giovedì 9 novembre 2017

Prospettive e attese elettorali


Guido Formigoni
7 novembre 2017 
dal blog C3dem
Avendo ora anche una nuova legge elettorale, approvata tra le forzature e le polemiche, ci avviciniamo ulteriormente a una lunga campagna elettorale per le prossime elezioni di primavera. Difficile ancora dire come si configurerà precisamente il confronto nel paese, ma alcuni elementi appaiono più chiari.
Sulla nuova legge elettorale non conviene spendere troppe parole. Personalmente, ho sempre pensato che si attribuisse troppo peso alle tecnicalità di tali leggi, fino agli ambienti che immaginavano di poter cambiare la politica, forzandola in schemi che si sono sempre rivelati troppo rigidi. La politica – come hanno mostrato le elezioni del 2013 – è sempre eccedente ogni schema e in effetti una legge elettorale che era stata concepita per favorire il bipolarismo ha visto esplodere una terza forza come i grillini. Di fatto, comunque, l’attuale legge è concepita come un misto di prevalente quota proporzionale su liste di partito (per due terzi) e di maggioritario uninominale (un terzo dei parlamentari). Lo sbarramento è al 10% per le coalizioni e al 3% per i partiti (anche se i voti di partiti coalizzati che non raggiungono il 3% ma superano l’1% andranno recuperati dai partiti maggiori, il che favorirà anche un proliferare di liste e listine). Le ipotetiche coalizioni sono per certi versi rese più rigide dall’impossibilità di votare disgiuntamente sulle due quote. Oltre ai singoli candidati dell’uninominale, dovrebbero essere “visibili” anche i candidati dei listini di partito collegati (corti perché al massimo di 6 nomi, ma “bloccati”, confermando che i vertici dei partiti tutto pensano, meno di perdere il potere di selezionare i candidati). La legge ha evitato comunque i peggiori elementi di incostituzionalità trovati dalla Corte nelle ultime versioni della incredibile italiana vicenda (“porcellum” e “italicum”), e ora che Mattarella l’ha promulgata è probabilmente al riparo da sorprese.
Come si orienterà quindi lo scontro elettorale, sulla base di queste premesse? Il tripolarismo tendenziale degli ultimi anni non sarà certo smentito rapidamente. Gli attuali sondaggi danno il Pd e il M5S più o meno alla pari poco sopra il 25%, e l’asse (tutto da verificare) Lega-Fi non molto lontano (anzi superiore a queste cifre, se si aggiunge il partito di destra della Meloni). Tutti gli esperti sembrano convenire sul fatto che, sulla base delle prime proiezioni, sarà pressoché impossibile che si formi una maggioranza solida in parlamento sulla base di coalizioni o accordi pre-elettorali (quindi valutabili dai cittadini in modo esplicito). Del resto, abbiamo ormai imparato che le “boutade” su una legge che permetta di avere un governo sicuro alla sera delle elezioni sono irricevibili, a meno di passare esplicitamente a un modello di governo presidenziale, ipotesi che molti hanno vellicato negli ultimi decenni, ma pochi sono disposti a sostenere esplicitamente e direttamente (considerandone i sottoprodotti negativi). Quindi il problema sarà triplice: vedere se e come si formeranno gli accordi di coalizione, valutare i risultati (che i sondaggi difficilmente prevedono correttamente, in tempi di grande volatilità e nel dubbio sulla dimensione dell’astensionismo) e alla fine capire come le singole forze torneranno a giostrare in parlamento.
I più penalizzati sembrerebbero i 5 stelle, che in effetti sono stati i maggiori oppositori della legge, a causa della loro ribadita volontà di evitare accordi pre-elettorali. Grillo ha però la possibilità di competere anche senza coalizioni in molti collegi uninominali, soprattutto del centro-sud. Difficile immaginare però che da solo il movimento si avvicini alla soglia di poter avere un primato nel numero dei parlamentari. Al di là del fatto che le altre forze politiche e soprattutto quelle della maggioranza di governo sono ancora in tempo a suicidarsi con qualche mossa che dia fiato alla protesta grillina (cosa su cui non metterei la mano sul fuoco, data la pervicace sottovalutazione del problema del malessere del paese, da parte di chi sta nei palazzi e gioca ogni giorno con il politichese).
