domenica 31 agosto 2014

....Scalfari....illeggibile...

La Tribuna di Lor Signori, dei critici di professione, non è mai doma.

Federica Mogherini è Lady Pesc

Il Consiglio europeo ha anche nominato come nuovo presidente il premier polacco Donald Tusk. Gli auguri di Giorgio Napolitano al ministro: «Un importante riconoscimento per l'Italia. Il nostro governo ha contribuito a risolvere il problema degli incarichi Ue»

L’odio di Riina: uccidiamo don Ciotti


SALVO PALAZZOLO
La Repubblica - 31/8/14

Non solo l’ordine di morte per il pm Di Matteo. Dal carcere dove è rinchiuso il boss mette nel mirino anche uomini di chiesa Scatta l’allerta, rafforzata la scorta al fondatore di Libera. “È come don Puglisi, che invece di dire messe voleva fare tutto lui”

Don Luigi Ciotti, l’instancabile animatore di Libera, come don Pino Puglisi, il parroco ucciso dai boss nel 1993. Per Salvatore Riina non ci sono differenze: «Questo prete è una stampa e una figura che somiglia a padre Puglisi». E deve fare la stessa fine: «Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo». Il capo di Cosa nostra va su tutte le furie quando sente in tv che la Chiesa vuole rilanciare il messaggio di don Puglisi appena fatto beato. E all’ora d’aria consegna parole durissime al suo compagno di passeggiate, il boss pugliese Alberto Lorusso. Sul prete ucciso e su «quello che gli somiglia tanto».
«Il quartiere lo voleva comandare iddu — dice Riina di don Puglisi, con tono di disprezzo — Ma tu fatti il parrino, pensa alle messe, lasciali stare… il territorio… il campo… la Chiesa… lo vedete cosa voleva fare? Tutte cose voleva fare iddu nel territorio… tutto voleva fare iddu, cose che non ci credete». È la chiesa impegnata nel territorio che fa infuriare Riina. Da don Puglisi a don Ciotti il passo è breve. Riina lancia subito l’idea di un altro omicidio eccellente contro un rappresentante della Chiesa: «Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo», dice. «Salvatore Riina, uscendo, è sempre un pericolo per lui… figlio di puttana». È il pomeriggio del 14 settembre dell’anno scorso, la vigilia del ventasimo anniversario dell’omicidio di don Pino Puglisi. Le parole pronunciate da Riina mettono subito in allarme gli investigatori della Dia di Palermo, che ascoltano in diretta. Viene avvertita la procura antimafia. E nel giro di poche ore parte una nota riservata al Viminale, per sollecitare nuove misure di sicurezza attorno a don Luigi. Sono giorni convulsi quelli, fra Palermo e Roma. Un altro allarme è già scattato per il pubblico ministero Nino Di Matteo, l’animatore del pool “trattativa”: anche lui Riina vuole uccidere e a Lorusso dà un ordine esplicito, «facciamolo in fretta». Oggi, le misure di vigilanza attorno a don Ciotti sono state rafforzate, anche se la sua scorta resta affidata a due poliziotti. Di certo, il sacerdote non ha mai saputo nulla delle minacce di Riina. «Però, da alcuni mesi, arrivano segnali inquietanti e in parte indecifrabili a don Luigi e a Libera», dice Gabriella Stramaccioni, collaboratrice del sacerdote. «Le parole di Riina sono la conferma di questo clima, c’è da capire a chi il boss stia parlando ».
Il capomafia spiega a Lorusso, a proposito di Ciotti: «Dice che voleva parlare con me, prima con l’avvocato, poi con mia moglie». In realtà, le cose andarono diversamente a metà degli anni Novanta: fu la moglie di Riina, dopo il suo ritorno a Corleone, a chiedere un incontro con il sacerdote. Ninetta Bagarella era preoccupata per la sorte dei figli. Ciotti si disse disponibile a un colloquio in carcere con Riina, ma pose una condizione: «Deve essere il detenuto a chiederlo ». Riina si rifiutò. E adesso ha parole pesantissime per il sacerdote che il 21 marzo scorso era al fianco di Papa Francesco, nella chiesa di San Gregorio VII, a Roma, per accogliere i familiari delle vittime di mafia. «È malvagio, è cattivo — ripete Riina — ha fatto strada questo disgraziato ». E presto si comprende la ragione di tanto odio. «Sono sempre agitato — spiega il padrino di Corleone — perché con questi sequestri di beni…». I beni sequestrati vengono poi gestite da tante cooperative che aderiscono a Libera.



sabato 30 agosto 2014

In Europa non andiamo più con il cappello in mano

Simona Bonafè 
Europa  

A partire dal vertice di oggi a Bruxelles l’Italia mette sul tavolo l’idea di più flessibilità
Alle battute finali di questa estate pessima, non solo meteorologicamente, viene da rispolverare il mito di Cassandra, la profetessa che vaticinava con esattezza eventi funesti ma non veniva presa sul serio.
Guardiamo infatti cosa succede nei dintorni di casa nostra: la Russia invade l’Ucraina, Libia, Iraq e Siria sono il teatro di una nuova terribile prova di forza, il mondo occidentale si confronta con una minaccia che non ha precedenti rappresentata dal Califfato, il Medio Oriente si dibatte in una guerra che sembra da decenni un vicolo cieco.
Cercare la voce dell’Europa non è tanto attività improba, è semplicemente inutile, perché l’Europa non c’è.
L’inconsistenza e la perifericità dell’Unione europea di fronte ad un pianeta in ebollizione sono ormai purtroppo un dato di fatto.
Nel frattempo la crisi non smette di mordere, la disoccupazione raggiunge nuovi record, il segno meno non coinvolge più solo gli ultimi della classe ma contraddistingue anche i primi. Da questo punto di vista, il calo della produzione industriale che ha registrato la Germania è eloquente.
Ebbene quante Cassandre, in questi mesi ed in questi anni, avevano previsto lo scenario attuale e predicato soluzioni alternative, bellamente ignorate da Bruxelles?
Sentiamone una, l’economista Jean-Paul Fitoussi, professore emerito dell’Istituto di studi politici di Parigi e docente alla Luiss di Roma: «Pensare che riducendo i salari, creando disoccupazione, si sarebbe migliorata la situazione è un non senso. E la medicina sbagliata ha fatto ammalare chi si illudeva di stare bene, anche la Germania, la quale forse comincia a capire che l’austerità finirà con il mettere in crisi anche lei».
Ed anche Paul de Grauwe, già economista dell’Fmi, della Commissione europea e della Bce, oggi capo del dipartimento Europa della London School of Economics: «È chiaro cosa dovrebbe fare la Germania: investimenti pubblici per rilanciare l’economia in tutta l’eurozona e poi una moral suasion, oltre a stimoli fiscali, perché le imprese alzino i salari promuovendo la domanda. È l’unica ad avere margini di bilancio per poterlo fare».
Un’altra Cassandra è stato Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia 2001 e docente alla Columbia University: «Vanno abbandonate le politiche di austerità e bisogna puntare invece su politiche per favorire la crescita, sfruttando ad esempio i fondi per finanziare le piccole e medie imprese che faticano ad ottenere credito, e investendo su istruzione e innovazione tecnologica».
Finiamo con un altro premio Nobel, Amartya Sen, che nel 2013 affermava: «Il tracollo europeo nasce una politica d’austerità fallimentare che ha prodotto l’attuale scenario di povertà e disoccupazione. Lo dico in qualità d’economista, perché la nostra è una scienza empirica. E una legge fondamentale dell’esperienza è imparare dagli errori. Il regime d’austerity, in vigore da anni, sta conducendo al baratro l’Europa».
E allora torniamo al punto, a quel «per salvare l’Europa, bisogna cambiare l’Europa», pronunciato da Matteo Renzi all’indomani delle elezioni europee.Da qui ripartiamo, dal vertice straordinario che si apre oggi pomeriggio. E ripartiamo da una posizione chiara e forte dell’Italia, che in questi mesi non è stata con le mani in mano, ma ha fatto proposte e tessuto alleanze.
Da questo punto di vista merita una sottolineatura la candidatura del ministro Federica Mogherini a Mister Pesc e conseguentemente vice presidente della Commissione, ovvero ad un ruolo e ad una funzione rilevantissima e strategica per il nostro paese.
Forse è questa nuova centralità che l’Italia si è conquistata, anche grazie al 41% ottenuto dal Pd alle recenti elezioni, che infastidisce lobby e potentati di vario genere: l’Economist disegna Renzi con il gelato ma il problema è che non possono più vederci, come in passato, con il cappello in mano.
Sul tavolo del vertice di Bruxelles c’è la proposta di avere più flessibilità sui conti, con un sistema che consenta di fissare le riforme più importanti per il Continente e premiando con incentivi i paesi che riescono ad approvarle.
In tale contesto il disegno di politica economica del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è fortemente in sintonia con le linee guida avanzate dalla presidenza italiana dell’Europa. Riforme strutturali, dice quindi Draghi. E le riforme strutturali sono l’agenda del governo italiano. Lavoro, giustizia, fisco, scuola, competitività: dipendono da noi, non da Draghi o dalla Merkel. O li risolviamo noi, o non li risolve nessuno.
Ho cominciato con Cassandra, finisco con la generazione Telemaco citata da Renzi all’inizio del semestre a guida italiana. «Noi non vediamo il grande frutto dei nostri padri come un dono dato per sempre, ma come una conquista da rinnovare giorno dopo giorno», disse il premier a Bruxelles.
Ecco quei giorni sono arrivati, ora dobbiamo dimostrare di essere in grado di superare una crisi epocale e di contribuire ad una nuova stagione di crescita dell’Europa, all’altezza della sua storia.

