uomini che amano il sesso e odiano le donne. Io amo entrambi. Molti, invece, amano le donne in maniera così fanatica da volerle cambiare completamente.
Ma il vero amore…
O, almeno, il mio tipo di amore. Quello consiste in un alto tasso di curiosità. Curiosità, e cioè l’urgenza di mettere me stesso sotto la  pelle di qualcun altro. E immaginare cosa potrei provare se fossi lei, se fossi lui, se fossi un gatto. Cosa significa vedere il mondo dal punto di vista di un gatto? E non si tratta di un atteggiamento maschile o femminile. È solo ed esclusivamente individuale. Non credo di poter più definire, in termini di mentalità, il mascolino dal femminile. Quando ero molto giovane, pensavo di saperlo. Ora non più. Non mi interessa più saperlo, e non ha importanza. Dovrei costruire un confine tra uomini e donne, tra mascolinità e femminilità? E perché mai? Per quale obiettivo? Sociologi, antropologi, gli scienziati sono sempre interessati ai fenomeni. Io sono invece curioso degli individui. Curiosità. E cioè – spero – l’opposto del fanatismo.
In che cosa aiuta mettersi nella pelle degli altri? A fare la pace?
Non ho la formula per la pace universale, altrimenti sarei Gesù Cristo. E anche in questo caso, non sono nemmeno convinto che la sua formula fosse quella ideale. Mettersi nella pelle di un altro aiuta entrambi, perché se si può immaginare il proprio nemico, questo potrebbe almeno contribuire a ridurre il conflitto. E comunque, immaginare il proprio vicino, il datore di lavoro, il proprio bambino,  renderebbe la vita interessante. Posso garantire che se una persona riuscisse a immaginare l’altro, si mettesse dentro la pelle di un’altra, diventerebbe anche un amante migliore. Ma immaginare costa fatica. E qualche volta rende colpevoli. Non è, insomma, sempre un giardino pieno di rose. Ogni volta che leggiamo Omero, la Bibbia, le fonti antiche conosciamo tutto della natura umana. Non c’è mai stato un paradiso in cui qualcuno è stato così terribilmente dolce con tutti.
Non è dunque un ottimista, lei,  sulla  natura dell’uomo?
Se la natura umana potesse cambiare, non avverrebbe prima di uno, due milioni di anni. E non attraverso una o due rivoluzioni. A meno che l’ingegneria genetica non inventi qualcosa. Ma io sono affascinato dalla natura dell’uomo anche quando mi spaventa. Per tutta la vita sono stato uno studente della natura umana, ma non ho una prescrizione per migliorarla. Lo vede dai miei libri, non idealizzo la natura umana. Scrivo con compassione, senza misantropia né odio della natura umana. Scrivo con compassione, ma non di persone meravigliose.  Scrivo spesso di persone che sono molto stupide, egoiste, di scarso spessore, non immaginative, limitate.
Per questo ama così tanto Cechov?
Sì,  il mio scrittore preferito è e resta Cechov. Non solo per la sua ironia, ma soprattutto perché esaminava come un medico, lui che era nella realtà un medico, i dettagli, i sintomi. E forniva una diagnosi. Anch’io cerco di descrivere, di osservare i dettagli, di fornire una diagnosi, come un medico. A differenza di un medico, però non posso fornire la cura. La diagnosi, però, è già un buon inizio. E, a differenza dell’entomologo, nel mio sguardo c’è sempre molta più pietà. Posso perdonare, insomma. Non tutto, ma abbastanza.
Cos’è quel po’ che non può perdonare?
La crudeltà condotta per il solo gusto dell’intrattenimento. E la stupidità. E il fanatismo. Il fanatismo posso comprenderlo, ma non perdonarlo. Non posso perdonare chi pensa che il fine – qualsiasi fine – possa giustificare tutti i mezzi. Non posso perdonare chi pensa agli altri come un materiale grezzo da piegare alle proprie fantasie.
Un suo vicino, il libanese Amin Maalouf, ha parlato nella sua ultima fatica letteraria, Origini, del suo rapporto colle proprie radici definendolo “un patronimico come patria”. Lei, invece, di se stesso come un uomo che è gravido dei suoi genitori e dei suoi antenati. Entrambi, però, avete sentito la necessità, qui in Medio Oriente, di definire il vostro passato…
Quasi tutti gli scrittori hanno a che fare con il passato. E quasi sempre con più di una generazione. In quasi ogni romanzo stiamo parlando con i morti. Come parliamo con loro, cosa dobbiamo dire loro. È lì che siamo differenti.  Nel mio caso, sono il figlio di ebrei europei che sono stati buttati fuori dall’Europa in una maniera molto brutale e da questo non si sono mai ripresi. Così come gli ebrei dall’Iraq o dalla Siria o dall’Egitto, tutti quelli che sono stati sbattuti fuori dal proprio paese. Non si sono mai ripresi. Questo paese, in un certo modo, è un campo profughi. Anche la Palestina è un campo profughi.
Lei cosa dice, ai suoi morti?
Che non sono più arrabbiato con loro, che li capisco e che soprattutto ora ho bisogno di presentare loro mia moglie, i miei figli e i miei nipoti, che non li hanno mai conosciuti. Presento loro questo paese, questa terra, che è diversa da com’era ai loro tempi o nella mia infanzia. Quando avevo sei o sette anni, tiravo sassi contro le pattuglie britanniche a Gerusalemme. Le prime parole che ho imparato in inglese sono state British go home. La prima intifada di questo paese. E quando vedo i bambini palestinesi tirare pietre penso alla mia infanzia, penso alle somiglianze ma penso anche alle differenze. Penso a loro  con ironia, con comprensione o con deja-vu. Sono già stato lì, insomma. Sono stato  nelle loro scarpe. Ma sottolineo anche le differenze: non ho mai voluto strappare l’Inghilterra agli inglesi e dire che gli inglesi dovessero scomparire dalla faccia della terra. Per questo, quando con l’immaginazione parla con un ragazzo, con una ragazza palestinese, o con i loro genitori, dico loro che se vogliono il loro paese, lo avranno e ne hanno tutto il diritto. Ma se vogliono un paese in modo che io non lo abbia, allora debbono combattermi.

