lunedì 20 febbraio 2017

Renzi al congresso coperto dal “padre” Veltroni


Emilia Patta
Il Sole 24 Ore
Pier Luigi Bersani esce dalla sala convegni dell'Hotel Parco dei Principi di Roma dove è in corso l'attesa assemblea del Pd per ripetere le sue richieste in collegamento tv con Lucia Annunziata («congresso vero, che parta a giugno e finisca nei tempi normali a dicembre del 2018, e sostegno pieno al governo Gentiloni fino alla scadenza naturale della legislatura nel febbraio del 2018»). Il congresso intanto, con le dimissioni formali di Mattei Renzi, è già partito. Per concludersi verosimilmente entro aprile con l'elezione del nuovo segretario tramite primarie aperte agli elettori. Prima che Bersani decidesse di dire la sua in tv, davanti ai delegati del “parlamento” del Pd avevano già preso la parola contro ogni ipotesi scissionistica tutti gli ex segretari del partito. Dario Franceschini, che pure nelle ultime ore si è scontrato duramente con Renzi nel tentativo, fallito, di convincerlo a rimandare il congresso come chiesto dalla minoranza per tenere unito il partito, e che ora si schiera comunque con il segretario addossando a chi esce, e non a chi guida il partito, la responsabilità di una scissione «incomprensibile». Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds in quel congresso di dieci anni fa che decise lo scioglimento del partito erede del Pci nel neonato Pd assieme ai cattolici della Margherita. E soprattutto Walter Veltroni, che in un momento difficile per il Pd scende di nuovo in campo e si schiera senza se e senza ma a fianco di Renzi, riconoscendolo di fatto come figlio politico. Proprio Veltroni, che nel 2008 fece il passo indietro rinunciando a indire un congresso anticipato per chiarire il dissidio politico con Massimo D'Alema (e Bersani) per il timore che il neonato Pd potesse spaccarsi in partenza, e che ora ricorda che il congresso è lo strumento principe del confronto democratico in un periodo storico in cui fuori dal Pd ci sono «i partiti azienda e i partiti personali».
Una scelta che ha fatto molto discutere, quella della rinuncia di Veltroni di allora, e che comunque sta a ricordare che la storia presenta sempre il suo conto. Con un discorso molto alto, il fondatore del Pd ricorda non a caso il momento clou delle divisioni a sinistra degli ultimi venti anni: quando nel '98 si fece cadere il governo Prodi per sostituirlo con il governo D'Alema. I nomi ricorrono, le lotte intestine pure, mentre fuori – dice Veltroni - avanza la destra populista di Le Pen e di Trump «a ricordarci quali sono i valori della sinistra».
Lui, Renzi, come da previsioni della vigilia ha confermato l'avvio del congresso, ricordando che era stato chiesto dalla minoranza proprio come condizione per evitare quella scissione che ora si vuole fare contro il congresso-lampo, e si è appellato al principio democratico del confronto interno come scolpito dalla statuto del Pd. «Peggio della scissione ci sono i ricatti». Citando Arturo Parisi, uomo di Prodi, Renzi ha scandito: «A chi appartiene il Pd? Dove è il centro del potere, del comando nel nostro partito? Il Pd appartiene agli iscritti e agli elettori, e saranno loro a decidere chi lo guiderà». Con la protezione dei padri, da Fassino a Veltroni, Renzi dice chiaramente che non sarà fatto a lui quello che è stato fatto allo stesso Veltroni dieci anni fa: chi sarà il prossimo leader non lo decidono i dirigenti in una contrattazione tra di loro come avveniva nella prima repubblica, ma lo decideranno le primarie aperte.
Stop. Congresso al via, mentre Bersani, in diretta tv seduto nel giardino su cui si affaccia la sala stampa attende inutilmente la replica del segretario appena dimessosi. Per Renzi hanno parlato i padri che vengono dalla stessa storia politica di Bersani, lasciandolo obiettivamente solo e ricordando che «nessuno ha il copyright della parola sinistra» e che «il futuro di un grande partito riformista di governo non può ripartire, con tutto il rispetto, dalla rivoluzione socialista» (parole di Veltroni, commentando il “titolo” della kermesse della minoranza al teatro Vittoria).
Il referendum sulla riforma del Senato e del Titolo V, è analisi di Renzi, è stato il vero spartiacque della legislatura. Un'occasione perduta anche per colpa di quei compagni di partito che, come appunto Bersani e D'Alema, hanno martellato contro il loro leader ogni giorno e infine hanno brindato alle sue dimissioni da premier la notte della sconfitta, il 4 dicembre. Immagini che non si dimenticano, certo, ma il punto è che con la vittoria del No - secondo Renzi - si è impantanato il sistema Paese, anche dal punto di vista economico: «Ci si accorgerà presto dei capitali stranieri che stanno scappando – dice -. E in Parlamento la settimana si è accorciata, non certo per colpa dei parlamentari ma perché c'è un'oggettiva stasi».
Il rischio del ritorno al proporzionale e al consociativismo è evocato anche da Veltroni. Non è tanto in discussione la vocazione maggioritaria del Pd ma con essa il nodo della governabilità nel nostro Paese. Non a caso Veltroni torna a parlare di collegio uninominale e di Mattarellum. E non a caso un esperto di legge elettorale come il deputato Dario Parrini, moto vicino a Renzi, posta subito sui Facebook questa riflessione: «Il Mattarellum è la posizione votata dal Pd in assemblea nazionale, Non fermiamoci in attesa che gli altri ci dicano ok. Non parliamo di subordinate. Se si crede in qualcosa, bisogna semplicemente portarla avanti, e costringere chi non ci sta a a metterci la faccia assumendosi in Parlamento la responsabilità di dire di no. Il resto tatticismo e palude».
Ecco, una cosa è certa: Renzi, a maggior ragione dopo l'annunciata scissione dei bersaniani, non vorrà avallare un accordo al ribasso sulla legge elettorale. Piuttosto si va a votare con i due sistemi usciti dalle sentenze della Consulta, che qualche elemento di maggioritario lo salvano. La battaglia congressuale del Pd è nell'ottica di Renzi anche questo: una battaglia per evitare la grande coalizione a vita.

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