sabato 31 gennaio 2015

Sergio Mattarella Presidente della Repubblica Quell'uomo invisibile della Dc. Ma non incolore


Marco Damilano
L'Espresso 31 gennaio 2105
Nessuna rissa nei talk show, nessuna presenza televisiva, pochissime foto recenti: il nuovo inquilino del Colle è lontanissimo dalla politica recente. Una riservatezza che ha le sue radici nella sinistra cattolica democristiana di cui è stato esponente e figlio. E che lo porterà, si spera, ad essere un inflessibile custode della Repubblica
«Non ci sono le immagini». Nelle ultime ventiquattr'ore uno spettro si aggira per gli studi televisivi e le redazioni dei giornali. Il fantasma del nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non esistono sue dichiarazioni televisive, risse in un talk show, foto sotto l'ombrellone. Disperazione tra i cronisti. Venerdì, a quanto raccontano, si era concordato un set in una via del centro di Roma, al riparo dai curiosi, per scattare qualche foto del nuovo Capo dello Stato da spedire sui circuiti internazionali alla grande stampa estera. Niente da fare, il candidato ha fatto sapere che preferiva aspettare.
Un silenzio più forte di tante vacuità, un'assenza che riscatta da sola l'ansia di visibilità di un'inutile classe dirigente. Leggerà una pagina dell'Ecclesiaste, pronosticano gli amici, nel suo primo discorso da presidente in Parlamento: «Vanità delle vanità, tutto è vanità...». Oppure, laicamente, potrebbe anche citare il siciliano Franco Battiato, per dire come sarà la sua presidenza: «Ne abbiamo attraversate di tempeste e quante prove antiche e dure ed un aiuto chiaro. Da un'invisibile carezza di un custode».
Ha saputo martedì, ufficialmente, di essere candidato alla presidenza della Repubblica, quando l'ha chiamato il numero due del Pd Lorenzo Guerini. Con il grande elettore Matteo Renzi si è sentito due giorni dopo. Non ha chiesto nulla, non ha fatto nulla per ricevere la carica. Com'era successo nel 2008, quando era stato escluso dalle liste per il Parlamento. Non aveva chiesto deroghe nel nuovo Pd e i suoi colleghi di partito che oggi si spelleranno le mani lo avevano escluso. Ha continuato a lavorare all'ultima sentenza nella foresteria della Corte costituzionale dove è andato a vivere due anni fa dopo la morte della moglie Marisa. La sua Santa Marta, come quella in Vaticano di papa Bergoglio, in linea con quanto disse anni fa a proposito dell'occupazione del potere: «Un partito, un politico, nelle istituzioni si deve sentire ospite, anche se protagonista». Sarà ospite, in punta di piedi, e non un padrone di casa, anche nel palazzo di fronte. Il Quirinale.
«C'è l'amico Mattarella che farà il suo intervento...». È il 28 febbraio 1984, sono le nove del mattino quando Amintore Fanfani invita alla tribuna il primo iscritto a parlare della giornata al XVI congresso della Dc, nel grande catino del Palaeur. «Prima di dargli la parola ci consentirà di ricordare, nel suo nome, un uomo che si è sacrificato nell'interesse dell'Italia, della Sicilia e del Partito». I non molti presenti si alzano in piedi in omaggio di Piersanti Mattarella, il presidente della regione Sicilia ucciso da un delitto politico-mafioso quattro anni prima. Sul palco, davanti alla nomenclatura del partito, c'è un uomo di quasi 43 anni, gli occhiali spessi, i capelli già candidi sul volto ancora da ragazzo. Comincia a parlare: «La ringrazio, ben sapendo che questi applausi, ovviamente, non riguardano assolutamente me...». E conclude: «Non voglio essere né illusorio, né fuori dalla realtà: tanti hanno in questi giorni ricordato saggi greci, antichi filosofi, io vorrei più modestamente richiamare la preghiera di Francesco che non chiedeva tanto di essere aiutato quanto di aiutare, che non chiedeva tanto di ricevere quanto di dare, che non chiedeva tanto di essere compreso quanto di comprendere...»
Non ha mai parlato in pubblico di quel giorno che gli ha cambiato la vita, il 6 gennaio 1980, il giorno dell'Epifania. Il massacro del fratello Piersanti davanti alla sua famiglia, quel corpo che Sergio prova a soccorrere mentre la vita scivola via. Fino a quel momento Sergio Mattarella era stato un tranquillo professore universitario di diritto parlamentare con studio in via della Libertà, la stessa del fratello, davanti a casa. A sparare è il killer dagli occhi di ghiaccio e dalla strana andatura, che cammina a balzi, «un robot che sparava come se sparasse a una pietra o una sedia», testimoniò la vedova Irma Chiazzese. «Zio, corri giù, c'è stato un incidente a papà», lo chiama il nipote Bernardo. «La scena che gli si para davanti, con quell'auto crivellata di colpi e piena di sangue, è violenta, allucinante, insostenibile», scrive Giovanni Grasso in "Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia" (Edizioni San Paolo). «È come se avessimo accompagnato papà fino alla fine», racconta la figlia di Piersanti Maria. È quel giorno di violenza inaudita, di vittoria della politica sporca e della mafia che eliminano la migliore classe dirigente negli anni Settanta e Ottanta, il sentimento di quelle ore, sempre custodito con pudore, che spinge Sergio all'impegno politico. «Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale...», scriveva il 28 novembre 1943 Giaime Pintor al fratello Luigi. La vita, i fratelli, il sangue, la politica. La nuova Resistenza, la chiama Sandro Pertini in quegli anni drammatici.
In uno dei rarissimi testi in cui parla del fratello, pubblicato sul sito del Movimento studenti di Azione cattolica , Sergio Mattarella scrive: «Piersanti non aveva la vocazione a diventare un eroe. Era una persona normale che amava la vita e il futuro, amava sua moglie e i suoi figli, era aperto di carattere, allegro nei rapporti personali, anche sul lavoro. Ma avvertiva fortemente il senso della dignità propria e di quella del ruolo che rivestiva; si rifiutava di piegarsi alla prepotenza, alla sopraffazione della mafia o alla minaccia della violenza; non aveva intenzione di far finta di non vedere. Era consapevole del pericolo che poteva aver di fronte ma sapeva che si deve vivere in maniera decorosa, potendo essere sempre orgogliosi delle proprie scelte... Ricordare le persone che affermavano il rispetto delle regole per il bene di tutti, il bene comune, e il cui assassinio ha punteggiato dolorosamente la storia del nostro paese, significa condividerne valori e criteri di comportamento: il messaggio che riceviamo da Piersanti Mattarella risiede nella convinzione che la vita va impiegata spendendo bene, evangelicamente, i talenti che si sono ricevuti».
Vale come un auto-ritratto. I talenti ricevuti da spedere, i valori da rimettere in gioco, sono la stella polare del giovane Mattarella, figlio del ministro Bernardo, uno dei fondatori della Dc, membro dell'Assemblea Costituente, eletto il 2 giugno 1946 con 38.764 voti. Studiano a Roma, nel collegio di San Leone Magno. Il fratello Piersanti è uno dei giovani dirigenti dell'Azione cattolica negli anni Cinquanta, Sergio è un ventenne che negli anni del Concilio, il rinnovamento della Chiesa, è responsabile degli studenti cattolici del Lazio con l'assistente don Filippo Gentiloni (futura firma del "Manifesto" per le questioni religiose e zio di Paolo, il ministro degli Esteri), conosce preti come don Luigi Di Liegro, che sarà il carismatico e amatissimo direttore della Caritas romana, e don Alessandro Plotti, futuro vescovo di Pisa. «Erano gli anni di papa Giovanni XXIII e di Paolo VI, gli anni del Concilio: anni di entusiasmo, di speranza, di innovazione», scrive. Sono gli anni della Meglio Gioventù versione cattolica, letture, incontri, amicizie, «gli anni della mia formazione: hanno disegnato il mio senso della vita e la mia fisionomia come persona», scrive Mattarella.
La politica è sempre stata di casa. Il padre è un notabile della Dc, accusato negli anni Sessanta di vicinanza alla mafia da Danilo Dolci che viene condannato per diffamazione. Accuse poi riprese dagli esponenti del Psi craxiano negli anni Ottanta quando Sergio dà vita alla prima giunta Dc-Pci a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando (l'attuale), suo grande amico prima di una rottura dolorosa. «In Italia tutti sanno che i cognomi di Orlando e Mattarella erano indicati in una precedente generazione come autorevoli amici degli amici», scrive don Gianni Baget Bozzo sull' "Avanti!".
Anche il numero due del Psi Claudio Martelli picchia duro sulle famiglie Mattarella e Orlando «consigliori» dei mafiosi. «Mattarella ha scritto la replica su un foglietto: disgusto e disprezzo...», scrive sul suo diario l'allora capo ufficio stampa della Dc Giuseppe Sangiorgi. Tanto più che le minacce della mafia continuano. «Dovete proteggere Sergio», implora il segretario della Dc Ciriaco De Mita, il leader di riferimento, la moglie Marisa, sorella della moglie di Piersanti. «Mattarella è andato un attimo in casa sua prima di una cena ufficiale. A casa ha trovato la moglie in lacrime. Pochi minuti prima aveva ricevuto una telefonata anonima: suo marito, le hanno detto, con la lista che sta facendo per le elezioni di Palermo farà la stessa fine del fratello Piersanti».
