sabato 30 novembre 2013

....da matteo...

 


Ormai ci siamo. Mancano 8 giorni e l'Italia può finalmente cambiare verso. Stavolta è la volta buona. Stavolta è proprio la volta buona.
Chi può votare? Tutti. Nessuno si senta escluso. Anzi, mi verrebbe voglia di cambiare verbo: chi deve votare? Tutti quelli che non si rassegnano.
Perché le cose stanno più o meno così:
Berlusconi ha i suoi guai, ma ha scelto una linea politica abile. Lui fa l'opposizione e si prepara alla campagna elettorale: a Berlusconi non riesce governare, e questi 19 anni ce lo hanno dimostrato. Però è bravissimo a fare campagna elettorale, e noi l'abbiamo vissuto sulla nostra pelle.
Grillo domani torna alla sua piazza, al suo Vaffa Day. Insulterà, come sa fare lui. E' un voto di protesta quello che intercetta. Poi però non realizza nulla di quello che promette perché i Parlamentari stanno sul tetto a protestare, non al piano di sotto a votare.
E poi c'è il PD. Che ha mille limiti, mille difetti. Però coinvolge i cittadini. E ci mette la faccia come nel confronto SKY di ieri (una discussione civile, no? A me è piaciuta e trovo che Gianni e Pippo siano stati molto bravi. Mi piacerebbe che la facessero anche gli altri).
Il Governo delle Larghe Intese non c'è più.
Ora c'è una maggioranza di emergenza, diversa dalle larghe intese e diversa da che ha i numeri per fare le cose che da anni si dicono e non si fanno.
Chi mi vota, non vota per me. Non vota solo per me.
Vota per un pacchetto di proposte specifiche.
Chi vota per me vota per una riforma della politica che consenta di risparmiare 1 miliardo di euro sui 2,5 miliardi. Che rottama le indennità di Senato e Province, riduce costi e posti. Fa dare alla politica il buon esempio. E stavolta è la volta buona perché i numeri ci sono. Un PD che cambi rispetto al passato può farlo perché stavolta è la volta buona.
Chi vota per me vota per una riforma del lavoro dove si semplifichino le norme per attrarre investimenti e semplificare la burocrazia, si rivoluzioni il sistema della formazione professionale, si investa sulle politiche attive per il lavoro. Ma nel 2014 si inizi a disboscare le regole del gioco sul fisco, sulla burocrazia, sulla giustizia, sull'energia per rendere l'Italia più competitiva. Un PD che cambi rispetto al passato può farlo perché stavolta è la volta buona.
Chi vota per me vota per un'Europa che non sia solo dei burocrati, ma abbia un'anima. Dove ci sia l'Erasmus anche per le scuole e il servizio civile obbligatorio. Dove Lampedusa sia un problema di tutti e non solo dei suoi abitanti o del suo sindaco e dove la politica estera non sia spezzettata tanto quanti sono gli stati membri. E dove il patto di stabilità non blocchi il Comune di Olbia e dove i fondi europei si utilizzino bene e non in marchette. Un PD che cambi rispetto al passato può farlo perché stavolta è la volta buona.

Stavolta è la volta buona. Ma ancora in tanti non ci credono. E allora l'ultima settimana vi chiedo una mano. Perché io da solo non ce la faccio. Non ci sono supereroi da queste parti: ci sono persone che credono che insieme si possa cambiare il mondo. Una leadership forte è fondamentale. Ma il vero leader è chi sa fare insieme agli altri, non senza gli altri. Ho bisogno di tutti a cominciare da te, che stai leggendo questa email.
Se ci credi, se credi che sia la volta buona, puoi:
1) Scaricare la rubrica del tuo telefonino e la rubrica email. Fra questi ci sono sicuramente almeno 10 persone che puoi coinvolgere in questo progetto. Dieci persone. Che magari non vanno a votare perché non sanno che sono primarie aperte. Oppure non sono convinte del candidato ma si fidano di te. O ancora non credono più alla politica e sono rassegnate. Questa non è la mia campagna elettorale, è la nostra campagna elettorale: dammi una mano. Porta dieci persone a votare ( trova il tuo seggio qui ) E L'Italia proviamo a cambiarla insieme. Perché uno da solo non ce la fa
2) Darci una mano economicamente. Trasparente ogni centesimo raccolto, come sarà trasparente ogni centesimo speso. Per il momento siamo quasi a 70mila euro. Nell'ultima settimana mi piacerebbe arrivare a 80mila, tutto con contributi da 5 euro in su. Ci proviamo? Se vuoi dare un contributo, puoi farlo qui.
3) Darci una mano attiva nell'ultimo giorno di partecipazione. Sabato 7 dicembre infatti scendiamo in...piazza. Mille tavolini in mille piazze d'Italia per raccontare cosa sono le primarie, qual è il nostro sogno concreto, perché questa è la volta buona. E anche come si vota, le indicazioni logistiche. Mille tavolini una campagna straordinaria di mobilitazione. Mille piazze per mille persone. Raggiungiamo un milione di persone. Tutti insieme. Vi va?
Io in questi giorni mi muovo un po' in Italia, ma continuando a fare - come sempre il Sindaco (ieri eravamo al Sodo, giovedì approvato l'assestamento di bilancio, tutte le info amministrative su www.matteorenzi.it). Sono sempre più convinto che la politica si faccia stando in mezzo alle persone e non solo nei palazzi o nelle sedi di partito.
Oggi Palermo alle 18, domani Pesaro alle 11.00, Venezia alle 17.00 (Grillo parla di insulti, noi rispondiamo da Venezia con le proposte sulla cultura), Udine alle 20.30, Trieste lunedì mattina per parlare di Europa in una capitale europea. Quindi Roma martedì, Bologna mercoledì, Napoli giovedì, Milano venerdì sera. (qui potete vedere nel dettaglio orari e luoghi) Sabato ci sarò anche io ai tavolini in piazza a dare una mano. Nel mezzo cercheremo di lanciare alcune proposte concrete. Dal Piemonte venerdì 6, alle 11.30 con Ermete Realacci, Guido Ghisolfi, Catia Bastioli e molti amici parleremo di Green Economy e dei posti di lavoro che si possono creare scommettendo sull'ambiente.
Faremo anche un po' di tv: tra gli altri Lunedì sera da Palazzo Vecchio un collegamento da Piazza Pulita, Porta a Porta martedì sera (dopo l'iniziativa di Roma) e Otto e mezzo venerdì sera in collegamento da Milano.
Nel frattempo continua l'esperimento del #matteorisponde che stiamo facendo sia per le questioni cittadine, che per le questioni nazionali.

Siamo a un passo. Questa è una settimana che potrebbe cambiare verso all'Italia. Bisogna crederci. Chi resta a casa si tiene quello che c'è. Chi non si mette in gioco non cambierà mai.
Me la date una mano?

Un sorriso,
Matteo Renzi

belle facce....