....notiziona di fine estate...

Bersani torna a guidare la minoranza del Pd. La ruota può attendere. Alla Festa dell'Unità di Bologna l'ex segretario riprende in mano l'alternativa a Renzi dentro il partito. E mena fendenti verso palazzo Chigi sulla politica economica, le riforme istituzionali, le primarie.

europa 30 agosto 

La metafora del gelato

Mario Lavia 
Europa  

Renzi ha dato una risposta umana, politica e sottilmente nazionalista all'Economist, dicendo che l'Italia non si lascia prendere in giro
È tipico di un certo modo di essere leader quello di rizzarsi in piedi baldanzoso proprio nel momento di massima difficoltà. In questo senso ieri Renzi ha fatto Renzi, più che mai. In una giornata nata sotto i peggiori auspici – la brutta figura sul rinvio del tema-scuola, i dati Istat sulla deflazione e sulla disoccupazione – il premier è parso caricatissimo, a partire dalla scenetta inedita e non raffinatissima nel cortile di palazzo Chigi.
Come interpretarla, quella gag del gelato in mano per sfottere l’Economist e la sua copertina con Matteo-ragazzino sulla barchetta di carta? Come una replica – umana, politica e chissà se anche sottilmente nazionalistica – a voler dire: l’Italia non si lascia prendere in giro.
È un po’ un suo nervo scoperto, quello della suscettibilità nei confronti dell’Europa supponente che chiede compiti a casa al parente povero. Istintivamente, Renzi non ci sta. Razionalmente, poi, capisce che dopo le scenette quei compiti bisogna farli per davvero e non – come dice lui stesso – perché ce lo chiede l’Europa ma perché la barca (quella vera, non di carta) sembra imbarcare acqua.
Usciamo dalle metafore. Qui la situazione non migliora. Sei mesi non potevano bastare a raddrizzarla, e nessuno lo ha mai chiesto. Ma c’è adesso bisogno di capire dove stiamo andando: questa cosa Renzi, grandissimo comunicatore, non riesce ancora a comunicarla. La riprova è che ha scelto l’andatura del maratoneta (hashtag fortunato, #passodopopasso), segno di una nuova consapevolezza di quanto sia arduo cambiare le cose.
Allora, per dirla in parole semplici: i provvedimenti di ieri vanno bene, anzi benissimo (soprattutto il decreto che dimezzerà l’arretrato della giustizia civile). Speriamo che anche il decreto Sblocca-Italia dia i risultati auspicati, in termini di investimenti, realizzazioni e occupazione. Consideriamo dunque i risultati di ieri un piccolo antipasto di un’azione riformatrice più profonda, che non potrà che vertere su due aspetti di fondo, riforma del lavoro e aggressione alla spesa pubblica.
Dopodomani ci sarà un’altra conferenza stampa del premier sui “mille giorni”, un’agenda riformatrice che dovrebbe avere lo stesso respiro dell’azione di Schroeder alla fine degli anni Novanta in Germania. Se Renzi fornirà un ordito di quella qualità, allora sì che potrà sbeffeggiare chicchessia. Anche senza un gelato in mano.

venerdì 29 agosto 2014

Sblocca-Italia e riforma della giustizia, cos’ha detto Renzi in pillole

Redazione Europa  

La conferenza stampa del premier dopo il consiglio dei ministri
Gelato
Il primo ad entrare nel cortile di palazzo Chigi è il carretto dei gelati. Poi arriva anche Matteo Renzi che si fa servire con i suoi gusti preferiti: crema e limone. Dopo la gag nel cortile inizia la conferenza stampa.
Passo dopo passo
«Bisogna uscire dall’idea – spiega il premier – che basti una legge per cambiare il paese. Per cambiare il paese servono le persone e un lavoro puntuale. “Passo dopo passo” sarà il claim di tutti i mille giorni e il riferimento che troverete da lunedì sul sito dedicato».
Grandi opere, 10 miliardi in 12 mesi
«Nei prossimi 12 mesi 10 miliardi saranno destinati a sbloccare le opere», ha detto il premier Matteo Renzi spiegando che la Napoli-Bari e la Palermo-Messina partiranno nel 2015, con due anni d’anticipo.
Gasdotto
Il 20 settembre sarò a Baku per il via libera al gasdotto Tap che oggi per la Valutazione d’Impatto Ambientale e per la norma del Dl è definitivamente sbloccato, ha spiegato il premier.
Riforma della scuola
La riforma della scuola «è pronta» e sarà presentata mercoledì, non è stata presentata oggi «per evitare un eccesso di carne al fuoco», ha spigato Renzi.
Riforma della giustizia
Una vera e propria “rivoluzione”, che passa dal dimezzamento dell’arretrato della giustizia civile, dalle nuove norme sul falso in bilancio e sulla prescrizione, alle norme sulle responsabilità civile dei magistrati secondo il principio di “chi sbaglia paga”, fino alla delega sulle intercettazioni.
Vertice sulla crescita
La presidenza italiana «si incaricherà di organizzare per il 6 ottobre un appuntamento, un vertice ad hoc, per discutere della crescita. L’Italia ha le sue cose da fare e le sta facendo, ma la stagnazione dell’Europa si affronta con una strategia forte».
«L’Italia conferma tutti i propri impegni, come detto da Padoan, in primo luogo il 3% – ha sottolineato il presidente – Noi rispettiamo il Patto, ma il Patto si chiama di stabilità e crescita. Non mettiamo a rischio la stabilità, ma guardiamo anche alla crescita», ha ribadito. E «il piano da 300 miliardi di Juncker è significativo e importante, lo prendo terribilmente sul serio. Il 6 ottobre parleremo di questo. Non siamo in una battaglia contro l’Europa, né chiediamo qualcosa per noi. In questi anni l’Italia non ha mai chiesto qualcosa all’Europa, ma ha dato più di quanto ha ricevuto. In parte per regole del gioco, in parte per incapacità nostra. L’Europa non ha salvato l’Italia, ci siamo salvati da soli».
Disoccupazione
Il dato su posti di lavoro «colpisce», «oggi questo dato è molto preoccupante», ha spiegato Renzi, ma «personalmente non credo che i posti di lavoro si creino per decreto. Ecco perché dico che nonostante le difficoltà e le tensioni in Europa, io sono certo che l’Italia è in condizioni di uscire dalla crisi e sono pronto a scommettere su incentivare il salario ai cittadini non togliere».
Nessun contrasto con i ministri
«Non c’è nessun contrasto con nessun ministro. Ho letto che avrei litigato con tutti i ministri, ho letto che avrei litigato anche con Lotti e lì c’è stata la standing ovation – ha detto il premier – Semplicemente abbiamo fatto una riunione del Pd senza il ministro Giannini, è vero è stata fatta a palazzo Chigi ma ero impegnato e non ho creduto di dover muovere la scorta per andare al Nazareno. E non mi pare che il ministro Giannini sia iscritto al Pd. Non c’è alcuna tensione con i ministri, la proposta sulla scuola è sostanzialmente pronta».

