martedì 20 settembre 2016

Fabrizio De Andrè e le sue “Anime Salve”. Quelle di ognuno di noi


Daniele Bova

L'Unità 19 settembre 2016
Usciva esattamente 20 anni fa l’ultimo disco del cantautore genovese: crocevia di suoni e tradizioni ma anche racconto degli emarginati e della solitudine, necessaria, degli uomini.
Tra i dischi di Fabrizio De Andrè, Anime Salve è quello a cui molti sono più affezionati: vuoi perché legato alla sua imminente morte, vuoi perché si tratta di un punto d’arrivo importante: la summa di un percorso di ricerca iniziato con l’omonimo album del 1981. Da quel lavoro, che racconta i sardi e i pellerossa nella loro essenza di popoli minacciati, Faber comincia un cammino che lo porterà a due approdi apparentemente inconciliabili, ma intimamente legati. Da una parte l’apertura totale e incondizionata all’Altro, che si concretizza, a livello testuale e musicale, nell’annettere alla sua poetica suggestioni provenienti da tradizioni e culture lontane; dall’altra, la presa di coscienza della centralità della solitudine, intesa come possibilità di raccontare in maniera più autentica l’essere umano. “Il mio è un inno alla solitudine come possibilità di riscatto da situazioni di disagio – dirà  in un’intervista – il primo grande disagio l’uomo lo prova al momento della nascita, quando passa dall’acqua all’aria. Il secondo quando si rende conto che il suo destino è morire. Alcuni, poi, ne vivono un terzo: il disagio dell’isolamento. Ebbene, secondo me, chi passa attraverso questi tre disagi matura spiritualmente. La solitudine porta a contatto con l’Assoluto“.
Le Anime Salve del titolo sono quindi gli spiriti solitari: l’intera opera è un tentativo di afferrare l’uomo nei suoi tratti salienti, in ciò che gli è più proprio. L’unico modo per far questo è indagarlo nella sua emarginazione, in quei casi limite che De Andrè stesso definisce scherzi della natura – proprio perché vittime della natura stessa, come chi nasce donna in un corpo di uomo (l’argomento del brano d’apertura Princesa) – oppure nella realtà di popoli che non sono mai scesi a compromessi per salvaguardare “i retaggi millenari che si portano dietro”, come quello dei rom. Il cantautore vede in questi attori l’esempio di quella solitudine primaria capace di farci accedere all’essenza delle cose: “Io sono uno che sceglie la solitudine – avrebbe dichiarato –  e come artista mi faccio carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello. E’ il mio mestiere.”
Il disco si rivela un parto molto complesso, perché alla stregua dei temi trattati, anche a livello formale si struttura su una coralità di punti di vista, sotto forma di grande affresco della world music evoluta. Ogni brano è scritto a 4 mani con Ivano Fossati, i musicisti che collaborano sono numerosi e legati a sonorità disparate – dal percussionista Giuseppe “Naco” Bonaccorso (scomparso pochi mesi prima che uscisse il disco), al grande suonatore di cimbalom (strumento gitano) Sàndor Kuti, dal fisarmonicista russo Vladimir Denissénkov, all’arpista Cecilia Chailly, il mood delle canzoni è vario e suscettibile di cambi e contaminazioni all’interno delle singole composizioni. Si passa, ad esempio, da ritmi e sonorità mediterranee, a spunti di matrice sudamericana, da accenni jazz al folk, senza precludersi ballate introspettive come Ho visito Nina Volare. In parte, l’humus frastagliato del disco deriva dalle spinte antitetiche di chi vi ha suonato dentro, ma senza che questo arrivi a compromettere il senso unitario del tutto, anche grazie al lavoro di Pietro Milesi, capace di mediare, con soluzioni di arrangiamento e di produzione, tra le diverse influenze.
In questo mosaico, De Andrè non è altro che lo “spirito guida” che lascia esprimersi, integrarsi e a volte scontrarsi (come nel caso di alcune divergenze artistiche con Fossati) tutte le parti in gioco.
“Non capisco come chi esercita il potere non si renda conto di non essere anche lui libero. Chi esercita il controllo sugli altri, infatti, non è libero. Basta vedere come certe madri vanno in apprensione per i figli, perdendo così ogni libertà. Eppure ci sono ancora del matti che si divertono ad esercitare il controllo sugli altri”. Come tutti i lavori di De Andrè, anche Anime Salve mantiene una sua cifra “politica”; di più: mai come in questi brani tale termine ci appare nella sua pienezza di significato, calato in situazioni determinate e marginali, di “frontiera” e parallelamente esemplificativo di ogni contesto e di ogni epoca. Citando uno storico verso del brano che chiude l’album, Smisurata Preghiera, è come se De Andrè ci suggerisse che “chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio di speciale disperazione” non siano solo gli scherzi della natura, i reietti, i disadattati, ma tutti noi: perché ognuno, a modo suo, è alle prese con lo stesso compito: “consegnare alla morte una goccia di splendore… Di umanità.. Di verità… “.

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