CURZIO MALTESE

È  dacie illudersi con la politica italiana, ma l’impressione lasciata dalla sfida televisiva dei tre candidati alla segreteria del Pd è che sia davvero cominciata una nuova stagione. È stato un bello spettacolo, civile, lontano anni luce dal solito pollaio televisivo affollato dalle solite vecchie facce, intristite dall’abuso di potere.
Prima di stabilire chi abbia vinto, forse nessuno, bisogna dire che Renzi, Cuperlo e Civati hanno trasmesso insieme l’idea di una nuova classe dirigente alle porte. Non sappiamo quanto vale e neppure che cosa farà. Sappiamo però fin troppo bene quanto valeva chi li ha preceduti, e tanto basta.
Comunque vada il voto dell’8 dicembre, il primo partito d’Italia ha deciso di voltare pagina. Per la verità, l’hanno deciso gli elettori. E questa è ragione di sollievo. Non avremo più a che fare con un gruppo dirigente della sinistra che ha cominciato la sua parabola affossando l’idea dell’Ulivo e il primo governo Prodi, per rimettere in sella il Cavaliere con la Bicamerale. Vent’anni dopo, ha perso elezioni già vinte e ha tradito ancora una volta Prodi, colpevole d’aver battuto Berlusconi due volte su due. Questi, dal 9 dicembre, andranno in pensione. Non soltanto perché lo vuole Matteo Renzi, il rottamatore. Ma perché è finita una stagione, un’epoca maledetta, uno stile e un linguaggio del far politica, e la serata dei tre sfidanti ne è stata la plastica dimostrazione.
Renzi, Cuperlo e Civati sono diversi fra loro, per quanto ieri si siano trovati sorprendentemente d’accordo su molte cose, ma soprattutto sono molto diversi dalla compagnia di giro televisiva della seconda repubblica. Non sono uomini di potere, conducono vite normali, hanno belle facce, conservano un’ingenuità e una passione che sembravano passate di moda. Per una volta, sono politici che assomigliano a chi li vota. Un fenomeno che a sinistra non si vedeva da decenni.
Nel dettaglio, Matteo Renzi aveva il compito più difficile, l’outsider divenuto favoritissimo, ma se l’è cavata bene. Gli avversari l’hanno aiutato, togliendolo dall’imbarazzo di essere il futuro segretario del Pd destinato a far cadere il governo a guida Pd. Alla fine, Civati e Cuperlo sono sembrati più anti governativi di lui. Ottima la battuta sull’inquietante piano di privatizzazioni: «Così è compro oro». Gianni Cuperlo è un intellettuale elegante, scrive meglio di quanto non renda nei dibattiti televisivi. È stato il più chiaro ed efficace nei temi di politica economica, l’unico ad avere il coraggio di dire qualcosa davvero di sinistra sulla patrimoniale. Se riesce a far stare zitti per una decina di giorni fino al voto i suoi ingombranti sponsor, a cominciare da D’Alema, può guadagnare terreno. Pippo Civati è stato la rivelazione della serata, almeno per chi non lo conosce. È un mago di Twitter, bravissimo nelle risposte secche, è dotato di un sense of humour raro per la categoria (anche Grillo da quando ha fondato un partito non fa più ridere), è il più innovativo nel linguaggio, il più radicale sul tema dei diritti, e per giunta non ha nulla da perdere. Nell’insieme i tre fanno venire voglia di andare a votare, che di questi tempi è un miracolo. Forse è ancora difficile immaginarli come uomini di Stato, impegnati a rappresentare una grande nazione nei consessi internazionali. Ma se si ripensa a quelli che abbiamo mandato in giro per il mondo a rappresentarci in questo ventennio, ogni timore svanisce. Per ora sono già una buona alternativa a una vecchia politica nauseabonda, ma anche a una nuova anti politica da osteria. Non è poco.

La Repubblica - 30/11/2013

PD - il cinghialetto e il pellicano

30 novembre 2013 alle ore 13.39

Giovanni Ambrogio Colombo
(Milano - Italia)

 

Si va o non si va? Si va. L'8 dicembre si va a "primariare". A dire il vero, cavo al piè sonante sembra il PD. Collassato il 19 aprile 2013, per colpa dei 101,  da quel dì non si è più ripreso. E' l'emblema dello sfinimento della generazione post-comunista e cattolico-democratica. Quel che si vede in giro è un soggetto instabile e incoerente, gestito da micronotabili, uniti fra loro da patti fragili, che oggi ci sono e domani chissà. Eppure il PD continua ad essere il mio partito, pardon,  il mio container di riferimento e quindi, almeno il giorno delle primarie, risponderò all'appello.

Matteo, Gianni o Pippo? Matteo. L'ho già votato l'anno scorso, il bimbaccio toscano (copyright Marco Damilano),  quando c'era in ballo la premiership.  La sua candidatura avrebbe messo a disposizione del centrosinistra l'arma vincente: la giovinezza (con annessa rottamazione). Invece è andata com'è andata,  l'usato sicuro non ha funzionato. Adesso la competizione è per la leadership. Dopo un anno il bimbaccio è rimasto tale e quale e ha l' energia del cinghialetto per spazzar via  l'autoreferenzialità dei "cacicchi".  Quindi lo voterò nuovamente, pur sapendo che neanche lui è l'uomo giusto per  questa fase apocalittica.
Chi mi conosce lo sa: intendo apocalisse nel suo significato tecnico di "rivelazione".
Si sta rivelando in modo tragico l'insostenibilità  di  questo modo di fare politica (mi limito  alla politica, ma il discorso va  esteso a 360° gradi cfr. Lombardia libera, ed. Il Margine).
Questa politica non dice e non trasmette più niente. Si è fatta vampiresca, ci toglie quel poco di sangue che ci resta nelle vene, succhiando le ultime gocce della nostra residua attenzione.  Non ce la facciamo più!Non è più sufficiente compensare la crisi economica che ci preoccupa e il senso dilagante di morte che ci soffoca  con la velocità  delle comunicazioni  e  l'incremento parossistico degli eventi. 
Abbiamo bisogno di un profondissimo ricominciamento, che esige innanzitutto la "primavera dei cuori". 
Anche qui, chi legge i miei messaggi in bottiglia sa che intendo "cuore" non alla maniera dei rotocalchi, il campo affettivo alternativo all'ordine razionale, ma in termini giudaico-cristiani, il luogo in cui  si realizza l'unità della persona (l'ebraico lo chiama lebh, la tradizione cristiana "il senso dei sensi").  In politica ( e al lavoro... e al bar...)  sono i cuori che non funzionano più. Cuori inariditi per troppa comunicazione e marketing, 
che da tempo immemorabile non vengono inzuppati nella cultura e nella spiritualità.  Cuori bloccati da un eccesso di  ambizione e da un narcisismo furoi controllo. Cuori insensibili alle tragedie di ogni giorno.  
Invece c'è ripartenza solo con cuori palpitanti, intelligenti, generosi. Cuori di pellicani.
Nel tempo dell'apocalisse l'azione del cinghialetto serve per preparare l'arrivo del pellicano. Chi è costui?  "Sono divenuto simile al pellicano nel deserto... "(Salmo 101,7).  
Nella tradizione medievale il pellicano, che  curva il becco verso il petto per dare da mangiare ai suoi piccoli i pesci che ha nella sacca,  è stato assunto a simbolo della carità: è colui che nutre i suoi cari  con il sangue che  gli sgorga dal petto.    
Chi si presenterà così, mostrandoci il suo cuore ferito per amore dei figli (figli=futuro),  sarà lui il vero leader che ci guiderà nella traversata nel deserto.
Pie pellicane, inébria me...
Saluti rossi come le bandiere di un tempo