Il rischio delle alte aspettative

Mario Lavia 
Europa  

Chi per giorni ha letto che oggi il consiglio dei ministri varerà “la” riforma della scuola, “la” riforma della giustizia e che si sbloccheranno “le” grandi opere, magari stasera resterà un po’ deluso
La spiacevole sensazione di queste ore è che alla fine, per usare un’espressione non bella e abusatissima, la montagna partorirà il topolino. Non è così, ma il fatto è che ogni riunione del governo viene caricata da un’attesa messianica – le famose “ore decisive” che tanto piacciono ai giornali – come se il consiglio dei ministri fosse ogni volta chiamato a cambiare la faccia dell’Italia. Naturalmente non può essere così.
D’altra parte il presidente del consiglio comunica al paese la propria impazienza e gli assicura massima velocità, generando in questo modo la grande illusione del tutto e subito. Poi, lo stesso Renzi deve spiegare che si tratta di linee guida, di un primo passo, che i provvedimenti verranno dopo.
Così, chi per giorni ha letto   che oggi il consiglio dei ministri varerà “la” riforma della scuola, – che invece slitta – “la” riforma della giustizia e che si sbloccheranno “le” grandi opere, magari stasera resterà un po’ deluso: e dovrà fare un supplemento di riflessione per capire che queste riforme sono solo partite, non ancora arrivate.
La verità è che in questo paese farle davvero, le riforme, è operazione lunga, difficile. Non basta la determinazione del premier (che non manca, se sono vere le indiscrezioni che lo danno impegnato a correggere di suo pugno ciascun provvedimento). Però su temi fondamentali (peccato che la scuola debba attendere), si parte. Si parte adesso. E siccome davanti a sé il governo ha un tempo lungo, è probabile che si arrivi. E scusate se è poco.

Dagli affari di famiglia alla lite con la polizia l’ultima stagione del ras della Sapienza


SEBASTIANO MESSINA
La Repubblica - 29/8/14

Il personaggio L’irresistibile ascesa di Luigi Frati, figlio di un minatore diventato il più potente (e discusso) rettore d’Italia. Fino alla denuncia della questura di Roma

Non sappiamo ancora se sarà ricordato come il difensore della libertà di volantinaggio — per aver tentato di sottrarre ai poliziotti quel rumeno che per dieci euro distribuiva volantini anonimi contro un professore che ha osato candidarsi a prendere il suo posto — o come il primo rettore che ha gridato «polizia di merda!» in un commissariato. Quel che è certo è che Luigi Frati, «fino al 31 ottobre rettore della Sapienza», come lui si è firmato scrivendo al questore per sottolineare chi stavano denunciando, dovrà difendersi dalle accuse di abuso d’ufficio, resistenza a pubblico ufficiale e calunnia.
Non se l’era immaginata così la sua ultima stagione, il figlio di un minatore che è diventato il più potente cattedratico d’Italia, per vent’anni preside e dominus assoluto della facoltà di Medicina e per altri dieci — prima come pro-rettore vicario e poi come rettore — al comando della Sapienza, restando inchiodato alla sua poltrona persino dopo il pensionamento. Finora aveva sempre pensato a salire sempre più in alto, dal giorno in cui suo padre lo portò con sé in miniera, come apprendista: «Avevo 14 anni e mi occupavo di dare l’acqua ai minatori » raccontò una volta al Messaggero . «Un paio di mesi mi sono bastati. Ho scoperto l’esistenza dell’ascensore sociale: o vai giù o vai su».
E lui l’ascensore l’ha preso al piano giusto, quello della politica. A 36 anni, grazie al sindacato cislino Federscuola, si fa nominare — lui che è solo un docente incaricato — nel Consiglio universitario nazionale. Ci rimarrà per 21 anni («Ho messo in cattedra più di 200 professori », ama vantarsi) mentre il suo ascensore comincia a salire. Primo piano, la cattedra di Patologia generale alla Sapienza. Secondo piano, la vicepresidenza della Commissione unica del farmaco. Terzo piano, la presidenza del Consiglio superiore di Sanità. Quarto piano, il posto di primario di Oncologia.
Arrivato al quinto piano — preside della facoltà di Medicina — Frati mette radici e ci rimane per vent’anni esatti. Risulta abilissimo nella moltiplicazione delle cattedre: con lui il Policlinico arriva ad avere un primario ogni sei pazienti e un consiglio di facoltà più affollato della Camera dei deputati: 700 membri.
Già che c’è, Frati fa prendere l’ascensore anche alla moglie, Luciana Rita Angeletti, insegnante di lettere in un liceo: per lei c’è una cattedra di Storia della Medicina. Poi fa salire anche la figlia maggiore, Paola. Lei, discoletta, aveva voluto laurearsi in Giurisprudenza, ma il comprensivo papà non si è arreso: oggi è ordinaria di Medicina legale. Restava Giacomo, il secondogenito. Poteva il padre la- sciarlo fuori dall’ascensore? Certo che no. Anzi, proprio per lui Frati — che intanto nel 2008 è salito di un altro piano, il sesto, quello di rettore dell’Università — realizza il suo capolavoro: accompagnarlo fino alla poltrona di primario prima che compia 37 anni.
L’impresa merita di essere raccontata. Il giovane Giacomo vuol fare il cardiochirurgo. E naturalmente ci riesce. Ricercatore a 28 anni, diventa professore associato a 31. Vince il concorso con una prova (orale) sui trapianti cardiaci, davanti a una commissione composta da due igienisti e da tre odontoiatri. A quel punto il premuroso padre riesca a ottenere l’apertura di un centro di cardiochirurgia a Latina (costo: 32 milioni) dove il giovanotto diventa aiuto primario. L’esperimento non riesce e il centro verrà chiuso, dopo la scoperta che la mortalità era pari a due volte e mezza la media nazionale.
Ma intanto Giacomo ha vinto anche il concorso a ordinario, e il padre lo chiama nella sua facoltà. Con un tempismo straordinario: solo quattro giorni prima che scattino le norme antinepotismo, con il divieto tassativo di assegnare cattedre ai parenti fino al quarto grado. Ora si tratta di trovargli il posto di primario. Antonio Capparelli, nominato un mese prima da Frati direttore generale del Policlinico, crea dal nulla un reparto ad personam: «Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicare alle malattie cardio-vascolari». E chi nomina come primario? Giacomo Frati. L’operazione è così clamorosa che la procura apre un’inchiesta, su quel reparto «di fatto voluto dal rettore Luigi Frati per favorire il figlio Giacomo», scrivono i pm Pioletti e Caporale.
Quella però era solo la penultima tappa, perché il rettore vuole per il suo erede il primariato di Cardiochirurgia. Ce ne sarebbero due, ma sono occupati. Come si fa a liberare quei posti? Ci pensa ancora una volta papà. Prima sospende il primario del Policlinico, Michele Toscano, trascinandolo per quindici volte davanti al Tar, poi denuncia — facendolo persino arrestare — quello del Sant’Andrea, Riccardo Sinatra, accusandolo nientemeno che di aver fatto fare turni di 24 ore agli specializzandi. Il Tar gli dà torto, e i due primari sono ancora al loro posto. Ma Frati non si arrende: l’ascensore del figlio deve fare un altro piano. E lui, come ha scritto al questore, è «fino al 31 ottobre rettore della Sapienza ».



giovedì 28 agosto 2014

28 agosto 1963 - 51 anni fa il discorso di Martin Luther King 'I have a dream


Paletti per le cause d’appello, 
pena concordata a chi confessa e reati estinti a pagamento.


