sabato 24 settembre 2016

Io, la sinistra, Grillo, i cretini.


A pranzo con Michele Serra
di Salvatore Merlo
Il Foglio 23 Settembre 2016
Giornali, politica, satira e vaffa. “La mia lotta è non diventare cinico. Uno è moralista da giovane, poi diventa disilluso, infine rischia di diventare cinico”
E le parole “mio mondo e mio partito” forse un po’ gli bruciano in gola. “Non ci siamo più”, dice con una malinconica ironia. Estinti: come il bue primigenio, come il ghiro gigante di Minorca, come la tigre del Caspio. “E pure ognuno di questi pareva inestirpabile”. Qualche fossile ancora riemerge, tuttavia, qua e là. “Ma bisogna avere l’umiltà di accettare le cose nuove, anche quelle che non ti prevedono”. Come Matteo Renzi? “Mi capita di ricevere missive irose dei miei lettori: ‘Ah, ma come fai?’, ‘Questo orribile provinciale fiorentino…’, ‘Bisogna fare qualcosa…’. Ecco, io invece penso che non dobbiamo rompere i coglioni. Se la nostra sinistra diventa una mummia, noi possiamo anche diventare delle mummie noi stessi, ma non possiamo mica pretendere che anche tutto il resto del mondo si mummifichi”.
E a questo punto lo sguardo fisso, che prima somigliava a un pugno chiuso, si scioglie in un ridere degli occhi, “bisogna avere uno sguardo non stupidamente arreso, ma nemmeno accigliato e corroso dal catastrofismo”. Così abbassa il tono di voce, stringe le palpebre, prende una voce non sua, che potrebbe essere quella dell’avaro di Moliére, o la caricatura fumettistica di un vecchio pessimista: “Ahhh, il mondo è diventato una merda! Non c’è più Berlinguer… Che palle!”. Ride, Michele Serra, con occhi che colgono senza riguardi il paradosso delle situazioni, e la comicità. Anche amara. E forse un po’ evoca “i compagni” volenterosi e tristi di Mario Monicelli, quei pasticcioni sconfitti e dolenti della commedia. “La mia famiglia d’origine ha perso”, dice, “ma il mondo continua anche senza di me”. E insomma esprime lo smarrimento dell’uomo di sinistra, la cui simmetria dei principi è stata scompigliata da un vento che spira da regioni che forse lui in tutta innocenza credeva non esistessero, fino a ieri, o fino all’altro ieri, o comunque fino all’incrinarsi delle certezze di un mondo al quale sente d’essere appartenuto – di appartenere? – “non solo da militante, ma da funzionario”.
Strano dove le nostre passioni ci conducono, incalzandoci sferzanti, costringendoci a sogni indesiderati, a destini malaccetti. “Alle primarie votai Bersani. Poi mi sono pentito. A un certo punto mi sono accorto che votavo Bersani perché in realtà votavo per me stesso, mentre avrei dovuto votare contro me stesso, cioè avrei dovuto votare per Renzi”. In una delle sue rubriche, in un’Amaca, qualche settimana fa, aveva scritto: “Piuttosto che essere governato da uno come Di Maio, che non sa niente ma se la tira come se sapesse tutto, sopporto, anche se non la supporto, Maria Elena Boschi”. Che ti ha fatto la Boschi? “Niente”, risponde lui, con il suo sorriso arabo. “Mi sembra volenterosa… in Italia ci sono due modelli di quarantenne, quello renziano e quello grillino. Almeno quelli come la Boschi provano a dare un’impronta, a fare qualcosa”. I bamboccioni che il ministro Padoa Schioppa esortava a lasciare la casa genitoriale l’hanno fatto. “E invece cosa abbiamo fatto noi sessantenni di sinistra per dire di ‘no’?”. Ecco. Al referendum come voti? “Io voto per il ‘sì’, anche se vincerà il ‘no’. E vincerà il ‘no’ perché l’aria che tira è quella del disfacimento. E poi guardati intorno: mezzo Pd vota ‘no’, la destra vota ‘no’, la sinistra vota ‘no’, i grillini votano ‘no’…”.
Il Naviglio Grande è nitido, largo e lindo, sembra la guancia ben rasata di Milano (mi dirà “Lui” tra poco: “Tutta questa zona aveva un suo fascino anche prima, ma un fascino malinconico, mentre adesso è un luogo allegro”).