Il gioco è del Pd, non deve sbagliarlo

Stefano Menichini 
Europa   

Letta avrebbe evitato il dibattito parlamentare. Può farlo diventare utile se serve a dimostrare a tutti che davvero Forza Italia non conta più. E se con Renzi ci si dà un piano comune.
La chiamano «vendetta». E già l’evidente esagerazione dà conto del basso potenziale delle armi rimaste in pugno a Forza Italia ora che s’è messa fuori dalla maggioranza. L’aver convinto Napolitano della obiettiva necessità di un passaggio parlamentare che ridia legittimità al governo dopo la rottura è stato al massimo un dispetto per Enrico Letta. Il quale si sarebbe risparmiato quel dibattito (durante il quale lui e Alfano rischiano la parte di due San Sebastiano), ma sta già lavorando per trasformarlo in qualcosa di politicamente utile.
Che la discussione parlamentare sui nuovi equilibri non potesse che svolgersi dopo l’8 dicembre appare semplicemente rispettoso del senso comune. Se i berlusconiani reagiscono malissimo al calendario di Letta è perché già vedono il lato negativo della posizione che hanno scelto di prendere: dall’8 in avanti, loro e Beppe Grillo potranno sparare contro palazzo Chigi e contro i «traditori» tutte le bordate che vorranno. Sarà però chiaro, davanti all’intera opinione pubblica, che ormai chi decide in Italia sono il capo dello stato, il presidente del consiglio, il suo vice e il nuovo segretario del Pd, presumibilmente Matteo Renzi.
A seguire le voci di Transatlantico, tutto sembra sempre rientrare dentro chissà quali strategie e mosse geniali. «Sarà Renzi a farci il favore di far fuori il governo», pare la più astuta di tutte. Non se ne vuole vedere la controindicazione: che se i tempi e l’intera agenda della politica li decidono i tuoi peggiori avversari, e due di questi stanno nello stesso partito, sono amici da molti anni e dicono anche di aver stretto un patto fra loro, allora con tutta la tua astuzia sei condannato a non toccare palla per un bel po’.
Non siamo così naif o partigiani da sentirci sicuri di questo vantaggio: Letta e Renzi saranno capaci di approfittarne, una volta che entrambi potranno considerarsi saldi nelle rispettive postazioni? Il Pd dopo le primarie sarà così intelligente da mettere in piedi (e poi condividere e sostenere tutti insieme) una strategia per il 2014 sicuramente complicata e rischiosa, ma molto promettente?
O come primo atto della nuova stagione si cercherà di ridimensionare il nuovo leader, come usava fare appunto nei partiti “di una volta”? Così, tanto per fare a Forza Italia il favore di rimettersi al loro livello.

venerdì 29 novembre 2013

Le uscite di notte per aiutare i poveri «Potrebbe esserci anche il Papa».

CITTÀ DEL VATICANO — «Quando dico al Papa “stasera esco in città”, c’è sempre il rischio che lui venga con me. È fatto così, all’inizio non pensava al disagio che si poteva creare....». L’arcivescovo Konrad Krajewski, 50 anni, elemosiniere del Papa, ha un lampo divertito negli occhi mentre incontra i giornalisti e, quando gli si chiede se sia mai capitato che Francesco lo accompagnasse nottetempo in giro per Roma, nelle sue missioni in aiuto dei poveri, si limita a un sorriso e a un «prego, la seconda domanda» che scatena l’esegesi del suo silenzio: possibile che Bergoglio esca in incognito per Roma, come peraltro faceva a Buenos Aires quando da arcivescovo visitava la favela Villa 21, la gente lo chiamava «padre» e alcuni non sospettavano neppure che quel prete in clergyman fosse il cardinale?

Più tardi la faccenda monta e «padre» Krajewski («il Papa mi ha detto: “Quando qualcuno ti chiama “eccellenza” chiedi cinque euro di tassa per i poveri! Anche a me è venuto di chiamarti così ma non ho cinque euro in tasca....”») si fa un’altra risata al telefono col Corriere , «ma non è vero niente, si figuri: certo, al Santo Padre piacerebbe, come piacerebbe uscire a confessare i fedeli, ma non gli è possibile, non è mai successo: chi interpreta diversamente il mio sorriso, si vede che non sa sorridere...». Lo stesso Francesco, del resto, aveva raccontato di essere «un prete callejero », di strada, «quante volte ho avuto voglia di andare per le strade di Roma!, ma capisco che non è possibile...». Il che, se non altro, spiega come sia invece possibile che una delle più alte cariche curiali si alzi alle 4.30 del mattino nel suo appartamento di Borgo Pio («sono rimasto lì, così la gente ha un accesso più diretto che in Vaticano») e passi buona parte del suo tempo in giro per l’Italia o attraversando la notte Roma sulla sua Fiat Qubo bianca («un’auto blu spaventerebbe, però ho la targa del Santo Padre così possiamo entrare ovunque») in aiuto di chi ha bisogno. Mai si era visto un elemosiniere pontificio itinerante. Ma quando lo nominò, in agosto, Francesco lo avvertì: «Non sarai un vescovo da scrivania, ti voglio tra la gente, il prolungamento della mia mano per portare una carezza ai poveri, ai diseredati, agli ultimi». Krajewski sorride: «Il Papa mi ha detto: “La scrivania non fa per te, puoi venderla; non aspettare la gente che bussa, devi cercare i poveri”. Perché Francesco vuole stare coi poveri. A Buenos Aires cenava e stava con loro per condividerne la vita. E ai miei familiari spiegava: “Queste sono le mie braccia, sono limitate, ma se le prolunghiamo con quelle di Corrado possiamo toccare i poveri di tutta Italia. Io non posso uscire ma lui è libero”».

Senzatetto, immigrati, persone sole. Non è solo questione di soldi. C’è anche «la signora che chiama perché ha visto un ubriaco da riportare a casa». Le giovani guardie svizzere, gendarmi e volontari danno una mano. E poi «ho cominciato la visita a case di cura e di riposo». Perché la carità del Papa è anche un rosario ad anziani «che magari hanno figli vicini ma nessuno va a trovare: arrivo per conto di Francesco, abbraccio tutti camera per camera, preghiamo e pranziamo o ceniamo assieme». La Qubo macina migliaia di chilometri.

L’Elemosineria, 11 dipendenti fissi e 17 calligrafi, si finanzia con le donazioni e circa 250 mila euro all’anno ricavati dalla vendita di pergamene con benedizione apostolica(costano «da 5 a 15 euro») per matrimoni, battesimi e così via. Nell’ultimo anno l’elemosina del Papa — per gli interventi più consistenti ci sono altri enti, oltre alle Caritas — ha raggiunto 6.500 persone, un milione di euro circa. Ma in questi mesi la crescita è esponenziale. «Tutti i soldi sono spesi per i poveri. Il Papa mi ha detto: “Il conto è buono quando è vuoto, così si può riempire. Non investire, non vincolare: spendi tutto per i poveri”. Poi, ogni volta che mi vede, chiede: “Hai bisogno di soldi?”».

Certo bisogna spendere «con intelligenza, essendo sicuri». Quasi ogni mattina Francesco fa avere a «padre Corrado» una busta colma di richieste, «tu sai cosa devi fare». Si controlla con i parroci che siano autentiche e si invia un assegno circolare, in genere da qualche centinaio a un migliaio di euro. L’anziana di Venezia cui hanno rubato il portafogli mentre andava a comprare le medicine al marito. La persona che non riesce a pagare un mese di affitto. Ma anche la bimba di Chieti in fin di vita.

Quando il Papa lo mandò tra gli immigrati di Lampedusa portò con sé del denaro. «Ma poi mi resi conto che non era dei soldi che avevano immediato bisogno. Francesco mi chiese: che possiamo fare? E ci siamo inventati la cosa delle carte telefoniche, ne abbiamo prese 1.600...». Carità non significa solo dare qualche soldo. «Toccare nei poveri la carne di Cristo» ripete Francesco. Krajewski sospira: «Un cardinale mi ha raccontato che ogni giorno, in via della Conciliazione, dà a un povero due o tre euro. Ma io gli ho detto che per lui quelle monete sono nulla. Piuttosto, gli ho chiesto, perché non fa salire il povero a casa sua, magari lo porta in uno dei suoi tre bagni e lo lava?».



 
Gian Guido Vecchi

«Su carceri e magistratura ora si può fare una riforma».

ROMA — Custodia cautelare, responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, ergastolo. Decaduto Silvio Berlusconi, decadono, forse, anche le ragioni di una resistenza alle riforme. E Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera, risponde all’appello di Angelino Alfano.

Finora, riforma della giustizia era sinonimo di interventi ad personam o di norme per «riformare» i giudici sgraditi.

«È vero. Per anni il Pdl ha cercato solo l’impunità per Berlusconi. Oggi c’è una nuova fase. E noi non abbiamo paura, siamo pronti».

Il Pd si può fidare di Alfano?