sabato 15 dicembre 2018

Un ricordo di Antonio

Michele Nicoletti
15 dicembre 2018

Il 27 novembre scorso, nella nostra classe alla Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento, Antonio Megalizzi, assieme ad altri tre suoi colleghi e colleghe del corso, ha presentato il tema “Stato di eccezione”. Il corso era incentrato sul tema “Democratizzare la sicurezza: diritti umani, democrazia, Stato di diritto in un’età di incertezza” e per settimane abbiamo discusso di paura, angoscia, sicurezza, Stato liberale e Stato autoritario, terrorismo, tortura eccetera.

In una bellissima classe di studenti in cui gli studenti italiani si mescolano a quelli di Hong Kong e Montreal, abbiamo non solo letto frammenti di grandi classici ma discusso di convenzioni internazionali e del nostro presente. E così ci siamo interrogati su Boko Haram e Guantanamo e l’Isis intrecciandoli con Machiavelli e Hobbes, Schmitt e Arendt, Neumann e Foucault, nello sforzo di capire che cosa voglia dire “sicurezza” e come uno Stato democratico di diritto possa garantirla ai suoi cittadini. Così si sono intrecciate le storie di generazioni diverse attraversate dagli stessi problemi: la violenza, la paura, gli ideali, la Realpolitik, il diritto e la speranza. Si sono intrecciate la ricerca intellettuale e la passione civile. Vive come non mai.

In questo intreccio Antonio assieme a tante e tanti altri studenti era un protagonista costante, con il suo acume intellettuale, il fiuto politico e la profonda sensibilità civile. Quando abbiamo parlato di terrorismo, inevitabile per la mia generazione pensare alle Brigate Rosse e alla violenza omicida di chi a sangue freddo riusciva a sparare a professori inermi come Vittorio Bachelet sulle scale della sua università o Roberto Ruffilli, nostro professore a Bologna, sul pianerottolo della sua abitazione. E abbiamo ragionato sulla stessa assurda violenza del terrorismo contemporaneo che colpisce gli inermi, scelti a caso tra la folla. Non vi sono cosiddetti “ideali” che possano giustificare questo disperato cinismo.

Domenica scorsa Antonio mi aveva scritto per chiedermi un appuntamento per discutere del suo paper. Lo avevamo fissato la settimana prossima, perché questa settimana, si era scusato, non poteva, era via per lavoro. Una passione europea lo portava a Strasburgo, uno dei luoghi simbolo dell’Europa che cerca di superare la sua storia di violenza politica, la sede del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa tante volte evocati a lezione.

Ai mercatini di Natale di Strasburgo, Antonio è stato colpito da una violenza omicida che, di nuovo, vilmente, si è abbattuta sugli inermi. Nessuno di noi si rende conto di come – non in una discussione in classe, ma dentro la vita – questo gli sia potuto accadere. A lui così appassionato del dialogo, così curioso di capire, così critico nei confronti di una visione strumentale del potere.

A leggere i tanti, familiari e amici, che lo ricordano, si capisce quanto bene abbia dato a chi lo ha incontrato con il suo sorriso, la sua passione e generosità. Anche a noi ha dato moltissimo, nelle discussioni e nelle azioni. Grazie, Antonio.

lunedì 10 dicembre 2018

Leopoldo Elia. Il Commentatore della vita costituzionale


Stefano Ceccanti
Roma, 10 dicembre
1- Ripartire dalle chiavi di lettura di Paladin e Lanchester
Parlare di questo tema, pur brevemente, senza essere ripetitivi, è estremamente difficile perché si tratta di muoversi come nani sulle spalle di vari giganti, per un verso ovviamente Leopoldo Elia, ma per altro verso degli altri Autori che hanno scritto su questo, in particolare Livio Paladin nella presentazione agli Studi in onore, editi da Giuffré nel 1999, e dai vari testi di Fulco Lanchester, in particolare la sua relazione di apertura al convegno del 2014 su “La Sapienza del giovane Leopoldo Elia 1948-1962” .
Paladin, dopo aver colto come “caratteristica comune e pressoché costante” di Elia quella dei “collegamenti tra l’attività di studioso e l’azione dell’uomo politico”, proponeva un percorso interpretativo in cui dopo una fase iniziale, in cui “lo studioso ha avuto la prevalenza ma non l’esclusiva”, ne seguiva una successiva in cui “l’uomo pubblico e il politico direttamente coinvolto hanno gradualmente predominato” (p. XII). Anche così, però, negli “articoli giornalistici” si confermava comunque “l’intreccio fra la sua vastissima preparazione costituzionalistica di base e le sollecitazioni della vita politica quotidiana” (p. XIII).
Per Paladin la linea interpretativa è rimasta sostanzialmente la stessa: per un verso “recuperare le occasioni perdute dell’Assemblea costituente con la mutilazione dell’ordine del giorno Perassi” senza però affidare alle varie ipotesi di riforma “globali capacità rigenerative” (pp. XXX-XXXI).
Lanchester, invece, all’interno di questa obiettiva continuità, tenendo conto anche degli scritti del decennio successivo, tende maggiormente a sottolineare un certo scarto tra lo sguardo più positivo negli anni di inizio della transizione 1991-1993 e quelli successivi più preoccupati a causa della scomparsa del precedente sistema dei partiti e della confusa transizione ad uno nuovo con potenziali effetti di squilibrio del sistema stesso.
Eviterò comunque, perché ho già presentato una relazione nel convegno citato organizzato da Fulco Lanchester, di riparlare in questa sede degli interventi nella palestra di “Giurisprudenza Costituzionale” e mi concentrerò su un testo paradigmatico dell’inizio e poi, soprattutto, su due testi degli ultimi anni.