Corriere della Sera 28/08/14
Virginia Piccolillo

Un decreto legge per smaltire l’arretrato della giustizia civile. Una delega al governo per riformarla. E diversi disegni di legge sulla giustizia penale. Ecco il pacchetto giustizia che oggi arriverà in preconsiglio dei ministri. Dalle bozze le principali novità. Paletti alla possibilità di fare appello. Pena concordata fino ad otto anni per chi confessa. Reati estinti a pagamento. E poi i punti più caldi. Come le limitazioni alle intercettazioni che dovrebbero essere oggetto di una delega.



Nuovo processo civile 
È il fiore all’occhiello del governo. L’obiettivo dichiarato è dimezzare entro mille giorni l’arretrato e garantire il processo civile in primo grado in un anno anziché tre. Si prevede un decreto legge per ridurre l’arretrato, una sorta di facilitazione per chi vuole passare ad arbitrati. Ma il punto di eccellenza dell’intero pacchetto riforme è il ddl delega per gli interventi sul processo civile, basato sul lavoro della commissione Berruti. Ristrutturazione del primo grado con introduzione del potere del giudice di suggerire alla prima udienza di trattazione, una soluzione diversa dalla sentenza. Forte implementazione del tribunale delle imprese assistito anche da esperti di economia del luogo, introduzione del tribunale della famiglia e della persona.



Responsabilità dei giudici 
Il ministro Andrea Orlando, pensa a un disegno di legge, ma in preconsiglio oggi potrebbe anche arrivare un ddl delega. Prevede la responsabilità indiretta dei magistrati. A pagare i danni di un errore è lo Stato, ma il giudice colpevole deve risarcirlo fino alla metà dello stipendio di un anno. Soluzione che non soddisfa Forza Italia: vorrebbe che il risarcimento fosse commisurato al danno.



Bonus prescrizione
Prima della legge Cirielli l’estinzione del reato era prevista per fasce di gravità. Ora è per tutti il massimo della pena aumentata di un quarto e spesso arriva prima della condanna definitiva. Il ddl in arrivo lascia l’attuale conteggio, ma congela i tempi all’arrivo della prima condanna e per soli due anni. L’appello dovrà essere fatto in quei tempi o il reato si estinguerà. In caso di ulteriore condanna c’è un altro anno di bonus di sospensione per arrivare al termine del terzo grado in Cassazione. In caso di assoluzione il bonus di sospensione di due anni viene riassorbito nel conteggio. È un tentativo di mediazione: l’intenzione originaria era di tornare alle fasce e sospendere i tempi dopo il primo rinvio a giudizio. L’approvazione di questo provvedimento è però a forte rischio. Forza Italia è contraria e all’interno della maggioranza Ncd chiede maggiori obblighi per i giudici di celebrare appello e Cassazione nei tre anni, pena la responsabilità disciplinare.



Il nodo intercettazioni
Ufficialmente non sarà sul tavolo. Come le due norme sul Csm e forse la modifica della geografia giudiziaria. Ma se ne discuterà. L’accordo su questo punto cardine della trattativa non è stato trovato. L’ipotesi di limitarne la pubblicazione, ma non l’uso non è piaciuta Forza Italia che vorrebbe tornare alla legge Mastella.

Il ministro Orlando, valuta l’ipotesi di un disegno di legge delega che preveda norme a tutela della riservatezza. Ncd è d’accordo e propone l’audizione dei direttori delle testate giornalistiche nell’ambito della attività di delega.



Limiti a impugnazioni
L’appello guidato è un altro punto della discordia. L’ipotesi è un ddl che limiti il ricorso al secondo grado di giudizio. Non ci si potrà opporre alla prima sentenza senza specificare i motivi del ricorso, che, altrimenti, sarà inammissibile. La Corte d’appello dovrà rivedere solo quei punti. In caso siano doppie condanne o assoluzioni non si potrà fare l’impugnazione per vizio di motivazione. Si potrà fare ricorso in Cassazione solo per violazioni di legge. Non piace all’Oua, ai penalisti, a Forza Italia e a Ncd.



Pago ed estinguo
Si chiama giustizia riparativa. In un ddl si prevede l’estinzione del reato per chi, in caso di delitti minori contro il patrimonio o a querela di parte, paghi e ripari il danno prima del dibattimento. Ncd è favorevole.



Confesso e concordo
Ora si può patteggiare una pena per reati fino a 3 anni. L’ipotesi è un ddl che consenta di concordare una pena fino a 8 anni a patto di confessare. Non c’è appello. Solo ricorso in Cassazione per vizi di forma. Ncd scettica per l’applicazione a reati di mafia. Forza Italia è contraria.



Falso bilancio e corruzione
Secondo la proposta del ministro, contenuta in un altro ddl, il falso in bilancio torna reato punito da 2 a 6 anni. Procedibile a querela nei casi di piccole società. In un altro ddl si prevedono norme contro la corruzione, inclusa la possibilità di intercettazioni più ampie.