Piersanti era il più promettente e intelligente tra gli allievi di Aldo Moro, aveva rotto con la Dc di Vito Ciancimino e di Salvo Lima e aperto al Pci siciliano negli anni della solidarietà nazionale, era già stato deciso che sarebbe tornato a Roma come deputato quando l'omicidio di Moro lo convinse a restare in Sicilia. Una scelta che gli costò la vita. Anche Sergio, eletto alla Camera nell'83, milita nella piccola corrente morotea. I suoi amici sono tutti nellaLega democratica, si chiamano Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, lo storico Pietro Scoppola, il costituzionalista Leopoldo Elia con cui ingaggia a cena epiche gare di nozionismo. Sugli articoli della Costituzione tedesca? No, su chi conosce più formazioni di calcio a memoria, testimonia l'amico Pierluigi Castagnetti. Moro doveva diventare presidente della Repubblica già nel 1971, fu bruciato a voto segreto dalla destra Dc che gli preferì Giovanni Leone. E nel 1978, come disse Sandro Pertini, "lui, non io, vi parlerebbe da questo posto, se non fosse stato barbaramente assassinato".
Mattarella al Quirinale è una silenziosa rivincita. Da Moro Mattarella sembra aver ereditato la timidezza davanti alle telecamere («Moro deve compiere un sovrumano sforzo di eroica volontà per presentarsi alla televisione», scriveva Vittorio Gorresio). La riservatezza: entrate nella leggenda di Moro con il soprabito d'estate sul lungomare di Terracina fotografato da Vezio Sabatini per un servizio di Guido Quaranta su "Panorama".
L'ispirazione politica: l'apertura a sinistra, l'idea della fragilità della democrazia italiana, attraversata da nemici occulti. Le mafie, le massonerie, le P2. «Occorre recuperare credibilità e questo vuol dire soprattutto moralità», dice Mattarella in quel lontano discorso al congresso della Dc del 1984. «Moralità significa uno sforzo intenso e particolare contro la corruzione. Moralità significa, in alcune zone del Paese ma ormai in tutto il Paese, una lotta intensa, seria, autenticamente rigorosa, nei confronti della mafia, della camorra e di tutte le altre forme di criminalità organizzata. Significa avere una continua attenzione per evitare che si ripetano infiltrazioni o presenze e inquinamenti come quella che ci ha dolorosamente colpiti e preoccupati e inquieti, la scoperta delle trame della loggia P2». Ma la questione morale, come già avvertiva Berlinguer, non è solo lotta alla corruzione e alla mafia: «Significa avere rispetto della articolazione della società, liberando e risparmiando spazi da una eccessiva presenza del pubblico e della politica. Significa che alla frammentazione del Paese non si dà soltanto una pur necessaria risposta istituzionale ma anche una risposta di linea politica, far rivivere nel nostro Paese un più intenso, più completo, più vasto senso della convivenza, del pubblico interesse, dell'interesse generale: il bene comune».
Un democristiano anomalo, l'ha presentato Renzi. E qualcuno già lo chiama «un presidente alla memoria». Mattarella, piuttosto, è un rappresentante tipico del cattolicesimo democratico e della sinistra dc, sinistra a pieno titolo inserita nelle culture progressiste del Paese, la via democristiana alla democrazia. Una cultura politica fortissima che è moderazione, equilibrio, dialogo con l'avversario, senso delle istituzioni e dello Stato. In una parola: mediazione. Parola-chiave della politica anni Sessanta-Settanta che funzionava quando la Dc e i partiti rappresentavano il collegamento privilegiato tra il Palazzo e la società. Ma che si trasforma in immobilismo e infine palude quando il sistema è ormai paralizzato e non c'è più nulla da mediare.
La sinistra Dc che era stata la parte più avanzata e riformista del partito diventa alla fine degli anni Ottanta sinonimo di irresolutezza, indecisione, mancanza di coraggio, di generali senza truppe incapaci di strappare. Mattarella non fa eccezione. E questo spiega all'inizio degli anni Novanta la separazione, la rottura tra i maestri del cattolicesimo democratico che appare estenuato e le generazioni più giovani che si impegnano nei movimenti anti-mafia, nella Rete di Orlando uscito dalla Dc o nei comitati per i referendum elettorali o del nascente Ulivo.
La Dc va in crisi quando il Paese si disgrega sotto mille spinte populiste e territoriali, vedi la Lega al Nord. Mattarella resta fedele alla sua vecchia impostazione, ma appare quasi un sopravvissuto, un politico d'altri tempi. Il suo cattolicesimo adulto, tormentato, inquieto, vicino alla sensibilità del cardinale Carlo Maria Martini che incontra più volte, «la spiritualità del conflitto», come la chiama Scoppola, è minoritario nella stagione dei meeting di Comunione e liberazione a Rimini. E non ha niente a che fare con la politica personalizzata, urlata, ammiccante. «La sobrietà di vita è una delle cifre degli statisti», ha detto nel mese di luglio ricordando l'amico Giovanni Goria alla Camera che fu il premier più giovane della storia repubblicana (fino a Renzi) e morì prematuramente. Ma la sua non è una sobrietà alla Mario Monti, non si traduce in un loden, neppure la sobrietà è esibita. È un uomo in grigio. Un uomo invisibile. Ma non spento, per nulla incolore o malinconico.
Potrebbe sottoscrivere quanto disse Enrico Berlinguer a Giovanni Minoli: «La cosa che mi infastidisce di più è quando scrivono che sarei triste, perché non è vero». Di ironia sottile, fredda, anglosassone. Di passione contenuta, intransigente. Per questo temuto da Silvio Berlusconi. Il suo anti-berlusconismo non è politico, va molto al di là della decisione di dimettersi da ministro per protestare contro la legge Mammì sulle tv nel 1990. È un anti-berlusconismo etico, una scala di valori contrapposta, inconciliabile con l'Arcore style. È (anche) a lui che si riferiva quando attaccava «Il bombardamento commercializzato dei modelli di vita che ha accentuato il pericolo del conformismo». Alternativo antropologicamente al berlusconismo, al fighettismo, al libertinismo, specie quello intellettuale.
Sembrava destinato a un tranquillo notabilato, lui che leader non è mai stato, «cammina nella penombra», lo descrive l'amico Angelo Sanza. Invece a richiamarlo in servizio per la politica attiva è stato un leader molto lontano da lui, per stile, mentalità, cultura, anche se non per origine e provenienza. Si è sempre detto che Renzi era l'erede di Berlusconi, ma la scelta di Mattarella fa intuire un'altra parentela, un'altra famiglia di provenienza, anche se misconosciuta. Il cattolicesimo democratico, che ha sempre militato dalla parte opposta del berlusconismo. Una stirpe fondata esattamente un secolo fa, con il discorso di Caltagirone del 1905 di un altro siciliano, don Luigi Sturzo. Potenza delle culture politiche, capaci di sopravvivere alle stagioni, agli inverni più rigidi, alle tempeste più violente. Alle prove antiche e dure. Un secolo dopo, ecco un altro cattolico, siciliano, il primo al Quirinale. Proiettato verso il futuro.
Il figlio della Repubblica si affida a un padre. L'uomo del Selfie fa eleggere l'uomo senza immagini. Nel modo opposto allo stile dell'eletto. Mai e poi mai Sergio Mattarella avrebbe usato i metodi di Renzi: forzature, spintoni, spallate, rovesciamenti di campo. L'irruenza, il contrario della prudenza mattarelliana. Renzi usa uno dei migliori esponenti della Prima Repubblica per chiudere per sempre con la stagione della Seconda e prepararsi a fondare la Terza.
Sergio Mattarella, eletto presidente la mattina di un sabato, il 31 gennaio 2015, potrebbe essere il capo dello Stato che celebrerà nel settantesimo anniversario dalla nascita della Repubblica insieme al referendum popolare che ne dichiarerà il (parziale) mutamento. Garante della Costituzione in vigore e di quella che verrà, come ha detto Renzi. E forse mostrerà al premier nato trentacinque anni dopo le parole del grande storico cattolico francese Henri-Irénée Marrou sulla conoscenza storica, il senso di ciò che accade, la piccola politica delle miserie quotidiane e la grande storia: «non viviamo soltanto per costruire e distruggere questi edifici provvisori, come una generazione di termiti, ma per dare un senso, riconoscere un valore al pellegrinaggio, a volte trionfale, a volte doloroso, che l'umanità compie da sempre attraverso il corso della sua storia». Sarà il mite, invisibile custode della Repubblica. Anche inflessibile (speriamo).