2- Il punto di partenza: Cronache Sociali e un testo paradigmatico che conferma la tesi Paladin
L’inizio è costituito dalla rivista dossettiana “Cronache Sociali”. Nel 1962 lo stesso Elia, insieme a Marcella Glisenti, cura per l’editore Luciano Landi (San Giovanni Valdarno-Roma) un’antologia di testi pubblicati dalla rivista tra il 1947 e il 1961. In quell’occasione inserisce tre delle proprie note: due sono di ricostruzione di eventi politici, una sorta di puntuale ricostruzione e decodificazione degli eventi politici e di governo (una sorta di “pastone” di alto profilo), mentre uno è un vero e proprio testo costituzionalistico per così dire ‘correttivo’ e rafforzativo del Presidente del Consiglio De Gasperi. Mentre quest’ultimo il 15 maggio 1949 per porre una decisa barriera a destra rispetto ai monarchici aveva distinto tra una valutazione politica ostile a eventuali mutamenti dell’articolo 139 della Costituzione ed una giuridica astrattamente più possibilista, m asolo direi come caso di scuola, Elia, sulla base della teoria della Costituzione materiale e dei principi supremi ad essa connessi, la escludeva anche sotto il profilo giuridico, sempre che si volesse restare “nel quadro della vigente Costituzione”, essendo appunto la forma repubblicana “nel nucleo della Costituzione materiale dello Stato italiano” (p. 416 del primo Tomo).
Siamo qui evidentemente in un testo paradigmatico che conferma la chiave di lettura di Paladin sulla chiara prevalenza dello studioso sul politico nella prima fase, anche se lo studioso non è asettico e le conseguenze politiche di quell’approccio sono piuttosto evidenti. Si tratta della linea del gruppo dossettiano, in questo caso a supporto e a rafforzamento di quella già intransigente di De Gasperi, a non accettare spostamenti a destra del quadro politico, contro le autorevolissime pulsioni in senso opposto, di cui ci ha sempre parlato Pietro Scoppola.

3- Gli ultimi anni e la verifica della tesi Lanchester
Dopo il testo di Paladin del 1999, per verificare la tesi Lanchester possiamo anzitutto, grazie ai contributi ripubblicati sul sito delle Costituzioni storiche dell’Università di Torino, rileggere i contributi successivi e individuare quelli più caratterizzanti.
Tra questi vi è senz’altro soprattutto il testo pubblicato su “Il Popolo” del 19 dicembre 2001 “Quel che Dossetti ci ha insegnato” in cui Elia spiega il senso dell’intervento di Dossetti del 1994 che coglieva in Berlusconi “una figura che rappresentava allora (e rappresenta oggi) l’esatto contrario di quel pluralismo che significa la nuova, effettiva separazione dei poteri nelle democrazie contemporanee”.
Vi è poi l’introduzione al Volume edito dal Mulino nel 2005 “La Costituzione aggredita. Forma di governo e devolution al tempo della destra” in cui sono particolarmente interessanti due notazioni apparentemente laterali, rispetto all’analisi critica puntuale, piuttosto nota, delle norme del progetto approvato dalle Camere e in attesa di essere sottoposto al referendum confermativo/oppositivo.
La prima, nella scia di Dossetti, è sempre relativa al caso Berlusconi e alla non contendibilità della sua leadership: “Se nel periodo 1994-2001 la stabilità dei governi non si è realizzata in termini fisiologici, è altrettanto vero che è mancato, specie nella XIV legislatura, qualsiasi controllo efficace sul Premier da parte dei ‘partiti personali’ affermatisi nell’area di centrodestra” (p. 10).
La seconda, nella comparazione con l’esperienza costituzionale semi-presidenziale francese, segnala la sua negatività rispetto a una possibile importazione “tenuto anche conto della minore reattività del contesto italiano sperimentata in altre circostanze storiche” (p. 17).
Risulta pertanto confermata anche la tesi Lanchester: è lo sfarinamento del soggetto partito a spingere Elia ad una maggiore cautela sulle riforme.

4- Una breve conclusione: né dogmatizzare né ripararsi dietro un’impossibile asetticità

Ovviamente come per ogni Autore a cui capita di compiere questo tragitto ben delineato da Paladin e da Lanchester, man mano che ci si allontana dal professore che commenta la politica e ci si avvicina al politico che utilizza le proprie competenze di professore, è evidente che cresca l’opinabilità dei giudizi storico-politici. E che quindi neanche i più motivati, compresi quelli di Elia, possano essere assolutizzati e dogmatizzati. Per questo è sempre bene non tentare rigide attualizzazioni.
In particolare non si può essere certi che tutti i giudizi formulati nel vivo della lotta politica rimangano inalterati in seguito e neppure che i pericoli per gli equilibri di sistema che possono sembrare gravi in una fase e che poi siano magari superati non si riaffermino in una fase successiva anche in forme diverse. Non è affatto detto, ad esempio, che il metodo, gradito a molti, di riforme puntuali anziché più organiche, praticato in questo periodo metta a priori al riparo da squilibri anche profondi.
Detto ciò, per rendere la complessità del tema affrontato, resta però una lezione permanente di Leopoldo Elia commentatore costituzionale: meglio correre i rischi segnalati che ripararsi dietro un’infeconda (anche perché impossibile) asetticità olimpica.

mercoledì 5 dicembre 2018

sicurezza è libertà

Anche ieri sera grande successo di pubblico alla presentazione del libro di Marco Minniti SICUREZZA È LIBERTÀ con l'autore, Emilio Del Bono, Caterina Gozzoli e Nunzia Vallini. Centopiazze Brescia non si ferma.

venerdì 23 novembre 2018

“Manine, delitti e manovre”

