venerdì 10 febbraio 2017

Non tiriamo a campare, serve un Pd forte e unito


Salvatore Vassallo
L'Unità 10 febbraio 2017
Per noi, in questo quadro, il problema non è solo vincere in Italia
Il documento sottoscritto da 40 senatori Pd e pubblicato ieri su l’Unità chiede giustamente «una riflessione profonda» sul contesto globale nel quale si inserisce anche la vicenda italiana prima di trarre conclusioni sui prossimi passi.
L’indebolimento dei confini nazionali e la grande recessione hanno ridefinito dappertutto il tradizionale conflitto politico tra destra e sinistra, che però non è affatto scomparso. Le appartenenze religiose o di classe che avevano contrapposto socialdemocratici, democristiani, liberali o conservatori si erano abbondantemente allentate già nella seconda metà del secolo scorso.
Ma dall’inizio dell’attuale decennio sta capitando qualcosa di inusitato, con un tratto comune ben evidente in molte democrazie: la crescita dei consensi per leader e forze politiche che, sfruttando il disagio di categorie che sono o si sentono penalizzate dalla globalizzazione, vendono facili ricette neo-nazionaliste. Alla base di questa svolta c’è un dato di fatto reale. I vantaggi maggiori dell’integrazione economica e della parallela rivoluzione digitale, sono andati ai Paesi meno sviluppati.
Mentre nei Paesi occidentali sono andati a chi ha capitali mobili o ha capitalizzato sulle economie di scala nei nuovi oligopoli. I vincitori sono per ora la Cina e Amazon. Ci hanno perso i lavoratori meno specializzati e meno istruiti con aspirazioni frustrate o espulsi dal mercato del lavoro, i giovani rimasti ai margini o che non ci sono mai entrati, tutte le filiere dell’interme diazione divenute obsolete, nel settore bancario, nel commercio o nella pubblica amministrazione. La crescita fisiologica delle migrazioni, con i suoi picchi del 2004 (allargamento ad Est) e del 2015 (crisi dei rifugiati da Siria, Afghanistan e Somalia), preoccupa soprattutto chi ha meno strumenti culturali e si sente minacciato dai diversi, chi compete con gli immigrati o più spesso immagina di competere con loro per l’o ccupazione, per i benefici delle politiche sociali, per un posto in autobus o negli alloggi pubblici.
Il populismo neo-nazionalista offre loro capri espiatori su cui scaricare il biasimo (gli immigrati, i complotti delle élites cosmopolite, la classe politica incapace o collusa) e soluzioni semplici (il muro con il Messico, il bando per i musulmani e la cancellazione del Nafta; il reddito di cittadinanza, il superamento di Schengen, il ritorno alle monete nazionali o l’uscita dell’Ue). Offre ricette inconsistenti ad un pubblico esasperato, impacchettate insieme a teorie economiche fantasiose e spudorate menzogne che prima o poi verranno a galla.
Il punto è: quando? E cosa succederà prima, dove hanno già vinto o potrebbero farlo? I possibili danni collaterali sono molti. Nel frattempo dobbiamo prendere atto che il populismo neonazionalista ha cambiato la struttura della competizione politica interna e minaccia di avere un impatto sull’ordine globale. Ha già vinto dove si è saldato alla destra tradizionale radicalizzandone le posizioni. Il caso Trump non è il primo ma il salto di scala è impressionante. In Gran Bretagna la vena anti-immigrati e anti-europea è stata incorporata, attenuandola, nell’agenda politica dei conservatori, che si preparano così, fino a che non ci saranno cambiamenti rilevanti a sinistra, a rimanere dominanti ancora per molto tempo. Per noi, in questo quadro, il problema non è solo vincere in Italia.
Ma rafforzare al più presto l’intesa tra un nocciolo duro di Paesi guida per rinnovare e rilanciare il progetto europeo. Dobbiamo sperare che all’interno di ciascuno di essi prevalgano governi coerenti con questo progetto e forse dovremo prendere in qualche modo esempio da loro. In Germania il governo potrebbe rimanere nelle mani di grandi coalizioni rese stabili dalla forza istituzionale del Cancelliere e dalla collaudata capacità dei partiti tradizionali di intendersi dopo che gli elettori avranno deciso chi lo guida. In Spagna, dove la cultura della coalizione non è mai stata appresa, c’è una coalizione di fatto, con il leader del primo partito a capo di un governo di minoranza. In Francia, con il semipresidenzialismo e il maggioritario a due turni, saranno gli elettori a decidere l’antagonista della Le Pen.
Se vincerà Macron potrebbe essere costretto anche lui a formare governi di coalizione, perché difficilmente i candidati parlamentari di En Marche avranno le sue stesse fortune. L’Italia avrebbe potuto avere un percorso più lineare con il Sì al Referendum. Ora lo scenario è diverso e dobbiamo prenderne atto. È certo però che anche le coalizioni, se necessarie, funzionano con leader, partiti e progetti forti. E quindi, che l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è prendere tempo, tirare a campare, dividere il Pd o indebolirne la leadership.


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