La mattina è stata ansimante e boccheggiante, con scrosci di pioggia a tratti torrenziale. Da qualche minuto un sole malaticcio ravviva il cielo bianco, mentre dall’imboccatura di porta Ticinese ecco arrivare, dondolando appena, un signore dall’aria pensosa, ma allegra: pantaloni marroni, camicia chiara, una ciocca di capelli spettinata, e brizzolata, un filo di barba. E’ lui, Michele Serra. “Hai visto, ci sono i pesci nel Naviglio”, dice, indicando quelle acque che non sono più “perplesse”, come le descriveva Giuseppe Marotta negli anni Sessanta, ma che dopo il grande recupero dell’Expo hanno assunto un tocco attraente, adesso sembrano raccontare favole levigate. “Qui i sindaci sono stati bravi, anche quelli di destra. Ma soprattutto è stato bravo Giuliano Pisapia, che se volesse potrebbe diventare il vero avversario di Renzi… Solo adesso Milano palpita davvero di vita, di vita civile e di bellezza, quella stessa città che fu lugubre quando ero ragazzo e che invece mi scorreva attorno così estranea e rampante negli anni Ottanta”.
E la città lugubre era quella in cui si spaccavano teste a sprangate, la città che negli Anni di piombo subiva attonita la bomba di Piazza Fontana, la violenza ideologica e il terrorismo. “In via Scaldasole frequentavo un circolo anarchico, del Movimento socialista libertario. Andavo lì con tre amici di scuola, Mario Ferrandi, Guido Salvini, ed Enrico Mentana. Il primo è finito all’ergastolo per terrorismo, il secondo è il giudice che ha riaperto le indagini su Piazza Fontana, il terzo è il direttore del Tg di La7. Pensa un po’”.
La città che invece gli scorreva estranea, era la Milano di Bettino Craxi, quella da bere. Lo disprezzavi Craxi? “Lo consideravo un nemico. Credevo che avesse ragione Berlinguer, e lui torto. Ero abbastanza comunista, e abbastanza moralista”. A un certo punto però, qualsiasi cosa si faccia, le carte dei motivi e delle conseguenze si imbrogliano maledettamente, e quando gli anni passano nessuno sa più se ha agito bene o male. “Era facile essere moralisti all’epoca, forse c’erano anche delle esagerazioni, ma il sacco della città ci fu davvero. C’era un ceto emergente e spregiudicato, odioso”.
Dunque il Pci, la militanza, un intrico di pulsioni e intenzioni risalenti a tempi immemorabili ormai informi, forse senza scopo. “Entrai nel partito credo a diciotto anni, sezione ‘martiri di Modena’, in via Caccialepori. Entrai per autodifesa, forse anche per paura. Era il ’73 o il ’74 e la gente si apriva la testa a bastonate. Poi un giorno un mio amico andò a fare il militare e mi disse: ‘Vuoi il mio lavoro?’. E che fai? ‘Faccio il dimafonista all’Unità’”. Cioè lo sbarbatello al quale gli inviati dettavano i pezzi al telefono. “Così presi una vecchia Olivetti Lettera 22 di mia madre e mi esercitai nella dattilografia, ero imbranato ovviamente, ma dissi a quelli dell’Unità che ero un professionista. Mi presero. Facevo le notti. A quei tempi i giornali rombavano, erano fabbriche: la colata a piombo, la linotype, gli odori. I tipografi erano individui neri, inchiostrati, che bevevano latte per combattere l’avvelenamento da piombo (ma più spesso bevevano Campari Soda). Era vera classe operaia. Si parlava solo dialetto milanese, che per me, io che venivo da una famiglia borghese, era come una porta sbattuta in faccia, un fragoroso abbassarsi di saracinesca, dovevo farmelo tradurre”.
Poi lentamente il passaggio alla scrittura, al giornalismo. Supremo, prezioso dilettantismo o capriccio. Almeno all’inizio. “Adesso sono venticinque anni che scrivo tutti i giorni. Una follia, un’ossessione. Ho scritto su Panorama, l’Espresso, Repubblica, Telesette, il Monello, l’Illustrazione italiana… Chissà quante stronzate ho scritto!”. Ricordane qualcuna, dai. “Per fortuna mi dimentico tutto, e per fortuna la carta va al macero”. C’è internet, ti avverto. “Ma mi hanno spiegato che per fortuna anche le memorie elettroniche hanno una loro obsolescenza”. Sì, ma credo di millenni. “Cazzo!”.

Nessun commento:

Posta un commento