«Alla domanda se venisse prima l’interesse dell’Italia o quello di Berlusconi, Alfano e gli altri ministri hanno risposto la prima. Mi sembra una posizione da apprezzare».

Il governo ce la farà a fare le riforme?

«Ora non ci sono più i ricatti di prima e c’è una maggioranza più coesa. Da una parte ci siamo noi che vogliamo le riforme. Dall’altra, il partito dello sfascio, l’alleanza dei populismi, Grillo e Berlusconi».

Come immaginate la riforma?

«Abbiamo già cominciato da tempo, indipendentemente da Berlusconi. La pdl Ferranti, approvata in Commissione Giustizia, limita l’abuso della custodia cautelare. In Italia 4 detenuti su 10 sono in attesa di giudizio. in Gran Bretagna solo 1,6 su 10. Tre su 4 vengono assolti. È inaccettabile».

La responsabilità civile dei magistrati è un tema delicato per il Pd.

«La responsabilità disciplinare dovrebbe essere assunta da un organismo terzo, una Alta corte disciplinare per tutte le giurisdizioni, formata non esclusivamente da magistrati. Per gli errori giudiziari la responsabilità non può che essere dello Stato. Poi è chiaro che potrà rivalersi sui magistrati».

Il sovraffollamento delle carceri?

«Siamo per la depenalizzazione. A causa della Fini-Giovanardi ci sono 27 mila tossicodipendenti in carcere. E molti immigrati, a causa della Bossi-Fini. Abbiamo riempito le carceri di poveri cristi, di indifesi, degli ultimi».

Le toghe hanno troppo potere, dice Violante.

«Tuteliamo indipendenza e autonomia dei giudici. Ma questo non significa irresponsabilità o arbitrarietà.

L’obbligatorietà dell’azione penale?

«È giusta, ma dobbiamo rendere più chiari i presupposti di intervento dei giudici. Deve essere chiaro che si agisce quando c’è una notizia di reato».

La separazione delle carriere?

«Non è il problema principale. Ma ci sono altre esperienze in Europa, con modelli diversi dal nostro, che non vanno guardate con pregiudizio. Voglio poi ricordare una mia battaglia personale: l’abolizione dell’ergastolo. La lezione tenuta da Aldo Moro nel ‘76 alla Sapienza è assolutamente attuale e l’ergastolo non è più accettabile».



 
Alessandro Trocino

giovedì 28 novembre 2013

radicali....the end...

La Cassazione boccia i referendum dei Radicali: «Poche firme» Nessuno dei sei quesiti «per una giustizia giusta» ha raggiunto le 500mila firme.

radicali....the end...

La Cassazione boccia i referendum dei Radicali: «Poche firme» Nessuno dei sei quesiti «per una giustizia giusta» ha raggiunto le 500mila firme.

radicali....the end...

La Cassazione boccia i referendum dei Radicali: «Poche firme» Nessuno dei sei quesiti «per una giustizia giusta» ha raggiunto le 500mila firme.

che vergogna.....


Una moscia giornata storica

Stefano Menichini 

Europa  

La giornata storica si riduce a poca cosa per i berlusconiani: una buona resistenza nell'aula del senato, un mezzo flop in piazza. E sull'8 dicembre ora tutto il Pd deve raccogliere la sfida.
I senatori forzisti e i loro alleati si sono battuti bene nell’aula di palazzo Madama. Alcuni abissi di volgarità (la Mussolini, come ti sbagli), alcuni interventi di carattere giuridico insidiosi, tanti argomenti noti e stranoti. Ma nel complesso, data la gravità dell’evento dal loro punto di vista, l’ultima trincea berlusconiana in senato è stata difesa con una certa efficacia. Non si è verificata neanche la ipotizzata fuoriuscita in massa dall’aula.
Fuori, nella Piazza che Berlusconi dovrebbe saper muovere molto meglio del Palazzo, non è andata altrettanto bene. Altro che fiumane di popolo: non più di duemila persone si sono accalcate ad arte nella strettissima via del Plebiscito. Il discorso del capo decaduto non è stato all’altezza del momento storico, si è capito solo che Berlusconi vuole aprire una competizione diretta con il Pd intorno all’8 dicembre: ottima notizia, diventano fortissime le ragioni che Europa proponeva ieri perché tutti i democratici diano il massimo per un’alta affluenza alle urne per il segretario.
L’unico altro dato politico della giornata (capita spesso che i momenti catartici si riducano a poca cosa) è che sarà difficile gestire la “scissione concordata” dei berlusconiani: almeno una parte degli irriducibili rimasti col Cavaliere non rinuncia a toni da scomunica nei confronti dei cugini separati. E nelle ultime ore, fra la contestazione alla finanziaria “delle tasse” e l’accusa di sudditanza alla sinistra forcaiola, Alfano ha cominciato a pagare i suoi prezzi.
Il fatto evidente che Berlusconi si consideri fin d’ora in campagna elettorale non vuol dire molto. Né le sorti del governo né quelle della legislatura dipendono più da lui. Può darsi che dal suo punto di vista chiamarsi fuori e mettersi all’opposizione fosse l’unica opzione possibile, di certo lo condanna a non poter più influire sulle dinamiche politiche. Sarà aggressivo e pugnace fuori dal parlamento (anche se c’è da mettere in conto una fase di depressione), però il triangolo della decisione si restringe a Letta, Alfano e il prossimo segretario del Pd, sotto la supervisione del Quirinale.
La nascita delle larghe intese, appena sette mesi fa, fu da tutti giustamente considerata il capolavoro dell’intera vita politica di Berlusconi. Comunque la si pensi su di lui, questo è sicuramente il suo momento più basso, anche se ovviamente non l’ultimo.

mercoledì 27 novembre 2013

c'era.....


suggerimenti per il programma di governo

"Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene."
papa Francesco

essere di sinistra....

"È facile combattere la povertà con i pacchi della Caritas, è facile dire che in parrocchia hanno quadruplicato gli aiuti, specie per le persone separate che non ce la fanno. È facile fare la lotta alla povertà facendo le manifestazioni contro la povertà. Ma un partito politico non fa le manifestazioni contro la povertà, un partito politico cambia le cose, cambia le regole. Un partito agisce perché si crei occupazione, non mette le bandierine. La lotta alla povertà si fa portando investimenti, che non vuol dire fare dell'Italia un discount, ma creare lavoro."
Matteo Renzi

accade in Germania

Salario minimo  viene fissato a 8,50 euro l'ora a partire dal 2015. L'obiettivo è sostenere i redditi da lavoro più bassi e stimolare i consumi interni, come chiesto a Berlino dalla Commissione europea e da diversi governi Ue ma anche dall'Ocse e dal Fmi. Secondo l'osservatorio economico DIW, in Germania 5,6 milioni di persone, pari al 17% dei lavoratori dipendenti, guadagna attualmente meno di 8,50 euro l'ora. 
la repubblica 27 novembre 2013

L’“enciclica” trasversale di papa Francesco

Massimo Faggioli 

 