Com’è giusto, nasce in Emilia il Pd 2.0

Stefano Menichini 
Europa  

Bonaccini contro Richetti, due amici e due renziani nelle primarie per la candidatura alla Regione. Dove è sempre piaciuto il rinnovamento nella continuità, ma è arrivato il tempo che il primo prevalga sulla seconda. Chiunque vinca.
Ne hanno parlato per mesi e su un punto sembravano essere d’accordo: la selezione del candidato del Pd al governo dell’Emilia Romagna non avrebbe potuto e dovuto risolversi con uno scontro fratricida. Non per buonismo, ma perché sarebbe stato difficile far capire agli elettori le differenze politiche tra Stefano Bonaccini e Matteo Richetti, amici personali, entrambi del Modenese, personaggi chiave del momento topico dell’avvento di Renzi alla guida del Pd.
Invece finirà proprio così, perché la politica è sanamente fatta anche del confronto fra ambizioni personali di uomini e donne che hanno diritto a coltivare e perseguire i propri sogni. E sia Bonaccini che Richetti sono cresciuti nel consiglio regionale che ora vorrebbero guidare. Entrambi hanno contribuito prima ai successi della lunga epoca Errani e poi al rovesciamento di quel paradigma, almeno a livello nazionale. Negli anni ruggenti delle Leopolde, Richetti era “l’emiliano” per definizione, tra i pochissimi, della squadra di Renzi. Il quale però vinse in anticipo le primarie del dicembre 2013 nell’estate precedente, quando Bonaccini (dopo essersi staccato da Bersani durante le votazioni drammatiche sul Quirinale) lo introduceva nelle Feste nella sua veste di segretario regionale, da Carpi a Bosco Albergati a Borgo Sisa vicino Forlì, in autentici, sbalorditivi e già risolutivi bagni di popolo.
I tentativi di mediazione su una candidatura “unitaria” non sono riusciti. Il motivo è nel Pd medesimo: un partito che è andato ormai troppo oltre, sulla contendibilità interna, perché si possano escogitare facili soluzioni condivise, a meno che tutti (ma proprio tutti) gli attori sulla scena non vi si ritrovino.
In questo caso, anche con la candidatura “unitaria” di Daniele Manca ci sarebbero stati comunque altri nomi in corsa, e poi non sarebbe giusto dimenticare l’oggetto vero della contesa. Che non è una posizione più o meno avanzata nella galassia renziana (come invece la vicenda verrà in parte raccontata), bensì il governo dell’Emilia Romagna: cioè una Regione chiave non (solo) per il Pd ma per il presente e il futuro dell’Italia. Un luogo e un partito geneticamente propensi al famoso “rinnovamento nella continuità”, dove evidentemente è arrivato il momento di far prevalere il primo sulla seconda, come dimostrano anche i risultati elettorali di Cinquestelle.
In questo senso non è male che il confronto sia tra due renziani.
Sì, è vero, Richetti giocherà la carta dell’antemarcia, oltre tutto non essendo un ex comunista (è cresciuto alla scuola di Pierluigi Castagnetti). Mentre Bonaccini si farà forte del lavoro svolto da segretario del partito, del successo della fusione tra il Pd “di prima” e il Pd “di oggi”. Il primo parlerà più da rottamatore, sul secondo confluiranno forse i famosi apparati ex bersaniani. Ma entrambi sono stati protagonisti di una rottura a livello nazionale che a livello regionale non s’è mai effettivamente completata (secondo Richetti, neanche iniziata), e di cui si sente gran bisogno: dunque sono obbligati a competere su chi sia più credibile nell’innovazione, non nella conservazione.
Il gusto giornalistico si appunterà sulla prima grande vera divisione nel mondo di Renzi. Probabilmente sarà proprio il segretario-premier a spegnere questa malizia, per quanto avesse sperato in un’altra soluzione. Perché in realtà da oggi in poi ogni competizione interna al Pd sarà “tra renziani”, anche se con storie diverse alle spalle, e sarà giusto risolverla con primarie aperte agli elettori.
Se per esempio Bonaccini dovesse prevalere, e farlo dopo una campagna all’insegna della novità, sarebbe impossibile parlare di una vendetta della vecchia nomenklatura: quella stagione è ormai passata, il problema casomai è proprio chiuderla definitivamente anche a livello territoriale, e farlo in una regione molto riformista ma mica tanto rivoluzionaria.
Richetti sente intorno a sé entusiasmo, non si dà per battuto anche se riconosce di partire in svantaggio. In ogni caso per lui queste primarie saranno un importante momento di crescita, confermandolo oltre tutto come un renziano molto autonomo da Renzi (come è sempre stato, a prescindere dalle voci su incarichi nazionali promessi o negati).
Bonaccini sa di dover evitare l’effetto macchina del tempo, come se si girasse un remake alle primarie Renzi-Bersani. Dovrà guardarsi da candidati terzi come Palma Costi. Come per il suo amico-rivale, ricevere la staffetta da Vasco Errani è sempre stato un progetto di vita, solo che per farcela dovrà mettere nelle primarie tutto il suo “renzismo”, con l’obiettivo di divenire una delle colonne nazionali del sistema di governo del Pd.
Per vedere chi vincerà torneremo lì dove il rottamatore cominciò a tramutarsi in segretario. Nella culla del Pci dove il Pci definitivamente morì. Nella regione che sempre ha deciso le sorti della sinistra italiana. Sarà in Emilia Romagna che assisteremo alla prima conta interna del Pd 2.0.

mercoledì 27 agosto 2014

“Duemila morti, non lasciate sola l’Italia”

La Stampa 27/08/2014
Guido Ruotolo

L’Onu: 1600 vittime solo da giugno. “Operazione Mare Nostrum? Positiva, adesso serve un’azione Ue

Una strage, una ecatombe nel Canale di Sicilia. Quasi duemila morti dal primo gennaio ad oggi. L’appello dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite è di «non lasciare sola» l’Italia. Il portavoce Unhcr, Melissa Fleming, da Ginevra si rivolge all’Europa: «Positiva l’operazione Mare Nostrum, che ha consentito di salvare migliaia di vite umane, ma ora la drammatica situazione ai confini marittimi dell’Europa, richiede un’azione europea urgente e concertata». 
I dati delle Nazioni Unite sono drammatici: «1.889 vittime in otto mesi». Nel dossier presentato a Ginevra si prende atto che gli ultimi giorni sono stati i peggiori di quest’anno per le persone che affrontano la traversata del Mediterraneo per raggiungere l’Europa: almeno tre navi si sono capovolte o sono affondate e si contano più di 300 vittime.  
In realtà i morti potrebbero essere di più. Racconta il comandante della nave Della Marina militare, Fenice, il capitano di fregata Carlo Sciugliuzzo, che i superstiti del naufragio di domenica sera hanno raccontato che i morti sono ben oltre quei 24 corpi recuperati: «Secondo quanto hanno raccontato sul barcone viaggiavano oltre 500 migranti, se a questa cifra sottraiamo i 364 sopravvissuti e i 24 cadaveri già recuperati significa che mancherebbero ancora all’appello oltre cento dispersi».  
Dunque, per l’Unhcr quasi duemila morti negli ultimi otto mesi, 1.600 solo dall’inizio di giugno. Eppure le condizioni del mare sono buone e proprio per questo sono migliaia gli arrivi in queste ore. Dal primo gennaio a ieri mattina, erano 109.128 (di questi solo 71.877 salvati da Mare Nostrum). 
Nonostante il mare calmo, nonostante Mare Nostrum, le imbarcazioni continuano ad affondare. Impressionanti le immagini che arrivano dalla spiaggia di Tripoli con decine di corpi senza vita sulla battigia. Quei corpi - nel naufragio di venerdì scorso a poche miglia dalla costa libica sarebbero morte 250 persone - sono testimonianza crudele di quella guerra, per dirla con l’Osservatore Romano, che si sta combattendo nel Canale di Sicilia. Sabato sera, a 20 miglia dalla costa libica e a 140 da Lampedusa, sono stati recuperati 18 corpi e salvati 73 disperati. E poi domenica sera, con i 24 corpi recuperati e i 100 che mancano all’appello. 
Mentre a Roma si cerca una proposta che convinca l’Europa a impegnarsi in prima linea, così come chiedono le Nazioni Unite, si guarda anche alla situazione fuori controllo della Libia, principale porto di partenza delle imbarcazioni cariche di uomini, donne e bambini. Le previsioni sono ancora più fosche, visto che l’instabilità di quel paese è destinata a peggiorare. 
Per il momento, dunque, non è praticabile alcuna ipotesi di bloccare le partenze in Libia, di accogliere in loco i rifugiati in centri gestiti dalle Nazioni unite dove raccogliere le domande dei richiedenti asilo. E neppure si può pensare che questi centri si aprano in Tunisia o Egitto, sud-Sudan, Ciad o Niger, i paesi confinanti con la Libia. Del resto nell’elenco delle vittime dei viaggi della speranza, si dovrebbero aggiungere anche tutti quei disperati che sono morti nella traversata del deserto libico. Negli anni di Gheddafi, i reparti speciali ne hanno seppelliti a centinaia. Tra Kufra e il confine con il Ciad c’erano accampamenti di migliaia di africani che cercavano di arrivare sulla costa. Quelle città fantasma oggi sono diverse, nate anche più a sud, sull’asse Sebha-Tripoli. 
Si muore in mare e nel deserto mentre le milizie armate stanno portando il Paese alla disgregazione. Non solo Cirenaica da una parte, Tripolitania dall’altra. È l’intero paese spaccato in tante microrealtà. 
Ma accanto ai morti ci sono i vivi che vengono salvati, che raggiungono l’Europa, che devono essere protetti, sfamati. Europa solidale è avara. I Paesi si guardano in cagnesco. Quelli che confinano con noi, ci restituiscono come se fossero degli evasi, gli eritrei piuttosto che i siriani che vengono pizzicati mentre passano la frontiera. L’Europa della libera circolazione delle merci non tollera che venga violata Dublino 3, l’intesa che stabilisce che la protezione umanitaria venga garantita dai paesi dove entrano i rifugiati. 