Mattarella, quegli otto colpi che cambiarono la vita tranquilla del professore


È il 6 gennaio 1980. La mafia uccide Piersanti, allievo di Aldo Moro e protagonista del rinnovamento in Sicilia. Tocca al fratello scendere in politica. In una foto di Letizia Battaglia, il destino di un uomo. Un racconto in prima persona
di ATTILIO BOLZONI

In questa foto c’è il destino di un uomo. C’è la storia di una famiglia che è l’attraversamento della Sicilia, c’è il confine fra la vita e la morte. Era ancora vivo, respirava ancora il Presidente della Regione Piersanti Mattarella quando suo fratello Sergio lo stava tirando fuori dalla berlina scura dove era rimasto schiacciato qualche istante prima da otto pallottole. Era ancora vivo quando lui cercava di prenderlo per le spalle e IN QUESTA foto c’è il destino di un uomo. C’è la storia di una famiglia che è l’attraversamento della Sicilia, c’è il cgli sorreggeva il capo mentre la moglie Irma gli spingeva le gambe, spingeva e spingeva senza sentire più il dolore per quelle dita spezzate da uno dei proiettili.
Questa è una foto che racconta molto dei Mattarella, padri, figli, fratelli, c’è dentro la Palermo degli Anni Ottanta, c’è dentro la paura, il prima e il dopo, c’è soprattutto l’attimo in cui cambia per sempre l’esistenza di un tranquillo professore universitario che ha fra le braccia il fratello morente e raccoglie l’eredità di una stirpe politica che con orme assai diverse ha profondamente segnato la vicenda siciliana fin dal dopoguerra. Proprio in qualche secondo è cambiato tutto per il professore Sergio Mattarella, fra le 12,30 e le 13 del giorno dell’Epifania del 1980. Strade quasi deserte dalla Statua fino al teatro Politeama, sole, chiese, campane e spari. Spari nella città dove si faceva politica con la pistola.
Ero lì, quella mattina del 6 gennaio. C’era qualcosa di informe fra quell’auto e l’asfalto, sembrava un manichino ma io – per non volere vedere un altro corpo massacrato di Palermo (capita ai giovani cronisti di «nera») - non distoglievo lo sguardo dalle dita di quella donna, la moglie Irma Chiazzese, l’indice e il pollice della mano sinistra frantumati, i tendini lacerati. Il fratello Sergio aveva la faccia più bianca dei suoi capelli, la figlia Maria si disperava sul sedile posteriore della Fiat 132 coprendosi il volto, il figlio Bernardo era immobile vicino al cancello.
Ero arrivato in via Libertà – la strada delle splendide ville liberty di Palermo che non c’erano più, fatte saltare in aria di notte con la dinamite per costruire palazzi di mafia - qualche minuto dopo Letizia Battaglia, la fotografa di questo scatto. «Chi è, Letizia? Dimmi chi è? Sai il nome?», le ho chiesto sicuro di una risposta. «Non lo so ancora, sono passata di qui e pensavo a un incidente stradale, poi ho visto qualcuno dentro la macchina e mi sono messa a correre e a tremare ». Letizia puntava l’obiettivo della sua camera dentro l’auto, Franco Zecchin – il suo compagno e fotografo anche lui – riprendeva gli uomini e le donne che si stavano radunando in silenzio davanti al marciapiedi di via Libertà numero 147, la casa dove abitava Piersanti Mattarella, allievo di Aldo Moro che stava portando la sua «rivoluzione» in un’isola che non voleva cambiare.
Stavano andando tutti a messa, come in ogni giorno di festa. Tutta la famiglia Mattarella. Soli, la scorta l’avevano lasciata libera. Poi quel «giovane in jeans e giubbotto che saltellava» e che era appena sceso da un’utilitaria bianca, aveva sparato quattro colpi, se n’era andato, era tornato indietro per spararne altri quattro. E poi quella scena, il fratello Sergio che provava a sollevarlo e tratteneva il suo corpo come per trattenere – in quel momento senza saperlo, senza neanche immaginare cosa sarebbe stata la sua vita dal giorno dopo e negli anni a venire – il suo lascito e il suo pensiero. L’eredità. Quella di Piersanti, gravosa e pericolosa. Quella del padre Bernardo ingombrante, molto scomoda. Avveniva tutto inspiegabilmente in mezzo al sangue e in mezzo al terrore, la cognata ferita, i nipoti sconvolti, tutto fra le 12,30 e le 13 di un giorno di Epifania in via Libertà a Palermo. Piersanti il fratello Presidente che voleva nuove regole e pulizia e il padre Bernardo con quelle ombre che scaraventavano in un passato cupo. Il fratello che sognava una Sicilia più libera e le voci sul padre che portavano indietro, a Castellammare del Golfo, patria dei «castellammaresi » che dal 1925 erano diventati re anche a New York, una moglie che si chiamava Maria Buccellato (famiglia di aristocrazia mafiosa), i sospetti sui suoi legami con i potentissimi Rimi di Alcamo, le accuse (mai provate) di Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo negli Anni Cinquanta, i dossier del sociologo triestino Danilo Dolci (condannato per diffamazione e amnistiato) sulle sue complicità nel Trapanese, le molte pagine dedicate dalla prima commissione parlamentare antimafia fino alle confessioni più recenti dell’ultimo pentito di Cosa Nostra Francesco Di Carlo.
Ma quel 6 gennaio del 1980 – in verità almeno da un paio di anni prima, quando Piersanti era stato eletto Presidente e subito aveva cominciato a manifestare il suo desiderio di ribaltare una Regione impastata di mafia - e quell’immagine del fratello in fin di vita sono diventate lo spartiacque fra Castellammare del Golfo e Palermo, il passaggio da una generazione all’altra, il cambio di passo. Non era forse proprio quella la ragione - il cambio di passo, la svolta – che aveva fatto ritrovare quella mattina il professore universitario piegato a sostenere il corpo martoriato del fratello? Non era stata forse la decisione e la forza di Piersanti a mettere paura a gente come Vito Ciancimino e a tutti quegli assassini che circolavano per la Sicilia e chissà dove altro ancora? Non lo sapeva ancora il tranquillo professore universitario che quelle otto pallottole rappresentavano non solo, come si diceva allora in Sicilia, un omicidio di tipo «preventivo», quelli che vengono ordinati per eliminare un pericolo imminente. Era anche «dimostrativo », di quegli altri omicidi che servono come monito, che portano sempre una minaccia che raggiunge tutti, omicidi che producono paura. La paura che c’è in questa foto. Prima di andarmene da via Libertà, quel giorno mi sono guardato intorno. A duecento metri avevano ucciso qualche mese prima il capo della squadra mobile Boris Giuliano, a trecento metri il consigliere istruttore Cesare Terranova, a cinquecento metri il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. E, a meno di un chilometro, il nostro bravissimo collega Mario Francese.


Sergio Mattarella sarà un Presidente rigoroso


Pierluigi Mele | 31 gen 2015
E così, come aveva previsto il Premier Renzi, al quarto scrutinio, superando abbondantemente il quorum, è stato eletto il Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella, siciliano, esponente di spicco di una gloriosa tradizione politica: quella della Sinistra Dc e di Aldo Moro. Tradizione nobile, capace di pensare in grande e di guardare la politica con “L’intelligenza degli avvenimenti” come la chiamava Aldo Moro.
Mattarella è l’ultimo erede della tradizione morotea, dopo la morte di Beniamino Andreatta e di Mino Martinazzoli.
Una tradizione, come detto, fatta di “pensiero lungo” , così “inattuale”, e perciò più profonda, nel tempo della velocità “renziana” e del populismo sterile del berlusconismo e delle urla senza senso del Movimento 5 Stelle.
Un “pensiero lungo” che sicuramente non concederà spazio a Riforme che stravolgeranno la Costituzione. C’è da aspettarsi che Mattarella sarà un Presidente alla “Einaudi”, ma non sarà un grigio notaio. Tutta la sua carriera è fatta di scelte coraggiose: dalle dimissioni per la legge Mammì, alle aperture alla Primavera palermitana di Leoluca Orlando.
Fratello di Piersanti, coraggioso Presidente della Regione Sicilia ucciso dalla Mafia, entrambi hanno rappresentato per quella regione il segno del rinnovamento. Il cattolicesimo democratico di Mattarella è anche una garanzia di laicità per tutti gli italiani. Il popolarismo e la laicità di Luigi Sturzo, il padre fondatore del Partito Popolare Italiano, erano di casa nella famiglia Mattarella. Un altro punto di solidità culturale e politica di Sergio Mattarella.
Gli effetti politici dell’elezione del nuovo presidente sono intanto già visibili. Ha sancito l’abilità tattica e politica di Matteo Renzi. Un politico capace di giocare sulla velocità, per spiazzare i suoi “avversari”. Portando a casa risultati politici non da poco: il ricompattamento del PD, la ricucitura con Nichi Vendola, l’irrilevanza politica (ormai cronica e irreversibile) dei 5 Stelle, e il terremoto del Centro destra (con Alfano ormai assunto a gregario e il caos di Forza Italia, un partito ormai senza più una guida politica). Sono risultati importanti. Certamente per Matteo Renzi l’elezione di Mattarella dovrà significare una maggiore prudenza nel suo cammino di riforme.
Insomma oggi la politica italiana ha dato una prova di saggezza, ne avevamo bisogno per ridare dignità e speranza all’Italia.

venerdì 30 gennaio 2015

SOTTO IL COLLE


SEBASTIANO MESSINA
La Repubblica 30 gennaio 2015
La tela di rapporti del candidato-presidente ruota nell’universo del cattolicesimo democratico e nell’ambiente accademico di Palermo. Dagli ex popolari agli amici del San Leone il mondo riservato del giudice costituzionale.
Se Sergio Mattarella fosse eletto, ai suoi traslocatori basterebbe attraversare la strada, e portare al Quirinale i mobili con cui ha arredato la sua foresteria alla Corte Costituzionale. È lì che vive, ormai, da quando – dopo la morte della moglie Marisa – ha lasciato la casa di via della Mercede e ha scelto di fare una vita monacale, andando da casa al lavoro senza neanche uscire in strada. Del resto, un viveur lui non lo è mai stato. A cena, da sempre, va con gli amici di una vita. Come il magistrato Pietro Sirena, presidente della IV sezione penale della Cassazione. Come il ginecologo Michele Ermini, suo compagno di scuola al San Leone Magno. O come l’ex presidente del Monte dei Paschi (ed ex ministro del Tesoro) Piero Barucci, che conobbe quando suo fratello Piersanti frequentava la Svimez di Pasquale Saraceno.
Qualche volta accetta gli inviti di Giuliano Amato o di Sabino Cassese, suoi colleghi alla Corte Costituzionale. Altre volte – più raramente - va a pranzo con i vecchi compagni di partito che vengono a trovarlo, a cominciare da Pierluigi Castagnetti (al quale viene attribuita la paternità dell’idea di candidarlo al Colle), ma anche Rosy Bindi (che lo ha sempre trattato come un fratello maggiore) e Rosa Russo Jervolino (collega di governo ai tempi di Goria e compagna di battaglie nel Ppi buttiglioniano).
Non ci sono più, da tempo, i vecchi amici di una volta, come Benigno Zaccagnini che gli diede il primo posto in lista, Leopoldo Elia con cui passava intere serate a discutere di diritto costituzionale, Pietro Scoppola che condivideva con lui la passione per la storia del popolarismo sturziano, o il cardinale Achille Silvestrini con cui discettava di diritto canonico.
Poi c’è Palermo. Lui si è sempre considerato un pendolare, metà siciliano e metà romano, visto che ha vissuto in Sicilia fino alle elementari e c’è tornato solo dopo l’università, come professore di diritto parlamentare alla facoltà di Giurisprudenza, in quell’Istituto di diritto pubblico diretto da Pietro Virga – intere generazioni di avvocati hanno studiato sui suoi manuali – dove alla fine degli anni Settanta insegnavano anche Leoluca Orlando, Vito Riggio e Sergio D’Antoni. Quel gruppo di giovani giuristi – cui si aggiungevano Carlo Vizzini (diritto finanziario), Giovanni Fiandaca (diritto penale) ed Enrico La Loggia (contabilità dello Stato) – a capodanno si riuniva proprio nella casa di Mattarella in via Libertà, dove puntualmente arrivavano il fratello Piersanti e la moglie, che abitavano nel palazzo di fronte. Altre volte l’appuntamento era a casa di Guido Corso, che sarebbe diventato un maestro del diritto amministrativo e che ancora oggi è uno degli amici più stretti di Mattarella. Che non sono tanti, neanche a Palermo: i più vicini sono l’avvocato Francesco Crescimanno, nel 2001 candidato sindaco del centrosinistra contro Cammarata, e Salvatore Butera, già consigliere economico di Piersanti.
Del giro della politica – sono anni che Mattarella si tiene fuori, saggiamente, dalle contorte vicende del partito in Sicilia – sono rimasti in pochi. Uno è Vito Riggio, che negli anni Settanta lo convinse ad accettare la sua prima candidatura: presidente dell’Opera universitaria. Una volta eletto, si pentì prestissimo: «Un giorno – racconta Riggio – si ritrovò assediato da una folla di studenti urlanti, uno di loro brandiva minacciosamente un grosso mestolo, e Sergio era lì in mezzo, serafico. E più quelli urlavano e più lui abbassava la voce. A un certo punto disse al più scalmanato: “Scusi, ma perché urla? Siamo qui per discutere, no?”. E quelli si calmarono di colpo».
Un altro con cui Mattarella ama discutere di politica è il catanese Giovanni Burtone, deputato del Pd e allievo di Rino Nicolosi, uno dei tre democristiani che nella primavera del 1980 lo convinsero a fare politica raccogliendo l’eredità del fratello appena assassinato dalla mafia. Poi, tre anni dopo, De Mita gli affidò le redini del partito a Palermo, sconvolgendo tutti gli equilibri delle correnti. «Quando arrivai in Sicilia – ricorda oggi l’ex segretario – mi dissero che voleva parlarmi padre Pintacuda, il gesuita che guidava il gruppo di Città per l’Uomo. Venne la mattina presto in albergo e mi disse, preoccupatissimo: “Adesso dovete proteggerlo, dopo averlo nominato!”».
La politica, certo, è stata sempre importante in casa Mattarella. Suo padre Bernardo, che si vantava di essere stato il primo a entrare in contatto con don Luigi Sturzo, esule in America, dopo lo sbarco degli Alleati, ospitava nella sua casa i big della Dc. «Papà, chi è quel signore che cammina con il rosario in mano come un prete, ma non ha il saio?» domandò una volta la figlia maggiore, Marinella. «E’ un mio amico, si chiama Giorgio La Pira» rispose il padre. A Roma, poi, i fratelli Piersanti e Sergio – che avrebbero sposato due sorelle, Irma e Marisa Chiazzese - giocavano con i figli di De Gasperi e con quelli di Moro, e qualche volta il padre invitava a cena un monsignore che avrebbe fatto strada: Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Ma la famiglia, per Mattarella, forse viene prima della politica. Ha fatto da padre ai figli di Piersanti (Bernardo e Maria) e trova sempre il tempo per giocare con i sei nipotini che gli hanno dato i suoi tre figli (Laura, Bernardo Giorgio e Francesco). E’ per loro che torna sempre a Palermo, tutti i fine settimana, anche se appena arriva va da Franco Alfonso, il mitico barbiere di via Catania: la sua chioma bianca, Mattarella se la fa tagliare solo da lui.