CRONACHE MARZIANE N. 12
23 novembre 2011
Carlo Calenda
L’UE non ha bocciato la manovra del Governo del cambiamento ma quella dei Governi Renzi e Gentiloni. La tesi sostenuta da Salvini e Di Maio è stata subito rilanciata da autorevoli commentatori, Bechis e Travaglio in primis.
Il Fatto Quotidiano ha annunciato una clamorosa inchiesta: la bocciatura chiamerebbe in causa anche Rumor, De Gasperi, Giolitti, Cavour, Anita Garibaldi e Tiziano Renzi. Alcune tracce condurrebbero a Giulio Cesare ma Travaglio sempre attento all’attendibilità delle fonti non si è sentito di pubblicare anche questa pista “romana”.
L'ala “complottista” del Movimento cinque stelle, quella che fa capo al padre di Di Battista, ha avanzato una tesi diversa: Renzi, Calenda, Gentiloni e Padoan si sono introdotti nottetempo a Palazzo Chigi e modificato i numeri della manovra. Renzi guidava l’incursione, Calenda stordiva le guardie, Padoan passava inosservato i controlli di sicurezza e Gentiloni faceva il palo, all’ultimo momento Renzi ha preteso che partecipasse anche Lotti con il compito di controllare Gentiloni. In quell’occasione, stando alle notizie rilanciate dal sacro Blog, i malviventi, oltre ad aggiungere uno 0,5% alla crescita e al deficit, hanno anche: 1) modificato il CV di Conte; 2) falsificato la dichiarazione patrimoniale di Savona; 3) compiuto il delitto perfetto su ILVA; 4) stipulato un contratto con penali su TAP; 5) modificato il decreto fiscale. Quest’ultimo colpo è stato messo a segno da Padoan, conosciuto negli ambienti criminali come Piercarlo mano nera.
Quello che le cronache pentastellate non riportano è il bizzarro incidente occorso durante l’incursione notturna. Il Presidente Conte svegliatosi di soprassalto a causa di un sogno, pare frequente, in cui veniva ripetutamente colpito da Rocco Casalino, sorprendeva i malviventi scambiandoli però come emissari della Casaleggio e Associati di recente incaricata di fornire anche i servizi di pulizia alla Presidenza del Consiglio.
Su questa oscura vicenda Andrea Scanzi sta preparando un atteso spettacolo teatrale dal titolo “la banda dei quattro".

domenica 21 ottobre 2018

Grazie Presidente


Incontro con il Presidente della Repubblica
On. Sergio Mattarella
Roma, 19 ottobre 2018

Carissimo Presidente,

è con grande emozione che Le rivolgo la parola per ringraziarLa a nome dell'Associazione Gervasio Pagani per l'opportunità che ci ha dato di poterLa incontrare.
Questo incontro chiude le iniziative che abbiamo promosso in occasione del XXX° anniversario della scomparsa di Gervasio, Emanuela, Francesca e Elisabetta nell'incredibile tragedia di quel lontano 13 luglio del 1987.
Sembra ieri. Quell’incidente ha tolto alla comunità di Coccaglio, a Brescia, all'Italia e agli amici una grande figura di leader, lasciando increduli e sgomenti tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo.

Gervasio era nato nel ‘50 a Coccaglio, primo di tre figli che ancora piccoli avevano perso il papà, tirati grandi e fatti studiare dalla madre. A costo di duri sacrifici si era laureato in lettere alla statale di Milano con una tesi su Miglioli e sulle lotte contadine nel cremonese.
Si era avvicinato alla politica giovanissimo, aveva approfondito e studiato i testi dei maggiori pensatori e le biografie dei principali maestri e testimoni del pensiero cattolico-democratico: da Mounier a Maritain, da Sturzo a De Gasperi a Dossetti, agli amatissimi don Mazzolari, don Milani, Bernanos e Padre Davide Turoldo.
Lo aveva affascinato la figura bresciana di Michele Capra, un partigiano dei Ribelli per amore, che non era uso portar vanto del suo impegno nella resistenza ma, con i gesti e i comportamenti intransigenti, praticava i valori attinti in quell'impulso generoso e impegnativo, come l'esperienza di fabbrica più tardi, a fianco di uomini di credo ideologico diverso. Con Michele Capra e Giovanni Landi, Gervasio diede un contributo decisivo a Brescia all'esperienza del gruppo della sinistra DC di Bodrato, con una forte impronta morotea.

Lo accomunava a Capra l'intransigenza e la coerenza tra la moralità pubblica e quella privata, tra il dire e il fare, tra l'essere e l'apparire; viveva la politica quasi come una religione e ne detestava il professionismo; c'era in lui ed in quella sua coerenza anche una dose di fierezza orgogliosa, Era convinto che la preparazione culturale, l'intelligenza e l'impegno politico alla fine dovessero trovare consenso e riconoscimento.
Per queste ragioni apprezzava le posizioni politiche che facevano di una ispirazione morale ed etica la base della loro motivazione; da qui il convinto apprezzamento della proposta berlingueriana dell' «austerità», incompresa da una società e da un mondo che andavano velocemente spostandosi verso i miti del consumismo e del modernismo e i riti dello scambio neo corporativo.

