sabato 8 ottobre 2016

Rodotà ....lezione di stile


Giorgio Tonini
8 ottobre 2016
Su "Repubblica" di oggi, Stefano Rodotà lamenta il carattere "per molti versi violento" che sta assumendo la campagna referendaria e paventa un esito di delegittimazione del risultato, qualunque esso sia, agli occhi di una parte significativa del paese. Non ha tutti i torti, anzi ha molte ragioni. E tuttavia, nel prosieguo dell'articolo, nemmeno lui riesce a resistere alla tentazione di gettare la sua brava tanica di benzina, sul fuoco della polemica intollerante e faziosa. Contro la riforma costituzionale, Rodotà ripropone, nel modo più radicale e urticante ("È perfino imbarazzante, per la pochezza dei contenuti e del linguaggio — scrive ostentando aristocratico disprezzo — leggere il testo" approvato dal Parlamento...), i soliti tre argomenti che il fronte del No continua ad usare, incurante di qualunque replica "di merito" da parte degli autori e dei sostenitori della riforma.
Il primo argomento è la "preoccupazione per le forme di concentrazione del potere", fino a mettere in discussione gli "equilibri istituzionali", indotta dal famoso "combinato disposto" della riforma del bicameralismo e di quella della legge elettorale. Rodotà sembra dunque voler ignorare, per partito preso, le pacate e puntuali risposte dei sostenitori della riforma, che hanno dimostrato, numeri alla mano, l'impossibilità assoluta, per il vincitore del premio di maggioranza previsto dall'Italicum alla Camera, di eleggere, senza coinvolgere almeno una parte dell'opposizione, il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali e le altre istituzioni di garanzia, o di modificare la Costituzione. Rodotà sembra dissentire dallo stesso documento dei giuristi per il No, i quali precisano all'inizio del loro testo critico: "Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo". Non è tutto: Rodotà prende le distanze anche dalla posizione di quegli esponenti del Pd che fanno dipendere il loro Sì al referendum da una immediata riforma della legge elettorale. "Le modifiche all'Italicum — scrive — non potrebbero comunque avere l'effetto di rendere accettabile la riforma". Come contributo alla distensione degli animi, all'avvicinamento delle posizioni e alla ricerca di un compromesso che eviti la spaccatura del paese, davvero non c'è male.
Il secondo argomento è quello del "pasticcio": "per liberarsi del tanto deprecato bicameralismo paritario si è approdati ad un bicameralismo che generosamente potrebbe esser detto pasticciato". Grazie, professore, della generosità, ma su quali pezze d'appoggio si fonda una simile stroncatura? Su una e una sola: gli studiosi non concordano su quanti siano i procedimenti legislativi previsti dalla riforma. Dunque, siccome il dibattito è confuso, confusa deve essere la norma. Non sono un costituzionalista, ma sono un parlamentare anziano (e credo di poter dire esperto) e per me il testo della riforma è un capolavoro di chiarezza e certezza: il procedimento ordinario vede la prevalenza della Camera, con il Senato che può solo proporre modifiche, mentre solo per alcune, ben individuate e definite tipologie di leggi (tipologie, non materie!) il procedimento rimane, in via eccezionale, perfettamente paritario. Si tratta delle leggi di revisione della Costituzione e di altre, elencate in modo noiosamente pignolo, leggi di sistema che hanno a che fare con le regole del gioco. Questa demarcazione è il cuore della riforma, che affianca al principio "monista" della fiducia espressa da una sola Camera (eletta con un sistema maggioritario, in modo da rendere l'elettorato arbitro della contesa per il governo e il governo responsabile dinanzi all'elettorato), il contrappeso "pluralista" di un Senato eletto con una fonte di legittimazione diversa da quella della Camera (e dunque autonomo dal circuito fiduciario elettorato-parlamento-governo) e proprio per questo presidio della indisponibilità delle garanzie per la sola maggioranza di governo. Stupisce che Rodotà voglia ignorare queste positive conquiste, al tempo stesso democratiche e liberali, della riforma, per cedere anche lui agli stilemi di quella campagna rozza e volgare che pure intende stigmatizzare.
Il terzo argomento è quello del Senato ridotto a "dopolavoro" di sindaci e consiglieri regionali, che si troveranno, si sostiene, nell'impossibilità di conciliare i due ruoli. Dunque, per Rodotà, anche il Bundesrat tedesco e il Senato francese sono dopolavori, essendo entrambi questi organi (per altri versi diversissimi tra loro) composti da amministratori in carica. L'abbaglio è il frutto di una sovrapposizione del modo di lavorare dell'attuale Senato (definito da Mortati "inutile doppione della Camera") con quello del nuovo, che avrà tempi e ritmi totalmente diversi: la seconda camera tedesca, ad esempio, si riunisce una volta al mese. Anche qui, da un giurista della statura di Rodotà, ci si sarebbe aspettata qualche considerazione meno triviale. Ad esempio la constatazione che questa è la prima volta che si è riusciti a rimuovere, col consenso attivo della maggioranza dei senatori, il vincolo politico dell'elezione diretta dei senatori. Un vincolo, prodotto dalla storica indisponibilità dei senatori a "suicidarsi", fosse anche per il bene della patria, che aveva reso impossibile una chiara demarcazione delle competenze tra Camera e Senato, costringendo sia la bicamerale D'Alema, che il testo approvato dal centrodestra nel 2006, a tortuose e (quelle sì) "pasticciate" sovrapposizioni, foriere di inevitabili conflitti di competenza tra le due Camere. È difficile infatti realizzare una vera differenziazione di funzioni, mantenendo l'attuale identità di legittimazione. Il vero merito di Renzi, condiviso con Napolitano, è stato quello di essere riuscito a sbloccare uno stallo pluridecennale, aprendo la strada ad una riforma chiara nelle intenzioni e solida nella realizzazione. Una riforma che può non essere condivisa, ma può e deve essere rispettata. Tanto più da quanti, come Rodotà, giustamente invocano un confronto meno divisivo e più attento a preservare un terreno di valori comuni.

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