L'esortazione Evangelii Gaudium è insieme più a sinistra di Obama nella critica del liberismo e critica nei confronti del "falso progressismo" su aborto e ordinazione femminile
Dopo le molte dichiarazioni e i gesti compiuti da papa Francesco fin dai primi minuti del suo pontificato, la esortazione apostolica Evangelii Gaudium, datata 24 novembre e pubblicata ieri, è il primo vero documento programmatico. Il titolo rappresenta bene le due fonti a cui si rifà il programma di nuova evangelizzazione (termine peraltro usato assai di rado nel documento).
Si tratta della costituzione pastorale del Vaticano II Gaudium et Spes (1965) e la Evangelii Nuntiandi di Paolo VI (1975). È la riabilitazione pubblica di un magistero conciliare e post-conciliare particolarmente negletto durante il pontificato di Benedetto XVI e nella teologia che ha fatto carriera ecclesiastica negli ultimi anni. Le citazioni del predecessore ci sono, come di Giovanni Paolo II, ma l’impianto intellettuale è molto più conciliare e post-conciliare che animato dallo scetticismo verso la «opzione preferenziale verso i poveri» – scetticismo (quando non cinismo) che ha regnato fino a pochi mesi fa nel magistero ufficiale.
Ma Evangelii Gaudium di papa Francesco offre una visione trasversale rispetto alle trincee saldatesi nel corso degli ultimi decenni. Da una parte apre a una visione sociale della Chiesa, povera per i poveri, bisognosa di riforma (incluso il papato), più collegiale (con una attenzione particolare alle conferenze episcopali), più aperta alle varie forme di ministero, meno clericale. Sulla questione della giustizia sociale Francesco si colloca nettamente a sinistra di Obama e di tutta la sinistra parlamentare mondiale, con una richiesta radicale di regolamentazione del mercato per sanare le crescenti diseguaglianze e un’accusa alle ideologie del liberismo trickle down.
Dall’altra parte Francesco non cambia la posizione della Chiesa sull’aborto, che non è vero progressismo, e sull’ordinazione delle donne, «che non è in discussione». Papa Francesco usa un linguaggio più inclusivo che nel passato, ma sostanzialmente vede nelle richieste per l’ordinazione delle donne il rischio di un maggiore e non minore clericalismo nella Chiesa: «Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere».
Ma questo argomento non placherà le teologhe femministe, che potrebbero vedere in Francesco una sostanziale continuità con «la teologia del corpo» e «il genio femminile» di Giovanni Paolo II, e in una retorica della differenza per troppo tempo usata per mantenere il sistema patriarcale nella Chiesa.
Evangelii Gaudium rappresenta un cambio di orizzonte soprattutto per la filosofia ispiratrice il pontificato. In un passaggio breve quanto tranciante, Francesco afferma che la realtà è più forte delle idee. È un addio al neo-platonismo tipico del pontificato precedente, sia quanto a visioni di Chiesa sia quanto a concezioni politico-sociali. In particolare, Francesco nota tra «i segni dei tempi» la crisi dell’impegno in favore delle cause comuni, quelle che trascendono l’interesse personale. Questo fa di Francesco un papa non assimilabile né alla cultura liberale né a quella progressista nelle sue forme individualiste e libertarie.
È un’occasione per mettere fine alle “guerre culturali” che hanno devastato la Chiesa negli ultimi anni – una situazione a cui Evangelii Gaudium fa riferimento in modo diretto. Resta da vedere quanto questo documento potrà fare per costruire un ponte tra le due diverse anime del cattolicesimo, quella tradizionalista-neoconservatrice e quella sociale-liberale.
La recezione di Francesco sarà particolarmente delicata nella Chiesa più ideologizzata e polarizzata, quella statunitense. In una discussione pubblica a Baltimora giusto tre giorni fa, di fronte alla vasta platea della convention della American Academy of Religion, il cattolico neoconservatore americano per eccellenza, George Weigel, aveva offerto una visione meramente “continuista” di Francesco con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI. Resta da vedere se la Evangelii Gaudium basterà a convincere Weigel e tutti i neoconservatori e neoliberali che Francesco è qualcosa di nuovo e di diverso dai 35 anni di Wojtyla-Ratzinger.

Così l’8 avrà ancora più valore

Stefano Menichini 
Europa   

Berlusconi e Grillo mobilitano la propria gente. Le primarie devono diventare una grande prova di forza democratica, la prova che il Pd è pronto a qualsiasi evento.
Può darsi che sia un po’ eccessivo parlare di «strategia della tensione», come fa il Pd a proposito della manifestazione di oggi: perché questo concetto purtroppo in Italia ha un significato molto preciso, storicamente legato a fatti terribilmente più seri e pericolosi dell’adunata forzista. Inoltre, per quanto i toni siano infuocati e alcune frasi inaccettabili, sarebbe anche troppo pretendere che i fedeli di Berlusconi assistano senza reagire all’espulsione del loro mito dalla vita istituzionale.
La svolta politica che si realizza in queste ore è densa di pericoli, per il paese e per i democratici. Certo sarà difficile nel centrodestra gestire lo sdoppiamento dei berlusconiani come una astuta mossa tattica: a occhio i rapporti fra i due pezzi del Pdl sembrano destinati a peggiorare. Ma rimane fondatissima la paura del Pd di finire schiacciato tra la fedeltà a un governo che gode di una maggioranza ormai esigua, e l’aggressività di opposizioni assatanate, convergenti sull’esasperazione populista e già in clima di campagna elettorale europea.
Alla luce di quanto sta accadendo, tutti dovrebbero riconoscere l’importanza per il Pd di essersi messo nelle condizioni di non subire le offensive altrui; di aver proceduto in tempo alla sostituzione di gruppi dirigenti dalla credibilità gravemente lesionata; di sentirsi a sua volta pronto (e per alcuni perfino voglioso) per lo show-down elettorale. Tutti quelli che si sono battuti strenuamente per non far svolgere congresso e primarie alla scadenza prevista dovrebbero pensare a quanto brutta e confusa sarebbe la situazione adesso.
Ora si può ulteriormente approfittare dell’occasione. Se l’Italia è scossa dalle mobilitazioni di piazza degli opposti estremismi (Roma oggi, Genova il primo dicembre), le primarie dell’8 devono diventare una grande risposta civile e democratica, la mobilitazione numerosa di un altro popolo non rabbioso né disperato, ma non meno determinato.
Insomma, l’8 dicembre diventa inevitabilmente da oggi qualcosa di più della semplice scelta del segretario del partito. Tutto il Pd e tutti i candidati devono squillare le trombe di una prova di forza collettiva, il messaggio al paese di chi dà una garanzia di tenuta e di rinnovamento vero, serio, non declamato. Dovrebbe risultare ovvio che il primo beneficiario di una simile affermazione di affidabilità sarà Enrico Letta, il presidente del consiglio di un governo che avrà davvero molto bisogno di aiuto.

lunedì 25 novembre 2013

in attesa dell'8 dicembre

Riccardo Imberti

La convenzione nazionale di domenica 24 novembre era una formalità, forse, si poteva evitare, bastava che tutti accettassero che, anzichè 3 candidati alla segreteria fossero 4. Così non è stato, sono andati a Roma i mille eletti e hanno deciso quello che già il voto degli iscritti nelle province aveva indicato. Pittella non parteciperà alle primarie, in campo restano Renzi (che ha vinto anche tra gli iscritti), Cuperlo secondo e Civati terzo.
La convenzione ha avuto il merito di esplicitare tre fatti non marginali.
Il primo, l'assenza quasi totale del vecchio gruppo dirigente. Un segno che la dice lunga sullo spirito di servizio di personaggi che hanno fatto la storia del centrosinistra in questi ultimi vent'anni e ne portano le maggiori responsabilità. 
Bersani, Marini D'Alema  ancora una volta, hanno dimostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che il rinnovamento è cosa che non li riguarda e lo spirito di servizio alla ditta, funziona se a distribuire le carte sono loro.
Il secondo, l'entusiasmo di chi ha partecipato,  segno inequivocabile delle potenzialità del partito democratico e la certezza che non rimpiangeremo il passato, basta mettere alla prova i tanti giovani presenti alla convenzione, a tutti i livelli. Ora tocca a loro! Sarebbe davvero un delitto, non offrire loro l'opportunità di dimostrare, quanto sono capaci di fare, per il futuro della politica e del nostro Paese.
Terzo, il confronto tra i candidati è stato un confronto vero, sui nodi e sulla crisi del Paese, sul partito e su come intendono il futuro della politica.
Tre questioni non marginali che saranno il terreno sul quale i cittadini tutti (elettori e iscritti) dovranno scegliere, chi sarà chiamato a guidare il partito nei prossimi quattro anni.
Ora parte la corsa vera e qui si cominciano a vedere i primi tentativi di annacquare la novità. Non ho pregiudiziali verso nessuno, la strada è aperta a tutti, lettiani, (distribuiti un pò ovunque), franceschiniani, fassiniani, veltroniani, ecc.
Attenzione però! La scelta di fare una lista unica per il sostegno al candidato, non mi pare aiuti alla chiarezza, anzi, fa rivivere sotto false spoglie, le vecchie componenti e correnti. 
Spero di sbagliarmi, ma, la ripartizione definita a livello nazionale e regionale,  con tante componenti a sostegno di Matteo, è una miscela micidiale che può imprigionarlo e soffocarlo nelle vecchie logiche. 
Non si tratta solo di una spartizione sbilanciata di posti, quanto all'operazione di mettere il vino vecchio dentro gli otri nuovi e con il rischio di farlo risultare imbevibile. In questi mesi abbiamo scoperto energie di qualità, generose e disinteressate ai posti, il rischio di contaminazione con le vecchie logiche spartitorie è molto alto. Matteo deve sapere che se la sfida della segreteria è un passaggio duro, la sfida per la guida del Paese sarà durissima e tutti quelli che sono saliti sul carro, non solo non lo spingeranno mai, ma cercheranno di bucare le ruote.
Dopo la convenzione, ci aspettano giorni di lavoro pesante, non possiamo perdere la grande occasione che ci è data con Matteo Renzi, di rafforzare il PD, valorizzare l'entusiasmo di tante energie fresche, sviluppare la presenza del partito nei territori e rimotivare i tanti delusi di questi anni e farli tornare e credere che cambiare è possibile.