Gervasio non aveva grandi propensioni alla diplomazia: "la diplomazia, ci diceva, preferisco lasciarla ai cardinali di curia e di partito".
Ricordo il suo intervento al congresso nazionale della DC dell'80, quando prese la parola per richiamare il suo partito alla necessità del confronto con il Pci, e tra bordate di fischi, per nulla intimidito, affermò con tenacia le sue convinzioni.
Questo suo modo di essere, questa sua attenzione ai temi del mondo e delle ingiustizie, portò molti di noi ad amare la politica, a vivere l'impegno per gli altri, i più poveri e umili. Le sue analisi e le sue attenzioni alla centralità della persona umana lo portavano a coniugare l'impegno politico nazionale con particolare attenzione alle questioni nord-sud del mondo e ai temi della pace; temi per i quali nutriva un grande interesse e sui quali intratteneva relazioni e rapporti anche con personalità notevoli del nostro mondo politico, culturale ed ecclesiale.
Gervasio era convinto che la centralità del partito come strumento per la promozione umana fosse fondamentale per le classi popolari ma, al tempo stesso, aveva la consapevolezza che per svolgere al meglio la sua funzione doveva aprirsi al mondo esterno, ai giovani in particolare, ma anche al mondo della cultura e del sociale.
Queste sue doti lo videro protagonista, prima nell'appello dei cattolici democratici del no al referendum sull'abrogazione della legge sul divorzio, poi nell'esperienza della Lega Democratica di Pietro Scoppola e Achille Ardigò.
Brescia e in particolare Gervasio e il Circolo Michele Capra furono sostenitori convinti della “terza fase” morotea.
E' a Brescia infatti che la Lega Democratica, con Stefano Minelli, Luigi Bazoli, Leonardo Benevolo, Giovanni Landi e Gervasio, tenne quasi tutti i convegni nazionali ai quali parteciparono tanti personaggi autorevoli della cultura, della politica e del sociale: Romano Prodi, Alfredo Carlo Moro, Ermanno Gorrieri, Paolo Prodi, Paola Gaiotti, Nino Andreatta, Luigi Pedrazzi, Paolo Giuntella, Roberto Ruffilli, Leoluca Orlando, Pierluigi Castagnetti. Ricordiamo con nostalgia e commozione che anche Lei Signor Presidente non ha mancato di partecipare ai nostri appuntamenti.
Cattolici che si sentivano figli della cultura conciliare, giudicavano un valore positivo la moderna laicità dello stato ed erano convinti sostenitori della lotta dei lavoratori e delle classi meno abbienti per una uguaglianza dei diritti politici e sociali. Nel 1978 nacque la rivista Appunti di cultura e di politica che Pietro Scoppola presentò come la necessità di non disperdere la grande eredità di Aldo Moro, appena assassinato, e della terza fase da lui proposta.
La rivista, dopo l'avvio a Modena, venne trasferita a Brescia e per lunghi anni fu uno strumento prezioso di elaborazione e di confronto politico culturale.

La tragedia di quel lontano 13 luglio ci ha portato via Gervasio con tutta la sua splendida famiglia. Lo sconforto e il dolore sono stati grandi come grande fu la tentazione fra tanti di noi di mollare tutto. Solo il dovere di restituire il tanto che lui ci aveva dato, nella sua breve esistenza, ci richiamò alla responsabilità e al dovere di tener vivo il suo insegnamento. Per queste ragioni decidemmo di dar vita ad una associazione a lui intitolata lo stesso anno della sua scomparsa.
Da quella data, l’Associazione ha organizzato nell'arco di questi trent'anni tante iniziative di carattere culturale e politico, corsi di formazione alla politica per i giovani, incontri di testimonianza con missionari impegnati in Brasile, in Medio Oriente e in Africa.
Nonostante le difficoltà, siamo riusciti a tener vivo il ricordo di questo grande amico e maestro; alle nostre iniziative le comunità di Coccaglio e bresciana hanno sempre risposto positivamente.

Quante volte ci siamo chiesti, senza darci una risposta, cosa avrebbe fatto e che suggerimenti ci avrebbe dato Gervasio riguardo alle grandi trasformazioni della società e ai profondi mutamenti politici di questi tren’anni. Spesso abbiamo avuto la sensazione che un ciclo fosse definitivamente finito, che i cattolici avessero esaurito il proprio ruolo nella vicenda politica italiana. Sono certamente venute meno quelle agenzie formative che, a partire dalle parrocchie fino all'associazionismo, hanno rappresentato una fucina preziosa di classe dirigente popolare. Oggi, la mancanza di quel terreno fecondo rende difficile il percorso all'impegno politico di tante generosità giovanili diffuse e presenti nella società civile. La politica pare lontana dalle vicende quotidiane; l'imbarbarimento del dibattito politico di questi ultimi anni, una rabbia diffusa e palpabile spesso ingiustificabile e l'uso sguaiato delle nuove tecnologie rendono sempre più esile e fragile il concetto di comunità tanto caro a Gervasio.

Non mancano i maestri. Papa Francesco è sicuramente un dono della Provvidenza per i cristiani e per tutti gli uomini di buona volontà, ma spesso i suoi richiami e i suoi appelli vengono lasciati cadere nel vuoto, per il forte vento di conservazione e di destra che si manifesta a livello globale e un po' perché anche noi siamo spesso condizionati dalle nostre abitudini e dalle nostre pigrizie.
Infine signor Presidente, gli amici dell'Associazione, sentono il dovere di esprimerle un sincero ringraziamento per come sta svolgendo il Suo difficile compito in un tempo a dir poco complicato.
Il Suo comportamento di coraggioso e grande equilibrio ha consentito di far fronte a un passaggio delicatissimo per il nostro Paese dopo il sorprendente risultato delle elezioni politiche dello scorso 4 marzo. Ella infatti, tra mille difficoltà, ha favorito l'unica soluzione possibile ad evitare un ritorno traumatico alle urne.
La situazione che viviamo comunque non è delle migliori soprattutto per i rischi che la debole crescita economica comporta, ma, di più, per il continuo conflitto annunciato e praticato nei confronti dell'Unione Europea, anch'essa attraversata dai populismi aggressivi che mettono a rischio settant’anni di democrazia e di convivenza pacifica. Restiamo convinti che anche in questo caso Lei saprà far fronte con decisione ai delicati passaggi futuri, per impedire che l'Italia, Paese fondatore e ispiratore dell'Unione Europea, si renda protagonista di strappi insanabili per una serena convivenza nel vecchio continente, conquistata al prezzo di inenarrabili tragedie e di tanti sacrifici.
Riccardo Imberti
Vice Presidente

mercoledì 3 ottobre 2018

Giovani, svegliatevi: Lega e Cinque Stelle vi hanno riempito di debiti per annaffiare di soldi gli anziani