Ennesima tregua tra Israele e Hamas 
i Segnali che possa durare davvero.


Corriere della Sera 27/08/14
Davide Frattini

Al cessate il fuoco numero 12, Hamas dà il via libera per celebrazioni nelle strade di Gaza, spari di kalashnikov in aria e colpi di clacson dalle auto in corteo. È il segno che questa volta la tregua potrebbe resistere, è il simbolo di quanto l’organizzazione fondamentalista controlli le informazioni che vengono veicolate ai palestinesi di Gaza.

L’intesa ottenuta dai mediatori egiziani — per quel che emerge — non sembra diversa dalle concessioni che i capi del movimento avrebbero potuto ottenere una settimana fa o addirittura dopo una settimana di conflitto. Senza gli oltre duemila morti e la distruzione massiccia, intensificata in questi ultimi giorni. Eppure bisogna gridare vittoria, perché adesso è questione di sopravvivenza politica, dopo aver dimostrato di poter resistere (almeno per cinquanta giorni) all’esercito israeliano.

La Striscia ha bisogno di aiuti urgenti, la ricostruzione deve cominciare al più presto (di questo parla per ora l’accordo: una riapertura dei valichi che permetta il flusso di materiali). Abu Mazen, il presidente palestinese, vuole essere incaricato di controllare quel che entra e quanto in fretta, è il ruolo che i generali egiziani stanno provando a garantirgli, una mossa per ridargli — in parte — potere a Gaza, da dove i miliziani fondamentalisti lo hanno estromesso sette anni fa.

Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, ha ripetuto fin dalle prime ore del conflitto che la formula per uscirne sarebbe stata «la calma per la calma». Per questo gli israeliani hanno accettato i tentativi successivi — e falliti in successione — per fermare gli scontri ed è per questo che l’aviazione non riprenderà i bombardamenti se i lanci di razzi da Gaza non ripartiranno. Adesso il premier dovrà guardarsi da altri colpi, quelli politici, che i ministri del suo governo hanno cominciato a sparare contro di lui durante la gestione della guerra.

Gli analisti già parlano di elezioni anticipate.




Il contropiede del leader: tratto io, 
sarò giudicato su questo.


Corriere della Sera 27/08/14
Maria Teresa Meli

«Dobbiamo essere protagonisti nel mondo globalizzato»: questo è il mantra di Matteo Renzi. Lo ripete a ogni piè sospinto. Lo ha ripetuto anche ieri quando, come si era ripromesso, ha avocato a sé il «pacchetto scuola». «Una scuola — scandice il premier — dove si impara sul serio». E ancora: «La vera sfida è la scuola». Per questa ragione il presidente del Consiglio ha in programma un «piano d’ascolto». Non solo, sulla scuola l’inquilino di Palazzo Chigi alza la posta: «Mi giudicherete per quello che farò in questo campo».

E in quel — non facile campo — il premier ieri si è esercitato. Renzi sa già che i sindacati si faranno sentire, ma non se ne preoccupa più di tanto. «Vedrete — ha detto a chi lo ha visto ieri — che avremo dei problemi, d’altra parte ogni innovazione comporta delle grane. Mi auguro solo che i sindacati cambino verso anche loro. E capiscano che in ballo è il futuro dell’Italia, quindi il futuro di tutti. Ci giochiamo ogni cosa in questo momento». Dopodiché la sua «frase d’ordine» è stata questa: «Sulla scuola tratto direttamente io». Della serie: è una priorità, il presidente del Consiglio avoca a sé la pratica.

Dunque Renzi è alle prese con la scuola: «Le linee guida che illustreremo il 29 saranno molto importanti». E su quel tema cerca - con successo di far puntare l’attenzione dei media, ma il presidente del Consiglio sa benissimo che l’Europa si aspetta anche altro da lui. Quel che deve portare all’Unione Europea — non il 30, ma in un futuro un po’ meno immediato — è il Jobs Act. Con il contorno della riforma fiscale.

E sulla riforma del lavoro avrà di nuovo contro Susanna Camusso. La qual cosa non gli fa paura: «Se i sindacati restano fermi al passato, l’Italia non riparte». Già, Renzi è convinto che la sinistra debba «uscire dalla sindrome del no» e, anzi, farsi protagonista del «cambiamento». Per questa ragione moltiplica le consultazioni sui disegni di legge che verranno, scuola inclusa.

Sul contenzioso prossimo futuro con il sindacato il presidente del Consiglio ha le idee chiare: «Non possiamo trattare all’infinito, a un certo punto verrà il tempo delle decisioni e dobbiamo essere pronti per quell’appuntamento. Altrimenti si finisce per cedere su tutto. Io non posso farmi ricattare. Basta con la logica del “no” e del piagnisteo. Dobbiamo scatenare le energie dell’Italia, dobbiamo mostrarci per quello che siamo: il governo del fare».

Insomma, l’idea del presidente del Consiglio è sempre la stessa: «Noi siamo disponibili a trattare con tutti», spiega ai suoi Renzi. Che non vuole alzare nessun ponte levatoio, ma che sa che sul Jobs Act si gioca la credibilità in Europa. Ed è per questa ragione che vorrebbe approvarlo prima del tempo che si era dato. Pubblicamente aveva fissato come scadenza la fine dell’anno. Ora punta a mandare tutto in porto «entro l’autunno». Operazione quanto mai complicata ma il premier dice e ripete: «Massima disponibilità a trattare anche con i sindacati, verso cui non c’è nessuna ostilità preconcetta e nessun pregiudizio. Ma Camusso, Bonanni e gli altri devono sapere che il presupposto da cui noi partiamo per trattare è uno e uno solo: l’Italia deve fare le riforme».

Più chiaro di così. Però per essere ancora più esplicito il presidente del Consiglio fissa bene i paletti. Che non riguardano solo i sindacati, ma anche «le burocrazie che fanno resistenza e cercano di ostacolare la riforma del Paese»: «Non ha più senso chiudersi nella difesa dei corporativismi. I sindacati, i dirigenti, i burocrati, così come la classe politica, devono cambiare. Altrimenti, immaginare una ripartenza è impossibile».

Ed è avendo ben chiaro in testa questo obiettivo che Matteo Renzi, complice Giorgio Napolitano, ha superato le diffidenze nei confronti di Mario Draghi. Il quale, a sua volta, ha preso atto del fatto che, come gli ha spiegato il capo dello Stato, l’attuale presidente del Consiglio è l’unica ancora di salvezza per l’Italia.

Così ora l’inquilino di Palazzo Chigi pronuncia parole che mai e poi mai avrebbe immaginato di poter profferire: «Non possiamo non dirci draghiani». E, in compenso, il gran capo della Bce ha deciso di dare una sponda al premier italiano. 





Conti in rosso, verranno cancellate subito 
1.250 municipalizzate.


Corriere della Sera del 27/08/14
Lorenzo Salvia

Dopo la frenata, la tentazione della contromossa. Il decreto sblocca Italia rischia di perdere le misure che hanno bisogno di soldi per partire, come i nuovi incentivi fiscali sulla casa, per il solito motivo di far quadrare i conti pubblici. E allora il governo prova a compensare il probabile stop infilando nel testo un’accelerazione sul taglio delle società partecipate dagli enti locali. Una misura che ha il pregio di non costare nulla, anzi di ridurre la spesa pubblica. Anche se è molto difficile immaginarne gli effetti immediati.