Matteo telefona a Silvio “Le urne se salta lui riforme anche da soli”


FRANCESCO BEI
La Repubblica 30 gennaio 2015
Stavolta nessun incontro. Per sancire lo strappo basta una telefonata. A mezzogiorno Renzi consulta Berlusconi per l’ultima volta. Il leader di Forza Italia parte in quarta chiedendo al premier di fare marcia indietro. «Vi abbiamo concesso il ballottaggio sulla legge elettorale e anche il premio di lista. Ora ci aspettiamo un uguale ascolto da parte vostra sul Quirinale». Ma per Renzi il piano del Nazareno, quello delle riforme, deve restare separato dal Colle.
Inoltre, ricorda Renzi, «nella legge elettorale ci sono cose che piacciono anche a voi: proprio il premio di maggioranza alla lista sei stato tu il primo a suggerirlo. Tutta la filosofia dell’Italicum è in linea con quello che hai sempre detto». Berlusconi, da buon venditore, cambia argomento e riattacca sul Quirinale: «Ci avevi promesso Amato e non hai rispettato il patto». «Non è vero — replica il segretario Pd — tu pensavi di impormi il vostro candidato, ma io non ti ho mai promesso niente ».
Il colloquio, riferiscono i presenti, si fa sempre più teso. I toni si accendono. È Berlusconi, amareggiato per essere finito con le spalle al muro, ad alzare il tiro. «Se voi andate avanti su Mattarella, per quanto mi riguarda tutti gli accordi sono definitivamente messi in discussione». È la minaccia più grave, quella di far saltare il patto del Nazareno e sfilarsi dal sostegno alla riforma elettorale e quella costituzionale. Sulla carta la maggioranza ci sarebbe ancora, ma il segretario sarebbe esposto a qualsiasi ricatto della minoranza interna al Pd. È un’arma finale e Renzi risponde rilanciando a modo suo. Con una minaccia altrettanto forte: «Va bene, fai pure. Per me non è un problema, io vado avanti anche senza di te». Che sia un bluff, uno sfogo o una mossa calcolata, di certo sortisce qualche effetto. Perché l’ex Cavaliere torna alla fine colomba e si lascia uno spiraglio d’uscita: «Non c’è bisogno di rompere, aspetta. rivediamoci appena torno a Roma la prossima settimana. Noi voteremo bianca anche al quarto scrutinio». Un segnale, quello della scheda bianca su Mattarella, che serve a lanciare un ponte verso l’altra sponda. Senza contare che offre (a differenza dell’uscita dall’aula) la possibilità di far giungere sottobanco alcuni voti forzisti al nuovo presidente se dovessero eventualmente mancare. Che il clima possa cambiare lo fa capire anche Matteo Orfini. A sera, in Transatlantico, confida infatti che il Pd «chiederà al centrodestra un supplemento di riflessione » su Mattarella. Francesco Bonifazi, renziano di ferro e tesorie- re Pd, conferma: «Possiamo tendere loro una mano per farli rientrare con dignità».
Alla fine di una giornata in cui il Pd sembra finalmente pacificato, è quasi di tempo di bilanci. Anche se, a palazzo Chigi, Renzi si mantiene prudente. Forse per scaramanzia, pur dichiarandosi «ottimista», con i suoi ammette che «l’elezione non è ancora in cassaforte». Certo, il Pd stavolta sembra «serio e convinto», ma che qualcuno ne approfitti per consumare le proprie vendette lo dà per scontato: «I franchi tiratori ci saranno, ma in una quota fisiologica. Non più di 40-45 e, anche senza Ncd, dovremo stare sui 530-550 voti al quarto scrutinio». Grazie forse a qualche apporto grillino e dall’Ncd. Per Renzi resterebbe un obiettivo ragguardevole quello di aver «dimezzato i franchi tiratori del 2013».
Qualcosa, sotto la superficie piatta dell’unanimità, per la verità già emerge. Tra i bersaniani si raccolgono sospetti contro i turchi che «non voteranno Mattarella perché speravano in Amato ». I turchi replicano che saranno semmai i seguaci di Bersani a smarcarsi da Mattarella «perché scontenti rispetto alla decisione del loro stesso leader di non aver fatto a Renzi il nome della Finocchiaro ». Insomma, Renzi per primo sa bene che il fuoco cova ancora sotto la cenere. Anche per questo ci tiene a far circolare un monito preciso. «Dio non voglia, se non passasse Mattarella sarebbe un bruttissimo segnale per il governo...e anche per la legislatura ». Anche per questo ieri mattina ha voluto incontrare il magistrato anticorruzione Raffaele Cantone, per far capire a tutti che un Presidente della Repubblica sarebbe comunque eletto. Magari con i voti dei cinque stelle. Ma a quel punto senza garanzie per nessuno. Un pratico Davide Zoggia, bersaniano di ferro, ieri alla buvette spiegava ad alcuni giovani deputati un dato di fatto elementare: «Mattarella non scioglie le Camere, Cantone sì. Regolatevi».
Resta il problema del rapporto nel governo con Angelino Alfano. Il leader Ncd ha iniziato a piantare un seme dentro Forza Italia in vista delle prossime elezioni, in mancanza di qualsiasi segnale di apertura da Renzi. Ma il premier, con i suoi, ribalta il ragionamento: «Possiamo anche ragionare insieme sulla prospettiva politica da qui al 20018, ma che senso ha rompere sul presidente della Repubblica? Alfano mi ha fatto due nomi, era un prendere o lasciare, non potevamo accettare ». Convinto che «Angelino » si chiami fuori «in un passaggio storico» e solo per «mettersi in scia di Berlusconi», Renzi pone un’altra domanda: «Non voteranno Mattarella per un fatto di principio. Bene. Ma se Mattarella non passa, Angelino che fa?".

PER L’EX CAVALIERE 
IL SAPORE DI UN AFFRONTO.


Corriere della Sera 30/01/15
Aldo Cazzullo
Più che un patto, si è rivelato una beffa. Il nome che il suo alleato ed erede putativo Renzi ha tirato fuori è il simbolo di quel che Berlusconi detesta di più. Da sempre l’ex premier considera gli uomini della sinistra Dc i suoi atavici nemici: quello che per loro è rigore, per lui è grigiore; quello che per loro è moralità, per lui è moralismo. Loro si chiamano cattolici democratici, lui li chiama cattocomunisti. Così Berlusconi si è sentito tradito da un governo di cui si considerava il socio di minoranza.

M entre tra gli ex comunisti Berlusconi ha spesso scelto uomini con cui dialogare — D’Alema innanzitutto, ma per qualche tempo anche Veltroni —, i cattolici di sinistra sono da sempre in conflitto con i suoi referenti politici, fin da prima della discesa in campo: dorotei e socialisti. E loro non hanno mai nascosto di provare nei suoi confronti una distanza antropologica prima che politica.

Sergio Mattarella non è soltanto il ministro che si dimette perché Andreotti ha posto la fiducia sulla legge Mammì, che salvaguarda il monopolio di Arcore sulle tv private; è il dirigente del Partito popolare europeo che definisce «un incubo irrazionale» l’ingresso di Forza Italia nel Ppe, appoggiato dallo stesso Kohl.

La sobrietà del personaggio agli occhi di Berlusconi diventa noia; la sua passione per la giustizia, giustizialismo. Quel che per l’uno è una virtù, per l’altro è un vizio. Per questo, e non soltanto perché ieri mattina l’ha trattato male al telefono, Berlusconi è davvero risentito con Renzi. Che ha tenuto insieme il Pd e individuato una figura moralmente inattaccabile che difficilmente gli farà ombra, almeno dal punto di vista mediatico. Ma ha capovolto lo schema con cui aveva governato per un anno, in sostanziale accordo con Forza Italia.

Enrico Letta, ieri insolitamente loquace, si augurava che l’ex Cavaliere ci ripensasse, e finisse per sostenere o almeno non ostacolare Mattarella: «La legge Mammì è storia di venticinque anni fa. Anch’io vengo dalla sinistra Dc; eppure Berlusconi ha votato il mio governo. Fare politica significa cambiare. Dicono che Mattarella alla Corte costituzionale si è sempre opposto alle istanze di Berlusconi? E come fanno a dirlo? I giudici costituzionali si esprimono in segreto». Un ripensamento in effetti è sempre possibile, sollecitato da Confalonieri e Gianni Letta, oltre che dai centristi affezionati ai loro posti di governo e preoccupati da una rottura con Renzi. Ma Berlusconi dovrebbe davvero far violenza a se stesso.