Chissenefrega del deficit, dei mercati, dello spread. Se c’erano 40 miliardi, si potevano spendere molto meglio di così, per far ripartire l’Italia. Invece, soldi ai pensionati, ai professionisti, a chi non ha pagato le tasse. Che sia la volta buona che i giovani italiani si sveglino un po’?
di Francesco Cancellato

No, non ce ne frega nulla (o quasi) del deficit al 2,4% del Pil. Non ce ne frega nulla (o quasi) nemmeno delle reazioni dei mercati, dello spread, del più che probabile declassamento del debito pubblico italiano. Non ce ne frega nulla (o quasi) perché la cosa grave di questa nota di aggiornamento al documento di economia e finanza è non sono i numeretti che ci sono fuori, ma quel che c’è dentro. Perché se ci avessero detto che avrebbero speso 40 miliardi di euro per rifare tutte le scuole d’Italia, per finanziare la ricerca pubblica e il trasferimento tecnologico, per sistemare strade e ponti, per attivare un processo di riqualificazione energetica di tutti gli edifici che hanno più di trent’anni, per rendere gratuiti gli asili nido, per aumentare i fondi e gli sgravi fiscali a disposizione delle famiglie che decidono di fare figli, o anche solo per qualcuna di queste cose, non avremmo avuto nulla da dire.
Che si sforassero, i parametri. Che reagissero, i mercati. Che andasse dove vuole, lo spread. Avremmo avuto un Paese più moderno e più equo, proiettato al futuro, desideroso di colmare i propri divari col resto d’Europa, intenzionato a investire nella cultura dei suoi cittadini, a trattenere i suoi giovani, a riqualificare la propria economia, a prendersi cura della sua bellezza e della sicurezza dei suoi cittadini, a includere le donne nel mercato del lavoro, a riempire le sue culle vuote. 40 miliardi di investimenti in un Italia che non investe più su se stessa da dieci anni almeno
E invece no. Abbiamo sfidato l’Unione Europea, i mercati, lo spread per tenere l’Iva lì dov’è, per far andare 400mila persone in pensione subito attraverso un principio, quota 100, che durerà lo spazio di una legislatura prima di esploderci in mano, per dar loro un po’ di soldi in più con la cosiddetta pensione di cittadinanza, per abbassare le tasse ai professionisti e per fare uno sconto a chi, negli scorsi anni, non aveva pagato le tasse, lasciando un paio di miliardi di briciole alla sistemazione dei centri per l’impiego, cosa che in Germania ne costò 11, a suo tempo. In ogni caso, conti della serva alla mano, 38 miliardi a 2, di cui 27 a debito, messi in conto alle generazioni future. Saremo incontentabili benaltristi, ma lo vediamo solo noi che è tutto sbagliato? Che ci siamo giocati l’occasione di cambiare il Paese, per renderlo ancora più uguale a com’è e non dovrebbe essere: un posto abitato da anziani, a misura di anziani.
Con tutta la benevolenza possibile, raramente abbiamo visto una scelta di politica economica tanto miope e autolesionista, figlia unicamente della necessità di ripagare il proprio bacino elettorale, perlomeno quello che con più frequenza e fedeltà si reca alle urne. E sinceramente un po’ ci speriamo che questo gigantesco spreco finisca per svegliare quel corpo sociale morto che sono i giovani italiani, che hanno subito la loro ennesima presa in giro, per di più da due partiti che avevano votato in massa. E vorremmo che qualcuno chiedesse a Salvini dov’è la grande emergenza delle culle vuote, e a Di Maio dove sono gli asili nido gratis, e a entrambi dove sia la scuola e dove la ricerca, che in quattro mesi di governo sono state a fatica nominate. E vorremmo che le opposizioni, già che ci sono, prendessero il coraggio a quattro mani per dare battaglia senza quartiere a questo disastro. Lasciando perdere il deficit, i mercati e lo spread e cominciando a occuparsi di politica, di politiche. Sarebbe già qualcosa, in questa notte buia come la pece.

venerdì 7 settembre 2018

quarantanovemilioni


vai Giorgio!!!