Ho firmato una legge per gli stadi, me la ritrovo a favore della lobby del mattone

Ritorna il dibattito su una legge dedicata a impianti sportivi e stadi e con esso riaffiora tanto per cambiare il vizio endemico del nostro paese: l'incapacità di conciliare lo sviluppo con la tutela del territorio e del patrimonio culturale, di far collaborare pubblico e privato senza scontro ideologico. Quando lo scorso 24 settembre, insieme ad un nutrito gruppo di colleghi deputati provenienti da tutti i partiti di maggioranza, avevamo depositato il progetto di una legge speciale per la riqualificazione e realizzazione degli impianti sportivi in Italia, pensavamo di aver raggiunto finalmente la quadratura del cerchio. Avevamo fatto tesoro dei due fallimenti del Parlamento nelle legislature precedenti disegnando un sistema nuovo di regole in grado, da un lato, di aprire ai privati l'opportunità concreta di investire in questo settore, dall'altro, di preservare l'interesse pubblico di quegli investimenti nelle modalità di gestione di realizzazione degli impianti stessi. Una legge basata su un modello di pianificazione e non dettata dall'emergenza.

Del resto, da anni parliamo di queste nuove regole senza mai arrivare ad un approdo concreto. Nel frattempo i nostri stadi, le nostre piscine, i nostri palazzetti cadono a pezzi e i Comuni, principali proprietari, non riescono a fronteggiare i costi crescenti di manutenzione a causa della morsa del patto di stabilità e delle carenze di bilancio. Le società sportive vivono di attese e svolgono una funzione suppletiva nella gestione e manutenzione che spesso non spetta neanche loro.

La diagnosi è spietata, ma anche difficile poiché i dati completi di cui disponiamo sono vecchi e risalgono ad uno studio intitolato «Gli impianti sportivi in Italia» ed elaborato dal famigerato CNEL nel 2003. Vi si rileva una sensibile percentuale di impianti non funzionanti (14.590, circa il 10% del totale) e un progressivo rallentamento della crescita numerica, nonostante una maggiore incidenza di investimento privato rispetto al passato, dimostrando come i meccanismi attuali non favoriscono gli investimenti e la realizzazione di opere nuove e di ristrutturazione. Si tratta di un patrimonio prevalentemente pubblico di proprietà comunale, situato soprattutto nel sud del paese che necessita di interventi di recupero e di riqualificazione strutturale. A distanza di dieci anni la situazione non può che essere ulteriormente peggiorata. Se poi consideriamo che il parco impiantistico italiano è stato edificato prevalentemente prima del 1981 (62,5 per cento del totale delle unità esistenti) non è difficile immaginare quanto sia diventata insostenibile l'opera di manutenzione di questo patrimonio.

Questi pochi numeri, aggiunti a quelli che indicano il nostro paese agli ultimi posti in Europa per la pratica sportiva, mostrano la necessità di incentivare e di fornire strumenti più adeguati per favorire nuovi investimenti. Tra i fattori che vincolano lo sviluppo degli impianti sportivi al primo posto si collocano l'insufficienza delle risorse pubbliche e la difficoltà a reperire fondi privati: il sistema attuale di regole non incentiva i privati ad investire nella realizzazione e gestione di impianti sportivi. Per questo oggi più che mai è necessaria una legge che dia una svolta ad un settore in grande sofferenza.

Ancora una volta, però, tutto sembra infrangersi contro l'eterna battaglia tra una classe imprenditoriale miope e senza scrupoli, pronta ad utilizzare le nuove regole come scorciatoie per fare speculazioni, e il fronte intransigente degli ambientalisti e storici dell'arte che vede dietro ogni tentativo di sviluppo la tenuta lobby del mattone. Il Governo ha avuto in questi giorni l'opportunità di superare l'impasse facendo propria la legge depositata in Parlamento che in modo molto chiaro consente ai privati - mediante lo strumento del project financing - di ristrutturare impianti esistenti o costruirne di nuovi grazie a procedure amministrative più snelle e più certe, con la possibilità di realizzare contestualmente strutture economicamente redditizie (alberghi, negozi, uffici) in cambio dell'investimento sull'impianto sportivo, ad esclusione - e qui è il punto - dell'edilizia residenziale.

L'Esecutivo ha voluto giustamente accelerare l'introduzione delle nuove regole, puntando a scrivere un emendamento alla legge di stabilità attualmente in discussione al Senato, ma si è discostato da quel modello equilibrato che in Parlamento eravamo riusciti a realizzare. Il risultato? Una serie di regole - almeno nella versione originaria dell'emendamento - che consentono di costruire anche in aree vincolate complessi sportivi in cambio di opere a carattere commerciale non necessariamente contigue all'impianto sportivo. Come dire che si può costruire uno stadio in una parte della città e, in cambio, ottenere le autorizzazioni a edificare un quartiere magari dal lato opposto e in una zona a vincolo paesaggistico. Le critiche e le proteste erano dunque inevitabili, soprattutto nei giorni in cui il Paese assiste inerme all'ennesimo disastro ambientale questa volta in Sardegna, amplificato dall'incuria dell'uomo verso il paesaggio e il territorio.

Siamo sempre alle solite dunque: quando le nostre istituzioni sono chiamate dall'emergenza a realizzare corsie preferenziali capaci di attraversare la selva ormai inestricabile di norme e il muro invalicabile della burocrazia, non riescono ad evitare di intaccare anche quei principi fondamentali del nostro ordinamento come la salvaguardia del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, l'equilibrio tra libertà d'impresa e interesse pubblico generale. E così scoppiano gli scandali della Protezione Civile o i disastri ambientali in Sardegna, salvo poi ricorrere ai ripari tardivamente e con norme spesso dettate dalla fretta e più restrittive di quanto non avrebbero dovuto essere.

Il Governo in queste ore sta giustamente tentando di correggere l'emendamento che ha attirato le critiche di mezzo mondo. Sarebbe sbagliato se non lo facesse o lo ritirasse, l'ennesima occasione persa. In Parlamento cercheremo di migliorarlo ulteriormente se necessario, con i colleghi Deputati, partendo dal lavoro che abbiamo già avviato nel progetto di legge iniziale. Ma resta, al fondo, il problema strutturale di una pervasiva subcultura dell'emergenza che in questo paese giustifica tutto, scempi e scorciatoie, furbizie e prepotenze, decreti ed emendamenti, commissari e superdirigenti, della quale ogni Governo - questo incluso - rimane schiavo. Va spazzata via senza indugi. E sostituita con la cultura della responsabilità, della pianificazione, della decisione.