Non è affatto detto che, se salirà al Colle, Mattarella si rivelerà un presidente apertamente ostile all’ex premier, come Scalfaro (che non veniva dalla sinistra Dc). Il processo che preoccupa di più Berlusconi è quello sulla compravendita dei senatori, dove non ci sono «olgettine» che negano, ma un parlamentare, Sergio De Gregorio, che sostiene di aver ricevuto denaro in cambio del passaggio da sinistra a destra, dalla risicata maggioranza di Prodi (lui sì ex dc di sinistra) all’opposizione. In caso di condanna, un gesto di clemenza proveniente dalla parte lesa sarebbe più praticabile e utile per Berlusconi di un impossibile salvacondotto generale.

Si apre uno scenario lungo sette anni, in cui gli umori e le attitudini del Quirinale, di Palazzo Grazioli e di Palazzo Chigi possono incrociarsi ed evolvere in modi oggi imprevedibili. Resta il fatto che oggi Berlusconi si è sentito tradito dall’uomo che percepiva come il proprio autentico erede politico. È probabile che i due facciano pace. Renzi se lo augura, anche perché — a differenza di Scalfaro, di Prodi, di Fini e di altri — non ha ancora sperimentato cosa significa avere contro la macchina editoriale berlusconiana.




LA SCELTA E LO STRAPPO.


Corriere della Sera 30/01/15
Massimo Franco
C’è già chi parla malignamente di rivincita della Prima Repubblica e della Democrazia cristiana. Ma se domani Sergio Mattarella sarà eletto capo dello Stato, la vulgata dovrà essere corretta; meglio, riequilibrata. La sua designazione da parte di Matteo Renzi suggerisce semmai una lettura meno manichea e ideologica del passato; e permette di rivisitarlo con un senso della storia meno influenzato dai luoghi comuni: Mattarella incarna ciò che di meglio ha espresso quella stagione moderata della politica italiana. Le sorprese sono sempre possibili: il Pd è maestro di lotte fratricide, come dimostra la competizione di circa due anni fa che approdò alla conferma di Giorgio Napolitano.

Ma la logica porterebbe a dire che il segretario-premier è riuscito a trovare un profilo insieme alto e condivisibile dall’intero partito, e non solo. Mattarella è una personalità agli antipodi rispetto a Renzi, eppure proprio questo rappresenta un elemento di merito per chi lo ha proposto. Si dirà che ha prevalso l’esigenza di tenere unito il Pd. E questo c’è: sarà essenziale per centrare il risultato e non aprire giochi al buio. Non a caso, il ruolo di ricucitura di Pier Luigi Bersani può risultare decisivo per arginare i franchi tiratori. Se regge l’intesa, l’abilità renziana va sottolineata. Rimane da capire il ruolo che il centrodestra si assegna.


P er ora bisogna prendere atto del rifiuto, apparentemente perentorio, di Forza Italia e Ncd di avallare il candidato del Pd, gridando alla violazione dei patti. Tuttavia si tratta di un «no» che va decifrato e tarato su quanto accadrà nelle prossime ore. Regalare Mattarella non al Pd ma ad una maggioranza di sinistra non sarebbe un capolavoro di strategia. Idem, in caso di nulla di fatto, aprire una sorta di lotteria, coda fedele e avvelenata di quel toto Quirinale che ha creato troppe aspettative e dunque troppe frustrazioni; per poi magari ritrovarsi una candidatura ben più sgradita.

La sensazione è che Silvio Berlusconi e Angelino Alfano resistano all’idea di appoggiare Mattarella soprattutto perché ritengono di avere subìto uno sgarbo; e perché vogliono risultare determinanti, non aggiuntivi. Insomma, rivendicano una versione paritaria del patto del Nazareno, di fronte al metodo brusco di un Renzi che addita e non concorda una soluzione; e ora sono tentati di disdirlo, scottati da una mossa imprevista e spregiudicata. È un’operazione azzardata, però. E lascia altrettanto perplessi l’orientamento, non ancora definitivo, di Alfano di non votare Mattarella alla quarta votazione. Un’opzione del genere inserirebbe un cuneo non tanto nella scelta del presidente della Repubblica quanto nella maggioranza di governo e nel processo di riforme.

Il Nuovo centrodestra ha appena votato col Pd e con FI quella elettorale. Evidentemente, ora non vuole regalare al premier l’aureola del vincitore. Il problema è se, per conseguire l’obiettivo, i critici di Renzi non finiranno per risultare ancora più perdenti. Dovrebbe suggerire qualcosa il modo in cui Lega e Movimento 5 Stelle attaccano da versanti opposti la candidatura di Mattarella. Ieri, dopo la prima votazione, nella quale occorreva la maggioranza qualificata di due terzi dei consensi, le schede bianche sono state 538: moltissime, come previsto; e oggi dovrebbe essere più o meno lo stesso. Si vedrà presto se mascherano giochi ancora coperti, o, come è più probabile, giochi ormai fatti.

giovedì 29 gennaio 2015

Il giudice dei ministri ai pm:
procedete su Tremonti.


Corriere della Sera 28/01/15
L. Fer.
Il collegio milanese del Tribunale dei ministri trasmette gli atti e ordina al procuratore Edmondo Bruti Liberati di chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere contro l’ex ministro dell’Economia e attuale senatore Giulio Tremonti per l’ipotesi di corruzione, legata a una tangente da 2,4 milioni di euro che nel marzo 2009 il tributarista allora ministro nel governo Berlusconi avrebbe incassato da Finmeccanica (controllata dal Tesoro) in cambio dell’ammorbidimento della sua iniziale contrarietà al controverso e stratosferico acquisto per 3,4 miliardi di euro nel luglio 2008 della società statunitense «Drs», fornitrice del Pentagono.

La tangente sarebbe stata veicolata dietro lo schermo di una parcella professionale liquidata da Finmeccanica (a saldo di una apparente consulenza sui profili fiscali appunto dell’acquisizione) allo studio tributaristico «Vitali Romagnoli Piccardi & Associati», dal quale il fondatore Tremonti era formalmente uscito essendo divenuto ministro, e di cui oggi è di nuovo socio. Nell’ipotesi a concorso necessario, figurano coindagati uno dei soci di studio di Tremonti, Enrico Vitali, l’ex presidente di Finmeccanica 2002-2011 Pierfrancesco Guarguaglini, e l’ex direttore finanziario Alessandro Pansa.

Il 30 ottobre scorso erano stati i pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi ad attivare su Tremonti (eletto nel 2103 in Senato per la «Lista Lavoro e Libertà per la Patria» in accordo elettorale con la Lega, e poi aderente al gruppo parlamentare «Grandi Autonomie e Libertà») la speciale procedura prevista per ipotesi di reati ministeriali. Il Tribunale dei ministri — composto dal presidente di sezione civile del Tribunale di Como, Paolo Negri Della Torre, dal capo dei gip monzesi Alfredo De Lillo, e dal giudice del lavoro milanese Stefano Tarantola — per svolgere la propria istruttoria aveva 90 giorni, che sarebbero scaduti dopodomani. E ieri, dopo aver lavorato sottotraccia in questi tre mesi (tanto che è sfuggito anche l’interrogatorio di Tremonti), il collegio si è convinto che l’ex ministro vada processato. E perciò, invece di archiviare con decreto non impugnabile, ha trasmesso una relazione motivata al procuratore affinché chieda l’autorizzazione a procedere al Senato. Che a maggioranza assoluta potrà o concedere l’autorizzazione, o negarla se dovesse reputare con valutazione insindacabile che Tremonti abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nella funzione di governo.

«Mai ho chiesto o sollecitato nulla e in nessun modo da Finmeccanica», è la linea di Tremonti, che nel 2014 ha patteggiato a Roma un finanziamento illecito: «Prima di entrare nel governo l’8 maggio 2008, sono uscito dallo studio dove sono rientrato solo nel 2012, un anno dopo la fine del governo come prescrive la legge. Durante, ho interrotto tutti i rapporti. Per la sua dinamica irreversibile e per la natura internazionale, l’operazione Drs, iniziata nell’ottobre 2007 e conclusa il 12 maggio 2008, non era da parte mia né influenzabile, né modificabile, né strumentalizzabile».




La trattativa attorno a tre nomi
 E le tensioni con Berlusconi.

Corriere della Sera 28/01/15
corriere.it
È stallo. Nel gioco dei veti incrociati la trattativa sul Quirinale si arena. Il premier dovrà cercare di uscire oggi dalle difficoltà: decisivi saranno gli incontri con Bersani stamattina e con Berlusconi a pranzo. Per il leader del Pd la partita ruota attorno a tre quirinabili: «Amato, Mattarella e Padoan». Per ora sono questi i nomi su cui si concentra la mediazione. Ma proprio su questi tre nomi i kingmaker non riescono a mettersi d’accordo. Il premier si oppone all’ex braccio destro di Craxi: «Non posso accettare che mi venga imposta la candidatura di Amato sulla quale c’è già l’accordo tra Berlusconi e D’Alema». È il segno che Renzi sta cercando di bloccare un’operazione parallela e ostile al suo disegno.

Perciò proverà a rompere l’assedio cercando di convincere l’ex Cavaliere a cambiare verso, e partirà dal nome di Mattarella per verificare se ci saranno poi margini per altre soluzioni. Sarà solo la mossa di apertura ma si capisce che Renzi è ancora intrappolato nel gioco della rosa dei nomi, con le quotazioni dei candidati che variano ogni giorno. L’attenzione ieri si è concentrata su Finocchiaro, che la Lega sostiene in un’evidente manovra d’interdizione, per tentare cioè di rompere l’asse tra Renzi e Berlusconi. Non è chiaro in che modo il premier pensi di trovare un’intesa con il leader di Forza Italia, che da giorni gli fa sapere di essere indisponibile a votare per un candidato di area Pci—Pds—Ds-Pd. Dopo aver sostenuto le riforme e la legge elettorale, Berlusconi chiede un dividendo politico sul nome del prossimo capo dello Stato e non gradisce la lista che gli viene offerta. Non è un caso se persino Verdini, il più filorenziano in Forza Italia, sposa la linea del capo, chiede a Palazzo Chigi segnali di apertura, ed è critico con il premier: «A tutto c’è un limite».

«Sono stretto tra tecnici, comunisti e cattocomunisti», si lamenta il Cavaliere, che ieri è andato su tutte le furie dopo la dichiarazione del ministro Boschi, lieta che l'Italicum fosse passato «con i voti della maggioranza». L’idea di una «autosufficienza» del governo sul nuovo sistema elettorale gli è parsa come un avvertimento di Renzi in vista della corsa al Colle. E per certi versi è così: «Berlusconi sta tirando la corda — sostiene Renzi — ma non conviene nemmeno a lui romperla». Questo clima testimonia del muro contro muro tra il segretario del Pd e il capo degli azzurri, che in questa partita gioca all’unisono con Alfano.