L'Adige
7 sett 2018
È Giorgio Tonini il candidato presidente della Provincia della nuova Alleanza democratica, popolare e civica per l'autonomia che unisce Pd, Upt, la nuova lista Futura2018 di Paolo Ghezzi, il Psi e i Civici di Carlo Daldoss, sempre che quest'ultimo confermi la decisione di essere ancora della partita.
Dopo lo stallo dell'altra notte, che si è protratto fino alle 3 del mattino, nel muro contro muro tra i sostenitori (Mdp, Verdi, autoconvocati e parte del Pd) del giornalista Paolo Ghezzi e l'Upt - con il capogruppo Gianpiero Passamani in testa - schierata per Carlo Daldoss, ieri il nome dell'ex senatore del Pd, che era stato messo sul tavolo dai democratici nei giorni scorsi, come terza possibilità se in grado di unire la coalizione, è stato in effetti l'unico capace di sbloccare l'impasse e raccogliere le maggiori convergenze .
Già in mattinata la candidatura di Carlo Daldoss si era molto indebolita, dopo la sconfessione dell'ex assessore da parte dei principali sindaci civici, Francesco Valduga e Roberto Oss Emer, che con un comunicato ne hanno preso le distanze, ridimensionando dunque il peso di Daldoss come leader di un'area civica potenzialmente consistente con cui dare vita a quella «grande coalizione» inseguita per mesi.
Oltre tutto, ieri mattina, quando gli esponenti dei partiti dell'Alleanza si sono ritrovati per riprendere il confronto, alla presenza dei nomi proposti come candidato presidente, Carlo Daldoss non si è fatto vedere, ancora sconvolto dalla sconfessione ricevuta da parte dei Civici della sua decisione di sedersi al tavolo con i partiti del centrosinistra, oltre tutto nella sede del Pd. E non ha mandato neppure un suo rappresentante, come aveva fatto il giorno prima con la sindaca di Predazzo, Maria Bosin. Questo certo non l'ha favorito, mentre Paolo Ghezzi e Giorgio Tonini erano presenti al confronto, anche se in una lunga telefonata con il segretario del Pd, Giuliano Muzio, Daldoss ha confermato di non rinnegare nulla di quanto detto il giorno prima e dunque di mantenere la sua proposta di unire le forze.
L'Upt ha comunque mantenuto la sua proposta di Daldoss come candidato presidente e dunque si è ripresa la discussione interrotta la sera prima. Anche se il Pd aveva chiesto all'Upt di proporre eventualmente anche un altro nome rispetto a Daldoss gradito ai civici per poter sostenere un candidato presidente centrista. Ma l'Upt ha preferito insistere su Daldoss.
Dunque, per cercare di uscire dal cul de sac di una spaccatura sulla scelta secca tra Ghezzi e Daldoss, con il Pd nel mezzo chiamato ad essere decisivo, i democratici hanno deciso di accogliere la proposta del portavoce dell'Upt, Vittorio Fravezzi, di raccogliere da tutti i presenti l'indicazione del candidato preferito ma anche di una seconda opzione, secondo il criterio del «second best». Da questo giro di tavolo è emerso un Upt compatto (Passamani, Fravezzi e Caumo) su Daldoss come prima scelta e poi Tonini come seconda opzione; il Pd che ha indicato Ghezzi (per Borgonovo e Manica come prima scelta) e Tonini (primo per Muzio); I socialisti Pietracci e Degasperi per Daldoss e Tonini; mentre i sostenitori di Ghezzi (Boato, Coppola, Lorandi) non hanno espresso la seconda preferenza, tranne Renzo De Stefani che ha indicato Tonini, proprio per evitare che il nome dell'ex senatore Pd emergesse come di gran lunga il più votato, visto che Verdi e Mdp non avrebbero certo indicato Daldoss. Mentre Ghezzi raccoglieva consensi solo tra ghezziani e parte del Pd.
In sostanza, con questo sistema è emerso comunque chiaramente che Daldoss era fuori gioco, in quanto sostenuto solo da Upt e Psi, mentre l'unico nome che ricorreva come gradito sia a Pd che Upt era Tonini. Quindi è stato poi naturale convergere su questo nome, anche se i sostenitori di Ghezzi e quelli di Daldoss l'hanno fatto a malincuore.
Ghezzi, pur dichiarando di accettare qualunque risultato perché con questo spirito si era messo a disposizione, ha polemizzato alla fine su questo meccanismo, che a suo dire era stato scelto proprio perché già Pd e Upt ne avevano calcolato l'esito. Sta di fatto che si è trattato dell'unico modo per riuscire a tenere insieme una coalizione che solo pochi giorni fa sembrava ormai implosa e frantumata.

giovedì 9 agosto 2018

acqua calda

I giornali riportano che ieri Conte ha pagato di tasca sua i tramezzini ai giornalisti. Chiamparino è da almeno 4 anni che paga tramezzini, caffè ed acqua tutti i giorni a tutti gli ospiti e non solo. Mi devo adeguare a questi dibattito , il governo del “cambiamento” piace al popolo e così sia.
P.S. Chiamparino viaggia senza scorta e quasi sempre arriva in ufficio viaggiando in bus.Notizia per i grillini torinesi, quelli che urlavano onesta, onesta, onesta...