Dario Nardella, già vice-sindaco di Renzi a Firenze

Alla prova del nove

CLAUDIO TITO

QUando si ricopre una carica elettiva, quando si ha avuto l’onore di rappresentare l’Italia all’estero, quando si ha l’onere di svolgere un mandato per conto di milioni di italiani, si hanno anche dei doveri.
PIÙ doveri di ogni altro cittadino. Silvio Berlusconi, invece, rifiuta addirittura di sottomettersi alla legge. Respinge semplicemente le norme basilari di ogni Stato di diritto. E confonde la delega che gli elettori hanno affidato al suo partito con uno strumento da esercitare esclusivamente per conquistare un eccezionale salvacondotto.
Il capo dello Stato, che pure si è speso in questi mesi per ricondurre il Paese nell’alveo di una normalità democratica dopo la specialità vissuta nell’ultimo ventennio, non poteva che respingere le pretese avanzate dal leader di Forza Italia. Il Cavaliere sembra pretendere per se stesso una sorta di extraterritorialità.
Agita il suo peso elettorale, la sua carriera politica e persino il suo successo imprenditoriale come se costituissero una via preferenziale all’immunità. Non riesce a cogliere i limiti che la politica e le istituzioni pongono ai desideri personali. Trascina nel baratro della irresponsabilità quel minimo di cultura della legalità sopravvissuta a questi venti anni di totale destrutturazione del sistema normativo e etico del Paese. Invoca insomma una sorta di Stato d’eccezione — così lo chiamerebbe il filosofo tedesco Carl Schmitt — da applicare solo a se stesso con l’obiettivo di sospendere l’ordinamento giuridico: necessitas non habet legem. È in sostanza il replicarsi all’infinito della richiesta di norme ad personam. Ma quando a tutto questo viene associata la minaccia di manifestazioni di piazza, di contestazioni radicali, allora davvero si avvicina pericolosamente il limite dell’eversione. Ma a queste condizioni, in questo clima, nessun presidente della Repubblica può concedere la grazia. Men che meno “motu proprio”.
Napolitano in una dichiarazione del 13 agosto scorso aveva prospettato una possibilità. Ma ad alcune condizioni: che ci fosse ad esempio la richiesta, magari non diretta, ma di un congiunto. Soprattutto aveva chiarito che qualsiasi atto di clemenza non avrebbe potuto mettere in discussione «la sostanza e la legittimità della sentenza passata in giudicato ». «Ogni gesto di rispetto dei doveri da osservare in uno Stato di diritto, ogni realistica presa d’atto di esigenze più che mature di distensione e di rinnovamento nei rapporti politici — aveva avvertito — sarà importante per superare l’attuale difficile momento». Ma questi paletti sono stati sistematicamente sradicati. Berlusconi contesta proprio l’essenza della sentenza. Dimostrando che il suo interesse primario non è solo la grazia. Ma quel concetto piuttosto astratto di “agibilità politica”. Non solo vuole essere al di sopra della legge, ma che sia messo in condizione di ricandidarsi alle prossime elezioni. Vorrebbe tornare ad essere l’ago della bilancia della politica italiana. Perché solo così è sicuro di poter tutelare al meglio le sue esigenze: giudiziarie e imprenditoriali. Eppure nelle sue pretese c’è qualcosa che lo rende inattuale. Il Cavaliere — forse per la prima volta da quando è sceso in politica — non appare calato nella realtà dei fatti. Ad agosto scorso, in un incontro riservato, persino il suo vero plenipotenziario, Gianni Letta, si era fatto scappare un giudizio definitivo: «Silvio, è finita». E oggi che deve fare i conti anche con una scissione che ha rotto il nucleo del suo movimento, non riesce a prendere atto che le condizioni politiche sono mutate.Alfano ha respinto la proposta di scendere in piazza mercoledì prossimo al fianco degli “ex amici”. Non è solo una scelta formale. È qualcosa che rompe l’unità del centrodestra nei termini che abbiamo visto dal 1994 alla scorsa settimana. Il leader forzista non è più determinante: in piazza e in Parlamento.
Questo governo eccezionale ma non d’eccezione, non deve più la sua sopravvivenza alle decisioni o ai diktat lanciati da Via del Plebiscito. Enrico Letta rivendica questa circostanza osservando che il suo esecutivo «ha cambiato per sempre la politica italiana archiviando per davvero il berlusconismo ». Quel che accadrà mercoledì, in occasione del voto sulla decadenza, sarà probabilmente una delle prove capaci di marcare il reale superamento del ventennio berlusconiano. Ma non sarà l’unica. Il vicepremier, il suo ex delfino, dovrà infatti dimostrare non solo di reggere all’urto degli attacchi dei falchi e di proteggere l’azione del governo. Per una effettiva svolta dovrà con i fatti recidere ogni legame con il cuore politico del berlusconismo, quel mix di populismo e demagogia che ha paralizzato l’Italia dal 1994. Dovrà aiutare il centrodestra a mostrarsi con una faccia europea e conservatrice, e sostanzialmente dire: non saremo mai più così. Non basterà fare il tour delle capitali europee per accreditarsi con le cancellerie dell’Ue per conquistare «da vero moderato » quell’immenso bacino elettorale egemonizzato da Berlusconi e adesso contendibile. Se non lo farà, se si ripresenterà con il volto del “diversamente berlusconiano”, allora ricadrà inevitabilmente nel vortice che in questi anni ha avviluppato ogni tentativo di distinguersi dall’originale.
Ma anche il Pd è ora chiamato alla prova. Quella di ritrovarsi in campo libero senza il nemico storico. Evitando di inseguirlo sul suo terreno. L’ultimatum scandito anche ieri da Matteo Renzi alla Convenzione democratica, è con ogni probabilità il primo passaggio di questo esercizio. Se il Pd sarà in grado di indicare la strada al governo, suggerendo priorità e finalmente imponendo dei temi, allora ci sarà la possibilità di superare questo ventennio. Questa è la sfida del nuovo segretario ma anche di Letta. Che è stato severamente condizionato dalla presenza di Berlusconi nella sua maggioranza. E anche la sua azione dovrà liberarsi di quel residuo di berlusconismo che ancora aleggia. Se ci riuscirà, allora il Paese avrà cambiato pagina. Altrimenti per la prova del nove bisognerà attendere le elezioni.

La Repubblica - 25/11/2013

generosità....

Bersani, D’Alema, Marini:  tutti assenti alla convenzione nazionale, dove sono finiti i discorsi sulla generosità, il servizio alla Ditta, il collettivo?

domenica 24 novembre 2013

Obama: "Accordo a Ginevra, il mondo è più sicuro"

Il presidente americano parla dalla Casa Bianca:
"La diplomazia ha aperto una nuova strada verso un mondo più sicuro, un futuro nel quale potremo verificare che il programma nucleare iraniano è pacifico e non potrà costruire un’arma nucleare".