L’asse tra Berlusconi e il leader di Area popolare sembra resistere. E agli amici di partito che continuano a dubitare dell’ex Cavaliere, il presidente di Ncd oppone una granitica sicurezza: «Tiene, il dottore tiene». Per questo ieri Alfano si è incaricato di tagliare la strada all’ipotesi Padoan, sostenendo che «il successore di Napolitano dovrà essere un politico, non un tecnico». Se l’opzione Amato è invisa a Renzi, Padoan era (e per certi versi ancora resta) il candidato su cui puntava (e punta) il presidente del Consiglio, perché la sua ascesa al Colle gli garantirebbe un doppio successo: controllare contemporaneamente il Quirinale e il ministero dell’Economia, da affidare a un fedelissimo.

Renzi però non può pensare di stravincere con i voti altrui, cioè con i voti di Berlusconi e di Alfano. Ma nemmeno con quelli di Bersani, che ha in mente una griglia di candidature: nella prima fascia si trovano Amato e Mattarella, ai quali darebbe il proprio consenso; nella seconda fascia ci sono i vari esponenti del Pd, che — in competizione tra loro — rischierebbero di dividere ulteriormente il partito; nell’ultima fascia c’è proprio il titolare dell’Economia, contro cui la minoranza interna esprimerebbe un pubblico dissenso, con effetti drammatici nella «ditta».

Ecco il pericolo che Renzi vuole scongiurare, per questo cercherà un appeasement oggi con Bersani: «Voglio fare un lavoro di coinvolgimento, che è l’unico modo per portare a casa il risultato senza spaccare il Pd». Non si capisce però come mai non abbia abbassato prima la tensione. O forse è chiaro. Il premier confidava in una sorta di caos ordinato dal quale trarre vantaggio per raggiungere l’obiettivo all’ultimo momento, giusto per non smentire il soprannome che gli hanno affibbiato in Consiglio dei ministri: «Last minute».

Il rischio ora è di dover trovare davvero «last minute» una soluzione, che nelle trattative per il Colle non è mai un buon viatico. Però è questa la prospettiva, se oggi non riuscisse a stringere un’intesa con Berlusconi e Bersani. Lo si capisce dal modo in cui il premier ieri ha avvisato i suoi interlocutori nei colloqui al Nazareno: «Sia chiaro, se non si arriva all’elezione del presidente della Repubblica entro la quinta votazione, dalla sesta saremmo liberi tutti». Una minaccia o un segno di difficolta? Il fatto è che il premier ha adottato diversi tipi di approccio nelle consultazioni. E se per un verso ha rassicurato la delegazione di Forza Italia, sostenendo che «non aprirò un altro forno con i grillini», per un altro ha messo sull’avviso i compagni di Sel: «Preparatevi, perché i vostri voti potrebbero diventare indispensabili».

Tre nomi e altrettanti veti. Come se nella sfida per il Colle mancasse ancora il vero quirinabile. O forse questa è la speranza di Renzi, che nonostante le difficoltà ieri spiegava agli alleati la strategia di comunicazione che ha in mente: «Se la scelta cadrà su un candidato popolare, che ci farà conquistare punti nei sondaggi, annuncerò il suo nome giovedì. Altrimenti lo farò venerdì». «Allora ci vediamo venerdì», si è sentito rispondere...


«Atene resterà nell’euro
Italia, ancora flessibilità».


Corriere della Sera 28/01/15
Luigi Offeddu
«Il 2015 sarà l’anno della ripresa in Europa. Ma se non agiamo insieme, sarà troppo lenta, e debole. Perciò concentriamo tutti le nostre energie. Con i piani Juncker e Draghi, con le riforme strutturali e il consolidamento dei bilanci pubblici, possiamo sperare. Ma i soldi non pioveranno dal cielo: dobbiamo agire di più, tutti». Pierre Moscovici, francese, è il commissario europeo agli Affari economici e finanziari, alla tassazione e alle dogane. E come tutti, guarda preoccupato a un’Unione Europea presa in contropiede dalla cronaca di queste ore. L’Eurogruppo e l’Ecofin, i consigli dei ministri delle Finanze dell’Eurozona e dell’Ue, si sono appena conclusi con molti auspici sul futuro della Grecia di Alexis Tsipras, ma poche indicazioni concrete su come affrontare la sua nuova realtà.

Domanda di sempre: la Grecia resterà nell’euro?

«La Grecia ha la capacità di creare lavoro, di ripagare i suoi debiti. E non mostra segni di instabilità. Il suo posto resterà nell’Eurozona. Affronteremo in modo chiaro con Alexis Tsipras la questione del debito. La domanda non è: “Dove vuoi andare?”. Ma: “Come vuoi andarci?”».

State già negoziando con Atene?

«No. I colloqui inizieranno. Aspettiamo che il governo greco esprima la sua volontà, che dica come rispetterà i suoi impegni, che la sua maggioranza esprima chiare decisioni. Ci congratuleremo con Tsipras e i suoi ministri (cosa avvenuta nelle ultime ore, ndr ). Affronteremo insieme le sfide verso obiettivi che sono comuni».

Tutti o quasi, a Berlino e altrove, anche se con diverse sfumature, escludono recisamente una cancellazione o riduzione del debito greco. Ma una sua diluizione nel tempo, di cui pure si continua a discutere?

«Non è oggi il giorno per parlarne, è davvero troppo presto».

Lei parla di impegni che Atene deve rispettare, sul deficit e sul debito. Ma altri, nell’Eurozona, devono fare la stessa cosa: per esempio la Francia, l’Italia...

«Loro però non si trovano nella stessa posizione. La Grecia è sottoposta al programma di aggiustamento di bilancio e dell’economia finanziato da eurozona e Fmi, l’Italia si trova nel cosiddetto braccio preventivo del Patto di stabilità, la Francia in quello correttivo…E tutti questi Paesi devono completare le riforme strutturali».

Pier Carlo Padoan, ministro italiano dell’Economia, dice che senza flessibilità non ci sono riforme.

«Il ministro Padoan lo sa bene: noi non vogliamo cambiare le regole del Patto di stabilità, ma interpretarle. Non vogliamo un cambiamento globale, e però un cambiamento tattico sì: vogliamo usare lo spazio di manovra — non disprezzabile — che c’è in esse. Così da introdurre poi un reale livello di flessibilità per i Paesi in difficoltà. Abbiamo concordato che per tutti i Paesi dobbiamo tener conto delle condizioni cicliche, dei tempi buoni e di quelli cattivi. Detto in altre parole: all’Italia sarà richiesto un aggiustamento strutturale del saldo di bilancio 2015 dello 0,25% invece che dello 0,5%, fino a quando vi saranno difficoltà».

Fra un mese o poco più, a marzo, la Commissione Europea esprimerà il suo giudizio sul piano italiano di stabilità. E naturalmente, niente anticipazioni.

«Naturalmente no. L’Italia deve andare avanti con la riforma del lavoro e con le altre riforme strutturali, con gli sforzi intelligenti per ridurre il deficit e il debito».

Nel frattempo, c’è un altro faro verso cui molti guardano speranzosi: la Bce guidata da Mario Draghi, che ha iniziato le sue operazioni di salvataggio acquistando i titoli di Stato di vari Paesi, e così iniettando liquidità nei mercati finanziari…

«Sì. Ma nessun Paese creda che aver più ambizioni nella politica monetaria possa essere la scusa per non fare le riforme strutturali. La nostra prospettiva di ripresa è sempre la stessa: consolidamento dei bilanci, cioè riduzione di debito e deficit con più flessibilità; riforme strutturali; contrasto alla deflazione, cioè riportare l’inflazione ai livelli fissati dalla Bce».

E il piano Juncker con i suoi auspicati 315 miliardi di investimenti produttivi nel giro di tre anni?

«Realizzerà la nostra ambizione di ridurre il divario di competitività con altri Paesi al di fuori dell’Europa. Aiuterà la crescita interna, e anche questo è stato spiegato con molta precisione: se un Paese vorrà investire dei soldi nel piano Juncker, questi non saranno conteggiati nel calcolo del deficit. Ripeto: il 2015 dovrà essere l’anno della ripresa, ma i soldi non pioveranno dal cielo».




mercoledì 28 gennaio 2015

Le yazide fuggite dai campi dell’Isis 
che rifiutano i figli dello stupro.


Corriere della Sera 27/01/15
corriere.it
DOHUQ (Iraq settentrionale)

E adesso? Cosa faranno adesso le donne yazide rimaste incinte dei loro violentatori tra i jihadisti dello Stato Islamico? «Abbiamo già abortito, o lo faremo subito. Meglio morire, che avere i figli dei terroristi», dicono quelle che abbiamo incontrato negli ultimi giorni tra Dohuq, Zakho e i grandi campi profughi allestiti di fretta dai primi di agosto nelle regioni curde irachene.

Tra loro Hana Ali Haji, 25 anni, originaria del villaggio di Al Kojo, catturata il tre agosto e fuggita dai rapitori a fine dicembre, ha preso la «pillola del giorno dopo» due settimane fa. «I medici qui a Dohuq mi hanno detto che ero incinta di già oltre tre mesi. Era troppo tardi. Non ci ho pensato sopra due volte e ho abortito immediatamente, nonostante le possibili complicazioni mediche. L’uomo che mi ha violentata di più, tra altri quattro, si chiamava originariamente Alexander, un kazako cristiano 37enne convertito all’Islam col nome di Abdullah. Non ci picchiava come invece in genere fanno gli uomini iracheni. Però diceva che voleva un figlio maschio da me per educare una nuova generazione di combattenti della guerra santa. Sono tanti a pensarla come lui tra i volontari stranieri di Isis», aggiunge.

Le sue parole aprono spaccati nuovi sul mondo a noi così prossimo, eppure tanto remoto, del Califfato: davvero i pirati-guerriglieri con le schiave yazide (tutte rigorosamente convertite di forza) intendono creare una sorta di nuova «razza eletta» alla jihad? In questo caso l’aborto sarebbe il colmo della ribellione, l’estrema vendetta delle donne contro chi le ha violate. «Io non sono rimasta incinta. Ma se fosse avvenuto, non avrei esitato a impiccarmi o tagliarmi le vene, come hanno fatto tante altre ragazze sin dai primi giorni in quell’inferno», racconta Fakria Badal Halaf, 18 anni, violata dal tre agosto sino alla sua fuga rocambolesca a fine ottobre da un solo uomo.