Nel decreto che venerdì sarà discusso in Consiglio dei ministri potrebbero esserci non solo le due misure di cui si è già parlato negli ultimi giorni. La prima è la possibilità per i Comuni di usare l’incasso della dismissione di partecipate al di fuori del patto di stabilità interno, che oggi frena gli investimenti anche delle amministrazioni che hanno la cassa piena. La seconda è il prolungamento dell’affidamento fino ad un massimo di 22 anni in caso di quotazione in Borsa. In aggiunta potrebbe entrare nel decreto almeno un pezzo di quel percorso che dovrebbe far scendere le società dalle 8 mila di adesso a circa mille. Una cura dimagrante in sette mosse già definita dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli in uno studio pubblicato sul sito dedicato alla revisione della spesa pubblica che ieri si è arricchito di nuove tabelle. La prima mossa, la più semplice, è quella che ha più probabilità di essere anticipata: la semplice chiusura delle partecipate che esistono ancora ma già adesso non sono operative ne cancellerebbe dalla mappa 1.250. Altre 800, seconda mossa, sparirebbero estendendo il divieto di partecipazione nelle aziende che si occupano di servizi senza rilevanza economica. Poi ci sono le 900 da chiudere fissando una soglia minima di fatturato e dipendenti, le mille da dismettere quando la partecipazione è sotto il 10%, le 650 controllate dai Comuni al di sotto dei 30 mila abitanti. Altre 2.400 sarebbero tagliate come effetto di una serie di misure più complesse: dalle modifiche sui servizi a rete, come l’energia e l’acqua, a quelle sulle delibere per il mantenimento delle partecipazioni già possedute.

Un vero e proprio disboscamento delle ex municipalizzate, che lo stesso Cottarelli ha voluto sostenere pubblicando ieri una serie di tabelle che fotografano la situazione spesso disastrata dei loro conti. Una bella fetta di queste società sono in realtà per Cottarelli oggetti non identificati. Sono 1.075 quelle per le quali al commissario non risulta disponibile (per i motivi più vari) il bilancio 2012, compreso il Maggio musicale fiorentino, l’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni, e Acea distribuzione, ramo di una holding quotata. Dalle tabelle viene fuori che una società su quattro, il 27%, non è redditizia: in termini tecnici ha un rendimento negativo rispetto al capitale investito. Un «buco nero», insomma. Ma c’è un ristretto club che riesce a far peggio e risulta avere un patrimonio negativo o nullo: sono 143, dalla Fiera di Roma alla Cmv di Venezia, che gestisce il Casinò, passando per il Cotral, l’azienda di trasporto pubblico del Lazio. Ci sono anche le aziende che vanno bene, oltre mille hanno un indice di redditività a due cifre e le eccellenze sono presenti tanto al Nord come al Sud, con lo Zuccherificio del Molise al primo posto assoluto. Ma non bisogna pensare solo alle grandi aziende.

Anche se non si tratta tecnicamente di partecipate, lo studio del commissario prende in esame anche le farmacie comunali. Oggi sono 1.600, il 9% del totale, con punte del 20% in Toscana. Il documento non parla esplicitamente di una loro chiusura ma, nella conclusione, qualche nuvolone scuro sembra addensarsi: «Si noti che il servizio nei Comuni piccoli o disagiati viene assicurato anche a mezzo di farmacie private che percepiscono sovvenzioni dal settore pubblico». Sembra il preludio ad un’altra sforbiciata. L’intervento, tuttavia, richiede un supplemento di istruttoria e non troverà posto nel pacchetto di dopodomani.

Nelle ultime bozze, invece, sono spuntate due norme destinate a far discutere. La prima è contro quella che a Roma viene chiamata la «maledizione dei coccetti», e cioè il blocco dei cantieri che di solito segue il ritrovamento di un reperto archeologico durante gli scavi. L’articolo 12 del testo dice che il problema va risolto entro 4 mesi: 90 giorni per un progetto che valorizzi il reperto all’interno dell’opera pubblica, altri 30 per il parere della Sovrintendenza. Ma il ministero dei Beni culturali non è d’accordo e la decisione finale non è stata ancora presa. La seconda misura invece riguarda la Rc Auto, l’assicurazione sulla responsabilità civile per chi guida. Il decreto renderebbe possibile l’utilizzo delle telecamere in zone a traffico limitato e tutor per multare chi non ha l’assicurazione, grazie all’incrocio immediato di diverse banche dati. Ci aveva già provato il governo Letta, senza successo. Adesso si torna alla carica. Palazzo Chigi avverte che le bozze che circolano non sono attendibili e invita ad aspettare il testo definitivo. Ma sarà ancora lunga: venerdì il Consiglio dei ministri dovrebbe essere convocato alle nove di sera. Si gioca in notturna.




«Avanti su tagli e risparmi 
ma teniamo conto della crisi».


Corriere della Sera 27/08/14

«L’Europa è a un bivio: o striscia nella deflazione e nella bassa crescita, oppure dà un colpo di reni e riparte, con le riforme strutturali e un consolidamento di bilancio “growth friendly”» dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Nel corso dell’estate la crisi che colpisce l’Italia da mesi si è estesa alla zona euro, Francia e Germania comprese, e questi dati «confermano che in Europa c’è un problema di crescita, da affrontare con tutti gli strumenti possibili, e a tutti i livelli di responsabilità, nazionale e comunitaria. La politica europea, compresa quella monetaria, e quelle nazionali, con le riforme strutturali e non solo queste, devono sostenersi e integrarsi a vicenda, per portare la crescita a livelli più elevati. La situazione attuale, peggiore del previsto, non fa piacere a nessuno, però richiama l’attenzione sul fatto che c’è bisogno di un’azione comune. Sono in piena sintonia con il presidente della Banca centrale europea , Mario Draghi».

Lo ha visto anche lei quest’estate?
«No, ci siamo sentiti, come ci sentiamo spesso»

Nel quadro del sistema di sorveglianza europea, le riforme strutturali e il risanamento dei bilanci, andrebbero collegate in modo più stretto? Come interpreta le parole di Draghi?
«Questo è un terreno molto importante, perché è l’approccio delle nuove regole europee, che mettono l’enfasi sulle riforme strutturali e il consolidamento fiscale, due fattori che interagiscono tra di loro. Le riforme richiedono tempo, e magari hanno costi immediati nel breve periodo anche in termini di bilancio, ma le riforme migliorano il bilancio pubblico nel lungo periodo, perché riducono le spese. E poi, e qui mi riferisco a Draghi, in un’area fortemente integrata come la zona euro, se un Paese importante fa le riforme ci sono ricadute pure sui Paesi vicini. Se uno cresce di più perché risolve dei nodi strutturali che fermano la sua economia, questo va a beneficio di tutti. Di questi fatti bisognerebbe tener conto in modo esplicito, bisognerebbe avere una “visione europea” delle strategie di riforma, creando spazio per un maggior coordinamento delle politiche europee».

In aprile il governo ha invocato le «circostanze eccezionali», previste dai Trattati europei, per rinviare il pareggio di bilancio di un anno, dal 2015 al 2016. Le condizioni rispetto ad allora non sono cambiate, anzi.
«Il quadro macro della zona euro è peggiorato rispetto a pochi mesi fa. Sia per quanto riguarda i dati sulla crescita, che per l’inflazione in continua flessione. È un fenomeno che desta preoccupazione, e in particolare non aiuta quei Paesi che hanno un debito alto che deve scendere, come noi. Però le circostanze particolari che l’Italia ha invocato in primavera sono anche altre, e le ribadisco.

Noi siamo fortemente impegnati in un piano di riforme strutturali importanti, che porterà ad un aumento della crescita e dell’occupazione, ma che naturalmente richiede tempo per produrre frutti. Questa circostanza vale per noi e per chiunque in Europa ha la necessità di implementare riforme strutturali».