martedì 24 luglio 2018

IL DECRETO IMPROVVISAZIONE


Intervista a Piero Ichino
“Onestà” non è soltanto non rubare, ma anche non usare il potere legislativo a soli fini di propaganda, non produrre leggi che sono fatte solo per poter lanciare qualche slogan, come quello ridicolo della “Waterloo del precariato”
Il decreto Dignità «è frutto di una totale improvvisazione», dovuta anche alle divisioni interne al Movimento5Stelle sulle politiche del lavoro. «Vi sono più anime, alcune anche contrarie per esempio al ripristino dell’articolo 18», è l’analisi di Pietro Ichino, giuslavorista, considerato il padre della riforma del lavoro del 2015, senatore del Pd nella precedente legislatura. Divisioni nel M5s che in futuro potrebbero evolvere e dar luogo anche a una «convergenza con il Pd
Domanda: Professor Ichino, partiamo da un dato di cronaca: lo scontro in atto tra il governo Conte e il presidente dell’Inps Tito Boeri, in merito alle stime sulla perdita di posti di lavoro dopo il decreto Dignità. Stime realistiche o no?Risposta: Stime molto diplomatiche: l’Inps ha vistosamente corretto la perdita di posti al ribasso, proprio per evitare di poter essere accusato di faziosità antigovernativa.
Però Salvini ha chiesto le dimissioni di Boeri e Di Maio ha parlato di una manina che ha inserito la stima sugli 8mila posti nella relazione tecnica, salvo poi scoprire che la stima era disponibile da giorni prima che fosse resa pubblica. Che cosa sta succedendo?R. Succede che il “governo del cambiamento” sta rispolverando una delle idee più vecchie del dibattito sulle politiche del lavoro, un’idea che risale addirittura agli anni ’70 e che credevamo archiviata definitivamente.
Quale?R. Quella secondo cui non soltanto la retribuzione, ma tutto il resto della disciplina dei rapporti di lavoro sarebbe una “variabile indipendente”. L’idea che si possano aumentare liberamente non soltanto gli standard salariali, ma anche i costi derivanti dalle rigidità della regolazione giuridica, senza che questo influisca sui livelli occupazionali. In altre parole, l’idea dell’onnipotenza del diritto del lavoro.
D. Invece?R. C’è un margine entro il quale gli standard inderogabili correggono delle distorsioni del mercato senza effetti depressivi sui livelli occupazionali. Si può anche decidere di andare oltre quel margine, ritenendo che ci sia un guadagno in qualità del lavoro che compensa la perdita di quantità; ma in questo caso, appunto, bisogna saper fare bene i conti, saper guardare la realtà in faccia. E non prendersela con un’agenzia indipendente, qual è l’Inps o la Ragioneria generale, che sta svolgendo con molto scrupolo e misura il proprio compito tecnico.
D. Secondo lei, il decreto ha almeno il potere di accrescere la tutela dei diritti dei lavoratori?
R. Certo, il decreto stabilisce vincoli più stringenti. La questione è: a chi giova questo giro di vite e quanto? Quali costi comporta, e a carico di chi sono questi costi? Proprio per rispondere a questi interrogativi è indispensabile un dialogo stretto fra il legislatore e gli esperti delle scienze sociali, in particolare dell’economia e della statistica. Solo chi è convinto che i vincoli, le tutele, siano una variabile indipendente, può dileggiare il responso di questi esperti.
D. Che novità ci sono sul fronte della riforma dei centri per l’impiego? Era uno dei punti dell’accordo di governo.R. Già, era un aspetto molto positivo di quell’accordo, e metteva opportunamente il dito nella piaga di una grave inadempienza dei governi Renzi e Gentiloni: quella sul piano dell’implementazione dell’assegno di ricollocazione. Il capitolo 14 dell’accordo M5S-Lega, in materia di politiche del lavoro, conteneva soltanto due cose, molto apprezzabili, anche se espresse in forma forse troppo generica: un forte investimento sui servizi per l’impiego e la reintroduzione dei buoni-lavoro per le imprese. Senonché, a meno di due mesi dalla firma di quel “contratto”, viene emanato un decreto nel quale di queste due cose non c’è traccia, mentre ce ne sono tutt’altre, frutto evidentemente di una totale improvvisazione.
D. Lei vuol dire che il M5s non ha una linea chiara in quanto a politica del lavoro?R. Sì, in realtà nel M5S convivono orientamenti molto diversi tra loro in materia.
D. Analizziamo l’arcipelago grillino sul fronte lavoro?R. C’è un’ala che riproduce le posizioni della vecchia sinistra, di cui il capo fila è il professor Tridico e di cui fanno parte  per esempio i senatori Puglia e Paglini; ma c’è anche l’ala più vicina al tessuto produttivo dell’Italia del Centro-Nord, che è molto critica nei confronti del vecchio sistema di protezione del lavoro. Mi riferisco per esempio alle posizioni dell’onorevole Lombardi, nettamente contraria al ripristino dell’articolo 18. Poi c’è la posizione di Nunzia Catalfo, ora presidente della commissione lavoro del senato, che considero una delle migliori teste pensanti del Movimento in questa materia.
D. Avete lavorato insieme al Senato nella passata legislatura, giusto?R. Sì, in Commissione Lavoro e ho sempre trovato in lei orecchie attente alle ragioni altrui e forse anche una condivisione, almeno al livello degli obiettivi generali, della riforma del 2015.
D. Con questo Movimento lei vede delle possibili convergenze con il Pd?R. Le vedo a una condizione: cioè che il M5S accetti preliminarmente in modo chiaro l’impegno a proseguire il percorso di integrazione dell’Italia nella nuova Unione Europea.
D. Come si spiega questo attivismo del governo sul fronte del lavoro?
R. Il ministro Di Maio deve mostrare che non è soltanto Salvini a essere iperattivo. Il problema è che l’attivismo senza un progetto serio alle spalle, senza una vera strategia di politica del lavoro, serve soltanto alla propaganda. “Onestà” non è soltanto non rubare, ma anche non usare il potere legislativo a soli fini di propaganda, non produrre leggi che sono fatte solo per poter lanciare qualche slogan, come quello ridicolo della “Waterloo del precariato”.
D. Quanto è di “sinistra” questo provvedimento?
R. Se per “sinistra” si intende la vecchia sinistra che è la principale responsabile di un sistema di protezione del lavoro fallimentare, sì, questo provvedimento è “di sinistra”. Ma io preferisco la sinistra che ha prodotto il “pacchetto Treu” nel 1997 e la riforma del 2015. E considero del tutto in linea con queste due riforme anche la legge Biagi del 2003.
D. Del decreto-dignità salverebbe qualcosa?
R. Salverei l’aumento del differenziale contributivo tra contratti a termine e contratto stabili, se fosse applicato solo ai contratti futuri e se fosse perseguito interamente con una riduzione del cuneo previdenziale sui contratti stabili.
D. Un punto di tensione tra M5S e Lega si registra sulla reintroduzione dei voucher. Che ne pensa?
R. Su questo punto ha ragione la Lega: i buoni-lavoro, ben regolati come lo erano nella loro ultima versione, sono una ottima cosa ed è un grosso peccato essercene privati.
D. Una manutenzione del Jobs act era stata auspicata sul finire della passata legislatura anche dal Pd. Quali sarebbero i punti di intervento necessari?
R. Soprattutto l’implementazione della parte della riforma relativa ai servizi per l’impiego: su questo punto il bilancio dei governi Renzi e Gentiloni è, colpevolmente, molto negativo. E tornare a estendere il campo di applicazione della riforma anche al settore pubblico.
D. Da ex parlamentare del Pd, come giudica l’opposizione che in questo momento sta facendo il partito guidato da Maurizio Martina?R. Mi piacerebbe un’opposizione più decisa nella difesa dell’interesse delle nuove generazioni a una drastica riduzione del nostro debito pubblico. Un’opposizione che sapesse mettere con maggiore determinazione al centro del proprio discorso il processo di integrazione dell’Italia nella nuova Unione Europea, dunque la necessità di proseguire con decisione sulla strada che abbiamo imboccato nel 2011. Un’opposizione che mostrasse qualche senso di colpa non per quello che ha fatto in quella direzione negli anni passati, quando era maggioranza, ma per averlo fatto troppo poco e male.