Lei se lo ricorda benissimo. Dice: «Il suo nome di battaglia è Arkan, oppure Abu Sarkhan, ha 35 anni, è un sunnita di Mosul. Mi diceva che se fossi stata carina con lui non mi avrebbe passato ad altri, come è la regola tra loro. Ogni volta che noi abbiamo le mestruazioni si prendono una pausa e cercano di venderci ad altri gruppi. Ma lui mi ha tenuta. Diceva di non avere altre donne. Però ho scoperto che era sposato con due figli di uno e tre anni. Allora mi ha portato da sua moglie Sabrina, 21enne. Lei è andata su tutte le furie. Lo ha aggredito, mi ha dato della prostituta. Ma quando le ho spiegato che ero stata presa con la forza siamo diventate amiche, ha vietato ad Arkan di toccarmi, poi mi ha prestato il suo telefonino. Ho chiamato il mio fidanzato a Dohuq e segretamente abbiamo architettato la mia fuga. Ora lui dice che mi sposerà anche se non sono più vergine».

La sorte relativamente fortunata toccata a Fakria appare comunque un’eccezione nella tragedia corale delle yazide. «Quelle rimaste schiave sessuali di Isis sono in maggioranza giovani, spesso di età compresa tra i 12 e 25 anni. Quante? Non sappiamo con precisione, per ora abbiamo la documentazione di 1.582 rapite, ma potrebbero essere anche il doppio, stimiamo che il 90 per cento sia stato violentato. In questa fascia di età è plausibile pensare che tante possano essere incinte», dice Marzio Babille, rappresentante Unicef (l’agenzia Onu per l’infanzia) in Iraq. Un fenomeno che ricorda da vicino le bosniache violentate dai serbi due decenni fa, il dramma del Kosovo, le violenze in Congo, Uganda, Sudan, Niger.

Anche per le vittime di Isis i tabù sociali restano giganteschi. «Eravamo in sette prigioniere della stessa banda di ceceni. Io e un’altra abbiamo organizzato la fuga da Raqqa, in Siria, durante un bombardamento americano a fine novembre. Quei bombardamenti sono la manna. I terroristi sono presi dal panico ogni volta, scappano da tutte le parti e si dimenticano di noi. Le nostre cinque compagne però sono rimaste, dicendo che tanto le famiglie, i mariti o i fidanzati, le avrebbero rinnegate. Una aveva paura di essere uccisa dal padre per aver perduto la verginità», ricorda Wadha Ismahil, 27 anni, del villaggio di Al Jazera, presso la montagna di Sinjar. Continua: «A Raqqa c’è una ginecologa a cui chiediamo aiuto per abortire. Ma lei ha paura, dice che se lo facesse la ucciderebbero».

Per le giovani che sono riuscite a scappare o sono state «riscattate» dalle famiglie (i prezzi variano tra 200 e 2.000 dollari) i problemi non sono finiti. Ancora l’Unicef calcola che da agosto ad oggi siano meno di 600 tra donne e bambini. «Alcune si sono suicidate dopo il ritorno. Nella sola regione di Dohuq le donne incinte a opera dei terroristi dell’Isis sono almeno una ventina. La legge irachena vieta l’aborto, vorremmo creare un centro medico di assistenza», afferma Cheman Rasheed, responsabile dell’organizzazione non governativa «Wadi», finanziata anche dal governo tedesco. Un aiuto potrebbe venire da un centro di accoglienza. A questo fine il governo italiano ha appena stanziato un milione di euro, indirizzato per lo più ai profughi yazidi, di cui la metà per l’assistenza alle donne violentate. «Stiamo pensando a una casa rifugio e all’eventualità di un breve soggiorno curativo in Italia per i casi più gravi», dicono alla Farnesina.

Casi che non mancano. Per esempio Huda, una dodicenne venduta a Mosul, rivenduta a Raqqa, riuscita a scappare in Turchia con altre, che è diventata muta e trema come una foglia quando sente parlare arabo, o vede un uomo con la «barba lunga». Le donne del campo profughi di Bersev, presso Zakho, si passano il numero di un medico americano arrivato di recente, che sarebbe pronto a ricostruire la verginità. Le organizzazioni tradizionali yazide paiono poco attrezzate per l’emergenza. A Lalish, il loro centro spirituale sulle montagne a nord di Dohuq, abbiamo assistito al battesimo yazida di alcuni anziani e bambini che erano stati costretti a farsi musulmani. E non manca la voglia di vendicarsi. La storia di Sabrin, una diciassettenne che ha raccontato di aver ucciso il violentatore saudita col suo mitra mentre dormiva, aleggia come un mito tra i profughi.

Eppure, su tutto dominano dolore e sofferenza. Incubi notturni, insonnia, solitudine, fobie da stress. Ancora Hana, la ragazza che ha appena abortito, singhiozza apertamente nel ricordare quegli orrori. Con lei c’è anche la sorella 21enne Sana, a sua volta violentata. Padre, madre e due fratelli sono ancora tra i desaparecidos. Come lo è anche Adia, la terza sorella diciottenne rimasta prigioniera del suo violentatore, il 45enne Haider Karim, che Hana chiama «il russo».

Ricorda: «I terroristi vivono in gruppi di cinque o dieci uomini. E si passano più volte le più belle tra noi. Hadia piaceva a Karim, che era il capo e se la teneva per sé. Esigeva però che lei mostrasse piacere mentre la prendeva. Lei invece lo insultava. Allora lui la torturava. Ho visto che la puniva con scariche elettriche ai capezzoli. La teneva con le mani legate dietro la schiena anche per dieci giorni». L’intervista termina qui. Lei piange ed è davvero inutile insistere.

lunedì 26 gennaio 2015

Alexis il rosso o borghese figlio di papà? 
L’ex studente ribelle sceglie Robin Hood.


Corriere della Sera 26/01/15
andrea nicastro
I politici, direbbe Forrest Gump, sono come i cioccolatini: puoi vedere la carta che li avvolge, ma non sai mai quello che troverai dentro. 

La carta che sta attorno allo spauracchio d’Europa, Alexis Tsipras, il trionfatore del voto greco, lascia pochi dubbi: è da bandiera rossa trionferà. Invece dei crocefissi e delle icone ortodosse, negli uffici del partito sono appesi i ritratti di Rosa Luxemburg e Karl Marx. C’è la faccia di Che Guevara sulle magliette, sugli striscioni, sui manifesti. C’è l’arcobaleno dei movimenti no global, ecologisti, libertari e pacifisti cresciuti negli anni 90 orfani del comunismo reale. Dal packaging manca completamente la falce e martello, ma solo perché è rimasta in dote al Kke, il Partito comunista greco convinto che sotto l’involucro di Syriza sia nascosto un Tsipras appena appena socialdemocratico oppure, come l’hanno attaccato nei comizi, «uno venduto alla finanza internazionale».

 Tsipras è dal 2008 presidente di una coalizione di estrema sinistra (Syriza) che prima della sua leadership viaggiava attorno al 2% e che poi, con il giovanotto alla testa, è cresciuta di voto in voto. L’anno dopo era già al 5%, nel 2012 al 16%, nel 2014 al 26%, oggi appena sotto al 40%. L’armamentario del partito è rimasto identico, ma il nuovo presidente era evidentemente qualcosa di meglio. Nel modo di parlare, di vestire, di stare in tv, di affrontare uno alla volta gli obbiettivi politici e convincere tutti i compagni a perseguirli. Oppure ad andarsene. Tsipras ha cacciato dal partito tanti concorrenti, fondatori, ex mentori, mantenendo sempre la leadership a forza di carisma e vittorie.

 A guardarlo non pare un rivoluzionario, semmai un radical chic. Un po’ di gommina sui capelli, golf e giubbotti Burberry. La cravatta mai, come un feticcio al contrario. L’ha anche promesso: «Ne metterò una solo alla cerimonia per la cancellazione del debito pubblico». Una cravatta per 320 miliardi sarebbe un affare, certo più conveniente del suo unico vizio conosciuto, il parrucchiere in piazza Kolonaki, la più chic di Atene, dove taglio e shampoo costano 60 euro.

Chi c’è sotto la carta? Probabilmente il primo esemplare di una nuova specie politica, quella dei Robin Hood della nuova Europa impoverita e cinesizzata. E’ un figlio borghese che non riesce ad accettare che democrazia non faccia più rima con benessere. Che Europa non significhi più diritti umani e accoglienza per gli immigrati. Che qualcuno stia male e non ci sia un ospedale per curarlo. Magari ha ragione lui, magari no. Ma ci sta provando. E i greci con lui. Restare nell’euro, per Tsipras, vuol dire restare in una cornice di valori che comprende la democrazia, la sanità pubblica, l’educazione e anche le pari opportunità. Non può solo voler dire 2,5 di avanzo primario e spread sostenibile.

 Ha 40 anni, è ingegnere civile con master in urbanistica. Scuole pubbliche, laiche e solo greche. Inglese imparato da adulto, non ancora fluido, nonostante i corsi intensivi dell’ultimo anno. Anche il padre era ingegnere, imprenditore edile. C’è qualche chiacchiera su di lui perché riusciva a lavorare anche con il regime dei colonnelli. Si è parlato di una zia di Alexis sposata al numero due della dittatura. «Famiglia progressista — taglia corto Alexis — certamente non comunista». Uno che non ha mai lavorato in vita sua, che fa il rivoluzionario con i soldi di papà, lo accusano gli avversari.

Dora Antoniu, giornalista di Kathimerini , sostiene che Alexis sia una sorta di replicante. «Gesticola e si muove come il vecchio Papandreu (l’ex onnipotente leader dei socialisti greci degli anni 70, ndr ). Pian piano ha imparato persino ad usare il suo tono di voce». Per tanti elettori centristi umiliati dalla Crisi essere un «nuovo Papandreu» non è un insulto, ma un complimento. Al contrario, per l’anima di sinistra-sinistra di Syriza suona terribile.

 Fino a ieri è stato questo il suo merito principale: dire cose che non aveva mai detto nessuno — tipo non pagare i debiti — e allo stesso tempo restare nell’euro, con il sorriso del bravo ragazzo stampato in viso. Credibile e confortante. Come quando prendeva il traghetto per Bari, per andare alle manifestazioni no global in Italia. Giovane, spavaldo, con la sicurezza che anche facendo qualche mattana non gli sarebbe successo nulla di grave. Infatti fu espulso e rimesso sul traghetto. 