Chi potrebbe avvantaggiarsi di più è proprio la destra, nonostante le condizioni tutt’altro che floride delle sue diverse componenti. Infatti, Forza Italia è ai minimi storici, con un Berlusconi ai (o anche oltre i) propri limiti anagrafici, che solo le pecche degli avversari gli permettono di non considerare (oltre che per ora incandidabile e segnato dal fallimento storico del 2011). La Lega invece è in crescita, ma l’operazione Salvini di sfondare fuori dal Nord su temi da semplice destra sovranista-populista è tutt’altro che consolidata, anche perché ha la vicinanza/competizione dei Fratelli d’Italia della Meloni, che a spararle grosse non esita certamente. Il punto di vantaggio di queste reciproche debolezze è la disinvoltura con cui queste forze stanno mostrando di superare le loro divergenze vere o presunte (nazione-localismo; Europa-antieuropa; responsabilità-populismo): l’elettorato di destra è anche presumibilmente piuttosto disponibile a seguirli su un’ipotesi di coalizione, nonostante tutti i loro equilibrismi. Se questo incontro non così ovvio si realizzerà, vorrebbe soprattutto dire che il risultato in gran parte dei collegi del Nord sarebbe già orientato e che quindi la partita vera si giocherebbe sui rapporti di forza nella divisione previa di questi collegi (soprattutto tra Salvini e Berlusconi). Ciò particolarmente in vista del fatto che le coalizioni non sono poi affatto condannate a giocare il medesimo ruolo in parlamento dopo le elezioni, complice proprio la probabilissima mancanza di una vittoria chiara.
In questo senso, non si capisce molto la linea recente di Renzi, tutta tesa ad ammiccare a un populismo soft o anche meno soft (Banca d’Italia, vitalizi, migrazioni), nell’illusione di togliere spazio al M5S e senza mostrare di prendere sul serio il pericolo di destra. A meno che non ci sia già – come ha ipotizzato qualcuno e come però si stenta ancora a credere possibile – una sostanziale rassegnazione a dover fare un futuro governo con una parte della destra vincente.  Comunque, la situazione che a noi interessa di più, quella del centro-sinistra, non è semplicissima. La scelta di una legge elettorale di questo tipo, oltre ad alcuni altri segnali piuttosto ambigui degli ultimi tempi, sembrerebbe far pensare alla raggiunta consapevolezza che il Pd da solo non vada da nessuna parte, in un turno elettorale così complicato. Ma naturalmente non basta dirlo per costruire una coalizione sostenibile e presentabile: soprattutto dopo mesi e anni di segnali forzatamente contrastanti. Che hanno prodotto una scissione e un allontanamento progressivo delle posizioni tra i vari soggetti che stanno nell’area di centro-sinistra. Ricucire in pochi mesi non sarà facile. Ma d’altronde una coalizione serve proprio per tenere assieme su alcune scelte comuni una pluralità di soggetti che siano anche competitivi tra loro, per attrarre elettorato che altrimenti sarebbe ricacciato nell’astensionismo. Quindi occorre provare a mettere in piedi esattamente qualcosa di questo tipo. Non un Pd attorniato da qualche cespuglio: questo sarebbe un prodotto immangiabile.
Occorrerebbe invece un centro-sinistra largo e plurale, di matrice ulivista, l’unica che abbia permesso in questi anni di battere la destra. Non è detto che tutta la sinistra debba essere coinvolta (qualche soggetto del tutto alieno da una cultura di governo esiste, ma non è certo maggioritario a sinistra del Pd). Come non è detto che non si debba aggiungere anche una componente di centro, purché presentabile. Naturalmente compresa la necessità di rimettere in gioco i rispettivi ruoli e le rispettive cariche attese. Su questo si misurerà la qualità della leadership di tutti i soggetti in campo (e di quelli ancora… virtuali).
Ma il punto vero mi sembra ancora un altro. E cioè se al di là del politichese, degli equilibri e dei giochi di professionismo politico, si raggiungerà un coraggioso accordo che mostri di ridiscutere a fondo le politiche di questi anni, e non intendo solo del governo Renzi, ma di tutto il ciclo del centro-sinistra post-’94. Senza iniziare il trito discorso per cui “nessuno deve mettere veti”, ma anche senza demonizzazioni sospette di tutto passato (del tipo: “avete fatto solo cose di destra”). Occorrerà finalmente dire che si intende correggere in modo significativo il ciclo storico politico-economico della globalizzazione, che ha avuto anche i suoi meriti, ma nei nostri paesi si è tradotto in una de-valorizzazione sostanziale del lavoro a beneficio del capitale, soprattutto finanziario. Partendo dall’individuazione di due o tre messaggi forti che raggiungano la testa e anche il cuore del paese, nitidamente alternativi al discorso della destra fatto solo di egoismi individualistici, additando i capri espiatori del malessere diffuso. E anche a quello grillino che si qualifica solo sulla negazione della casta (come se il paese nel complesso fosse migliore…). Un minimo di progetto, basterebbe un minimo. Costruito attorno alle cruciali questioni dell’identità e dell’incontro con l’altro, dell’Europa e del ruolo europeo nel mondo, del lavoro da rivalorizzare e di quello da creare ex novo con soldi di tutti, della cultura e dei beni immateriali come perno di qualsiasi rinascita italiana. Su questo aspetto anche i cattolici democratici, sulla scia dell’esigente messaggio di papa Francesco, avrebbero molte cose importanti da dire, naturalmente assumendosi la responsabilità della loro trascrizione nella responsabilità politica. Chissà se l’impresa sarà possibile?

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