Si possono ipotizzare tempi ancora più lunghi per il pareggio di bilancio?
«Intanto ribadisco ancora una volta che il vincolo 3% nel rapporto tra il deficit e il Pil sarà assolutamente rispettato. Vedremo poi come i tempi di raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio saranno modulati. Dobbiamo rivedere al ribasso le previsioni di crescita del Pil, e quando avremo dati più precisi capiremo quale sarà il cammino verso l’obiettivo. Sicuramente la nostra intenzione è quella di continuare nell’aggiustamento di bilancio».

La legge di Stabilità è alle porte. Il bonus di 80 euro è confermato, ma per il 2015 va coperto. Il Commissario Carlo Cottarelli ha prodotto molti rapporti, ma di tagli se ne vedono pochi...
«Alcuni tagli permanenti sono stati già introdotti con lo stesso decreto sul bonus. La spending review sarà lo strumento guida nella formulazione della legge di Stabilità. Ed è chiaro che andrà coinvolto l’intero governo per identificare obiettivi di risparmio di spesa quantitativi, ma che permettano di preservare l’efficienza dei servizi pubblici. Anche Regioni ed enti locali dovranno essere coinvolti in questo processo».

E quanti tagli servono? Gli obiettivi della spending review sono stati riconsiderati?
«Ci muoviamo intorno alle cifre indicate in aprile col documento di Economia e finanza, ma stiamo entrando solo adesso nella fase di identificazione delle misure. In ogni caso gli obiettivi dei tagli di spesa terranno conto del quadro economico peggiorato».

Si può dire che è politica anche la scelta di non tagliare?
«Certo. È una scelta politica tagliare o no, cosa e come. Tutta la spending review è un’operazione altamente politica: si tratta di individuare le priorità, e in un periodo di risorse limitate. È un’operazione politica valutare se la spesa che si è accumulata nel tempo si debba considerare acquisita o se non si debba ripensare».

Ci sono aree che devono essere sottratte dalla revisione della spesa, come la sanità o l’istruzione?
«Riteniamo che ci siano margini finora largamente non considerati di miglioramento di efficienza in tutta la pubblica amministrazione. In tutti i settori ci sono spazi per risparmiare, non ce n’è uno più spendaccione di un altro».

Senza preclusioni ideologiche, quindi?
«Assolutamente no. Penso che sia un processo di ricerca dell’efficienza, che naturalmente implica anche mettere in discussione posizioni acquisite».

I suoi rapporti con Cottarelli?
«Ottimi, da quando ci conosciamo».

Tensioni con Renzi?
«Favole. Cose che mi annoiano».

Sabato c’è la sfida, Roma-Fiorentina.
«Un regalo già gliel’ho fatto...»

Quale?
«Gli risparmio un pellegrinaggio a Monte Senario. Il problema dei debiti arretrati della pubblica amministrazione di fatto è risolto, e in anticipo rispetto al suo onomastico, il 21 settembre. Il meccanismo dello sconto fatture presso le banche è decollato e sta funzionando molto bene. I fornitori, fin da oggi, possono cedere alle banche il loro credito a condizioni vantaggiose. Ad agosto le imprese sono corse ad presentare le istanze di autocertificazione dei crediti: complessivamente sono quasi 55 mila autocertificazioni, per un importo di circa 6 miliardi. Che si aggiungono ai 26 già pagati con le anticipazioni di tesoreria. Ci aspettiamo che le certificazioni crescano ancora, come i rimborsi».

Partita chiusa, quindi?
«Restano i debiti in conto capitale, che necessitano di una copertura perché impattano sull’indebitamento netto dello Stato. Quest’anno sono 2-300 milioni, l’anno prossimo 2-3 miliardi. Ce ne occuperemo con la legge di Stabilità».

Si faranno i 10 miliardi di privatizzazioni previsti per quest’anno?
«Sicuramente entreranno delle risorse. È un processo avviato, che non va visto con una logica contabile. Gli immobili e alcune partecipazioni vanno valorizzate prima di essere cedute, con azioni di management importanti. Operazioni che richiedono tempo, ma che consentono di mettere sul mercato aziende più efficienti e appetibili».

Ora arriva la Tasi. Non c’è il rischio di un ingorgo dei pagamenti a fine anno? Soldi che se ne vanno in tasse invece che in consumi?
«Il rischio che ci sia un ingolfamento c’è se i sindaci non prenderanno decisioni sulle aliquote nei tempi previsti. Ma sono fiducioso, vedo che i Comuni si stanno muovendo. Quanto al peso delle tasse sulla casa ci tengo a dire una cosa. È sbagliato, come ho letto, fare paragoni tra quest’anno e il 2013. Il confronto giusto va fatto con il 2012, perché l’anno scorso c’erano delle esenzioni “una tantum”, e i dati che abbiamo noi, basati sul gettito effettivo dei Comuni che hanno deliberato le aliquote già nei mesi scorsi, dicono che sulla prima casa, rispetto al 2012, il carico fiscale è mediamente minore, e che rimane sugli stessi livelli per le seconde case e gli altri immobili».

La Festa, un test per il nuovo Pd

Stefano Menichini 
Europa  

In passato serviva a studiare i rapporti di forza nel partito e fra i partiti. Tema ora inesistente. A Bologna vedremo alla prova un gruppo dirigente atteso a un impegno terribile
Matteo Renzi ha imposto i “mille giorni” come tormentone dei dibattiti della Festa di Bologna, conferma del frame nel quale vorrebbe inscrivere tutta la dinamica politica dei prossimi tre anni. Nessuna velleità di precipitazioni elettorali. Nessun bisogno di colpi a effetto e a pronta presa. Stabilità di governo e di maggioranza (o meglio: maggioranze, considerando quella per le riforme istituzionali). Completamento delle modifiche alla Costituzione. E ovviamente, dettaglio che non guasta, la possibilità d’ora in poi di sfuggire all’urgenza di rispettare le strettissime scadenze che da neopremier si era dato appena incaricato.
Il quadro politico nazionale lavora tutto per Renzi, comprese le opposizioni. Berlusconi è ormai all’appoggio esterno. Cinquestelle si consuma con mosse individuali e di gruppo clamorosamente autolesionistiche. La Lega sarebbe tornata dura e pura, se dietro alle sparate di Salvini non si indovinassero violente tensioni interne.
Renzi ha davanti a sé, con cui fare i conti, “solo” la crisi italiana. Cioè un autentico dramma, che però ha scelto consapevolmente di affrontare. Se non riuscirà a prevalere non potrà darne la colpa ad avversari politici interni o esterni al Pd, visto che in pochi mesi li ha fatti fuori tutti. La nomina di Federica Mogherini nell’incarico voluto per lei fin dal primo giorno dirà che anche in Europa Renzi non le ha forse fatte tutte giuste (e deve ancora portare a casa risultati su flessibilità e immigrazione), ma che ironie e sarcasmi sono stati prematuri: l’Italia conta più di prima, e tra tanti premier azzoppati il nostro è considerato in salute, perfino un punto di riferimento.
Detto di alcune condizioni favorevoli, è ovvio che tirare l’Italia fuori dalla secca della recessione rimane impresa improba. Farcela o no, non dipenderà solo dall’efficacia e rapidità delle misure elaborate tra palazzo Chigi e ministero dell’Economia, né dalle mosse della Bce, né dal coinvolgimento di imprese e lavoratori. La prova del fuoco toccherà anche a tanti altri nel governo, nelle amministrazioni e nel Pd, postazioni dove in un anno c’è stato un ricambio quasi integrale.
In passato la Festa nazionale era il luogo dove studiare le alchimie dei rapporti fra i partiti e all’interno del partito: tema adesso praticamente inesistente. Quest’anno sarà molto più interessante misurare la maturità di una nuova generazione scaraventata in poco tempo nel compito più difficile, dovendo vincere i propri limiti e diffidenze non sempre immotivate.