È nato nel ’74, quando in Grecia è tornata la democrazia. Il suo è il mondo delle garanzie, delle sicurezze. Gli studenti fanno gli studenti: protestano, occupano, gridano. I poliziotti fanno i poliziotti: sgomberano, caricano, ma in fondo di Genova ce n’è stata solo una. Di solito non muore nessuno e dopo la manifestazione si va tutti assieme a guardare la partita. Perché Tsipras dovrebbe pensare che a Bruxelles o a Francoforte il mondo dovrebbe essere diverso? I greci hanno fame. Non è giusto, non è «democratico», quindi qualcuno li ascolterà. Basterà protestare, farsi sentire, come ai tempi delle occupazioni studentesche. 

«La speranza sta arrivando» è stato lo slogan della sua campagna elettorale. La Grecia ne aveva bisogno, come aveva bisogno di qualcuno che unisse rivoluzione e stabilità. «In Grecia e in Europa con la fine dell’austerità tornerà la democrazia». E’ un riflesso condizionato, un contorcimento semantico. Democrazia significa benessere. Europa significa giustizia. Per vincere le elezioni ha funzionato.




Spiazzati i tifosi italiani di Syriza 
Il loro idolo guarda al rottamatore.


Corriere della Sera 26/01/15
Marco Cremonesi
La battuta migliore, di sicuro, è di Pippo Civati: «Ma guardate che sarà Matteo Renzi, da domani mattina, a farsi chiamare con la ts: Rentsi». La domenica del trionfo di Alexis Tsipras, nella sinistra nazionale si era aperta con una piccola fibrillazione. Il leader di Syriza, in una chiacchierata con Il Messaggero , aveva raccontato che, pur non conoscendo direttamente Matteo Renzi, i rispettivi staff hanno già preso contatti. E, soprattutto, che la loro «sintonia è naturale» visto che l’obiettivo è quello di «cambiare verso all’Europa, perché l’austerità sta strangolando tutti». Inoltre, il vincitore delle elezioni di Atene nel colloquio annuncia che conoscerà Renzi «molto presto e avremo tanto di cui parlare». Perché «la pensiamo alla stessa maniera sulla necessità dello sviluppo e sull’uscita dal rigore alla tedesca che sta danneggiando tutti».

Insomma, come minimo un’ampia apertura di credito al premier italiano. Ma, forse, una piccola stretta al cuore per i molti fan italiani del leader greco, che raramente coincidono con i sostenitori del premier. E così, dopo la battuta, è lo stesso Civati a commentare l’uscita di Tsipras. Senza scomporsi granché: perché sarebbe lo stesso capo di Syriza, «che nel libro intervista di Teodoro Andreadis Synghellakis parla di Renzi come di una personalità scissa tra una politica a livello europeo, che lui condivide, e una politica interna assolutamente legata agli schemi della troika». Per quanto lo riguarda, Civati non si scandalizza: «Se Renzi e Tsipras collaborano, sono contento, mica sono matto. Se poi Renzi volesse collaborare anche con noi... ».

 Luciana Castellina, storica firma del Manifesto , è addirittura andata ad Atene per attendere il responso delle urne elleniche. E di sintonie tra Tsipras e Renzi ne vede «pochissime, quasi su niente. Direi nessuna».
Semplicemente, il leader greco «ha bisogno di dire che in Europa non è isolato, e che esiste un problema comune di Paesi come Spagna, Portogallo, Italia e Grecia. Non c’è nulla più di questo».

Per molti, in Italia, la vittoria di Syriza alle elezioni greche sarà, al contrario, una sfida internazionale più severa proprio per Renzi. Così è, per esempio, per il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero. Che non trova nulla da eccepire nell’apertura a Renzi: «Tsipras ha vinto con un programma di cambio radicale e anti liberista. E oggi lui e la sua vittoria sfidano tutti coloro che hanno criticato l’austerity a fare qualcosa di concreto». Insomma, il problema sarà del premier italiano: «È stata smentita la grande menzogna di questi anni secondo cui non si può fare niente contro certe politiche. E invece, ci sono Paesi che credono che certe scelte non sono affatto obbligate. Un paio d’anni fa il voto per Syriza era ancora di protesta. Ora è un’altra cosa: è la consapevolezza che se andiamo avanti così, si distrugge tutto. E le risorse è meglio metterle in basso, tra le persone, anziché in alto». Il tema della sfida per Renzi è ripreso anche da Massimiliano Smeriglio, vicepresidente del Lazio (Sel): «Renzi e Tsipras? La verità è che questa vittoria cambia completamente gli equilibri in Europa. E che Tsipras cerchi di costruire un fronte dell’Europa mediterranea contro quella carolingia mi sembra naturale». E dunque, la palla torna a Renzi: «Il tempo dei giochi di prestigio tra dichiarazioni anti austerità e ossequio alla troika è scaduto». Nicola Fratoianni è il coordinatore nazionale di Sel. E scoppia a ridere: «La posizione di Tsipras? Mi pare ovvia. E la dimostrazione del fatto che sia un leader di grande lucidità che si pone il tema delle relazioni internazionali». Detto questo, l’esponente di Sinistra, ecologia e libertà ricorda che «Tsipras ha detto che non rispetterà i memorandum che hanno devastato la Grecia. Del resto, che certe politiche producano il disastro ormai è dimostrato, non è più un’ipotesi». Fratoianni, comunque, apre a sua volta: «Se Renzi accetterà questa sfida, sarò il primo ad essere felice. L’essere all’opposizione non mi trasforma in ottuso, vogliamo vincere e non solo avere ragione».

In Grecia, c’è ovviamente Raffaella Bolini, organizzatrice delle brigate Kalimera, i sostenitori italiani di Tsipras: «Quello che Alexis sa fare è sparigliare e lo ha fatto anche in questo caso. Ha trasformato l’umiliazione della Grecia in partecipazione con parole diversissime da quelle di Renzi. Ma il problema, ora, è proprio del premier».




L’incontro riservato con il Cavaliere 
Ma il leader cerca un nome per unire il Pd.


Corriere della Sera 25/01/15
Maria Teresa Meli
«Il nostro primo obiettivo è creare l’unità del Pd sul Quirinale, perché il partito di maggioranza deve presentarsi compatto a questo appuntamento, è una questione di responsabilità». Manca una manciata di giorni all’ora X, ma Matteo Renzi non sceglie ancora un nome. O, meglio, non ufficializza la sua decisione. «In questo momento — spiega ai suoi — dobbiamo trovare una personalità che vada bene al più ampio numero di forze politiche, e innanzitutto al nostro partito, perché i voti del Pd non possono essere sostituiti da quelli di Forza Italia. E, comunque, una cosa è certa: non possiamo intestarci una sconfitta in questo frangente».

Il premier, prima degli incontri ufficiali, dovrebbe vedere in via riservata, Bersani e Berlusconi. Con il secondo l’appuntamento dovrebbe essere martedì mattina, se non prima, con Bersani forse già domani, anche se questo incontro, il più delicato, viene smentito da molti.

Sondare i due per Renzi è importante perché, per quei paradossi che la politica italiana spesso presenta, al patto del Nazareno sembra essersi sostituita un’altra intesa che i renziani hanno battezzato ironicamente «Berlber» o «Berber». Ossia l’asse Berlusconi-Bersani, favorevoli alla candidatura di Amato, visto da entrambi come l’uomo che può condizionare il premier. Il quale, ovviamente, a questo punto, non ha intenzione alcuna di dire di sì ad Amato. «Non ho nulla di personale contro di lui, questo sia chiaro», ha tenuto a precisare ai suoi Renzi. Che, però, per come si sono messe le cose nutre una grande perplessità «per il modo in cui è nata questa candidatura», a «prescindere dalla volontà» dello stesso Amato. Nel Pd c’è chi è addirittura convinto che tra Berlusconi e Bersani ci siano degli ufficiali di collegamento che hanno favorito la nascita della candidatura di Amato, e c’è chi punta l’indice contro i lettiani.

Comunque, i nomi con i quali Renzi può giocare la sua partita quirinalizia sono diversi. Per ora il premier si limita a delineare solo un identikit del «suo» candidato: «Deve essere una figura che gli italiani sentano come rappresentativa e non deve quindi essere divisiva». Ma l’elenco delle candidature ha subito un drastico ridimensionamento dopo che gli sherpa del Pd incaricati dalla segreteria di sondare gli umori dei gruppi parlamentari dem hanno raccolto un orientamento di massima che esclude tutti gli ex segretari più o meno recenti della «Ditta» e non. Il che esclude dalla lista dei papabili diversi nomi di peso: Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini, Piero Fassino, Pierluigi Castagnetti, Massimo D’Alema e Pier Ferdinando Casini. Un elenco abbastanza lungo.

Restano quindi in campo, almeno al momento, tre nomi. Quello di Sergio Mattarella, in «pole position». L’ex ministro, infatti, non viene visto dalla minoranza del Partito democratico come un garante del patto del Nazareno e, anche se Berlusconi è perplesso sul suo nome, non c’è un «no» senza se e senza ma su di lui da parte di Forza Italia.

In campo anche Sergio Chiamparino. Un nome del Partito democratico, che però non vede l’ostilità dell’ex Cavaliere e che viene giudicato autonomo da tutti. Infine, c’è Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia. Se dovesse abbandonare il suo dicastero per salire al Colle verrebbe sostituito da un ministro politico.

E sono ancora in corsa, nonostante tutto, i tecnici. Due nomi per tutti: il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ed Elena Cattaneo, l’accademica nominata senatrice a vita da Giorgio Napolitano. Ma qualcuno nel Pd scommette che «alla fine per mettere d’accordo tutti si potrebbe giocare la carta istituzionale con il presidente del Senato Pietro Grasso».

Il premier, però, ieri si è occupato molto poco di Quirinale. In realtà la sua attenzione si è incentrata di più sui problemi del governo. Almeno fino a quando non è stata distolta dai discorsi tenuti in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario. Discorsi che, ha confidato ai suoi, lo hanno «fortemente impressionato».

In molti procuratori si sono scagliati contro il premier e il suo esecutivo. Uscite che hanno lasciato «letteralmente» di stucco Renzi. «Non avevo mai sentito — ha spiegato ai collaboratori — delle polemiche così dure e degli attacchi così violenti nei confronti di un presidente del Consiglio e del governo. Pazzesco, una cosa imbarazzante, non hanno mai trattato in questo modo nemmeno Berlusconi».

Già, quello con la magistratura è un altro fronte aperto per il presidente del Consiglio. E non è l’unico. Ma nell’immediato è il problema del Quirinale che Renzi dovrà risolvere.