La nuova prima fila del Pd

Stefano Menichini 

Europa  

Dalle foto di Renzi, Cuperlo e Civati un'immagine che vale più dei loro discorsi. Ci sono inevitabili durezze da primarie, ma il Pd dei giovani vuole farsi valere soprattutto fuori: col governo e con gli avversari-alleati
Pur essendo un passaggio più burocratico che politico, la Convenzione democratica dell’Ergife rimarrà nella memoria. Per alcune foto, più che per le cose dette. Per la conta di chi non c’era, più che per quella dei delegati presenti.
La foto ovviamente è quella dei tre candidati sorridenti seduti vicini in prima fila. Dal palco si sono scambiati colpi non proprio leggeri, soprattutto Cuperlo contro Renzi. Ma l’immagine che hanno voluto trasmettere, con una certa sapienza, è stata quella di tre giovanotti bellocci, abbastanza amici, in competizione fra loro ma uniti dalla volontà di dare della leadership Pd un’idea finalmente positiva, leggera, drasticamente rinnovata e quindi, in sostanza, incolpevole per i disastri della generazione precedente.
La quale, altrettanto saggiamente, s’è sottratta al confronto. Con pochissime eccezioni, si sono tenuti alla larga dall’Ergife le donne e gli uomini della nomenklatura uscente, a cominciare dall’ex segretario Bersani per finire con D’Alema e Veltroni. Il che ovviamente non significa che si siano arresi alla rottamazione, che rinunceranno a giocare ancora le proprie carte, e che quelli di loro che hanno preso duramente parte nelle primarie non torneranno a entrare in tackle. Diciamo che preferiscono non farsi vedere in giro con i loro giovani successori, e già questa non è una piccola ammissione di crisi.
Per quanto ancora informe e indefinito, s’è ritrovato all’Ergife il gruppo dirigente allargato del futuro Pd. Volendo, c’è anche poco da ricamarci sopra: dopo una batosta come quella del febbraio scorso, in qualsiasi partito democratico del mondo sarebbe successa (subito) la stessa cosa. Già che ci sorprenda e che se ne debba scrivere, è il segno di una arretratezza.
Gli interventi dei candidati (tranne quello di Gianni Pittella) sono stati meno belli di quelli dell’ultima assemblea nazionale. Ma offrono alcune tracce politiche.
Gianni Cuperlo è stato di gran lunga il più aggressivo, il che si capisce visto lo svantaggio che deve recuperare. Come al suo solito molto quadrato, razionale, evocativo, si è acceso nei ripetuti attacchi a Renzi sostanzialmente liquidato come un uomo di destra che camuffa la vera essenza del suo progetto neoliberista e presidenzialista. Evidente il richiamo della foresta, l’appello tribale (ancorché intelligente e argomentato) alla sinistra “canonica” (visto che lui stesso ha voluto evocare il concetto).
La durezza di Cuperlo non deve stupire né innervosire, come del resto non s’è affatto innervosito Renzi: è nella logica del passaggio congressuale. L’importante sarà che Cuperlo, dovesse perdere l’8 dicembre, non autorizzi nessuno dei suoi a forzare ulteriormente sul tema dell’alterità genetica: i danni potrebbero essere devastanti. Soprattutto per la sinistra appunto “canonica”.
Renzi ha replicato blandamente, non ha usato nessuna delle possibili armi contraeree. Ha fatto bene, perché può permetterselo alla luce del voto degli iscritti e delle promesse dei sondaggi. In queste fasi – andò esattamente allo stesso modo un anno fa contro Bersani – Renzi ci tiene ad accantonare ogni atteggiamento divisivo. Sa di dover essere rassicurante. Stavolta poi, ancora di più.
Così come hanno fatto un moderatissimo e pacatissimo Civati e un infuocato Pittella. I loro interventi completano il senso politico generale della giornata: di nuovo, come nell’assemblea di settembre, il Pd nel suo insieme si dice scontento e insoddisfatto dei risultati del governo Letta. Alza ulteriormente l’asticella da scavalcare per guadagnarsi la durata nel 2014. Non concede neanche la soddisfazione di riconoscere il successo politico della spaccatura del Pdl. Anzi, come abbiamo scritto tante volte, vede nella divisione dei berlusconiani un rischio in più.
Di tutti i dossier possibili, oltre ai temi economici, è la riforma elettorale quello che Renzi e i suoi colleghi candidati sbattono sul tavolo di palazzo Chigi. Può darsi che alla fine sarà la Corte costituzionale a dare una mano a loro e a tutti i fautori del Mattarellum, ma senza aspettarne la pronunzia il Pd vuole cambiare subito passo rispetto allo stallo di cui innanzi tutto il Pd stesso s’è reso responsabile fin qui.
È un preannuncio di crisi per il governo? Diciamo che, in ogni caso, è una bella accelerazione se non altro verso la possibilità di far svolgere le elezioni.
L’inserimento di Angelino Alfano è una mossa abile, intelligente, rispettosa: da capo-partito, propone al Renzi possibile capo-partito un patto per riempire proficuamente i prossimi dodici mesi, con impegnative riforme istituzionali a partire dalla agognata fine del bicameralismo. La replica dei renziani è già in puro clima di “orgoglio democratico”: vi staremo a sentire, ma noi alla camera siamo trecento e voi trenta.
Sarà tutto così, fino all’8 dicembre e con una fiammata di eccitazione dopo il voto di mercoledì prossimo sulla decadenza di Berlusconi. Buono a sapere, alla guida del Pd ci sono dei ragazzi piuttosto determinati a farsi valere non solo fra le mura di casa.

viva l'Italia...


insieme....si deve!!!


UN PASSO INDIETRO PER RILANCIARE IL PD

FABRIZIO BARCA

Caro direttore «Una parte della nostra opinione pubblica pensa che sia avvenuto qualcosa che abbia a che fare con un’assenza di imparzialità. … si è alzata la soglia della tolleranza del Paese verso l’assenza di rigore, di imparzialità e di sobrietà ». Sono queste le parole che lo scorso 20 novembre il segretario del Pd Guglielmo Epifani ha sentito il bisogno di dire alla Camera dei deputati per qualificare il “no” alla mozione di sfiducia sul ministro Anna Maria Cancellieri.
Sono parole che potrebbero riguardare anche l’assalto dello stesso giorno al mio Circolo Pd dei Giubbonari in Roma e il messaggio «dovreste essere in carcere o a penzolare a testa in giù» che lo ha accompagnato. O i gesti e i pensieri di centinaia di migliaia di cittadini che leggono le vicende e le decisioni pubbliche quotidiane, qualunque esse siano, come un “loro” contro “noi”. Marco Doria, a Genova, è stato aggredito perché è passato da “noi” a “loro”. “Loro” è la classe dirigente, politica, istituzionale, dei mezzi di comunicazione di massa, delle imprese, e anche sindacale. “Noi” è il 99% dei cittadini, il popolo che si sente fuori del potere.
Se la distanza abissale che si è aperta fra “noi” e “loro” non viene colmata, il Paese non va da nessuna parte. La mano di chi aggredisce e imbratta un Circolo di partito — non è certo la prima volta, non sarà l’ultima — è sempre di pochissimi. Ma parla della sfiducia assoluta di moltissimi “noi”.
Questa sfiducia impedisce il cambiamento.
La sfiducia di “noi” blocca la partecipazione diffusa alle decisioni pubbliche e alla loro attuazione; anche quando — non è frequente, ma capita — le istituzioni provano a coinvolgere i cittadini, dalle scuole alla cura di infanzia e anziani, alle opere ferroviarie, da Acerra a Genova, al Sulcis. La sfiducia priva “loro” della conoscenza e del saper fare di “noi”. La sfiducia spinge “loro” a dare in pasto a “noi” i sacrifici che la casta dei mezzi di comunicazione di massa invoca per la casta del palazzo — auto blu, Province e roba simile — sacrifici che nulla valgono e nulla cambiano ma che comprano altre settimane di vita per i governi. La sfiducia dà a molti “noi” l’alibi per comportamenti amorali, per non rispettare regole, imposte e doveri — «“loro” non li rispettano» — con la scusa di “non fare la figura dell’unico fesso che crede ancora nello Stato”; e così trasforma “noi” in “loro”, senza che ipocritamente lo si ammetta.
“Loro” — di cui io faccio parte, beninteso, come faccio parte anche di “noi” — possono riconquistare questa fiducia solo facendo accadere cose, verificabili. Non promettendole. Ma non può accadere nulla di buono se non c’è fiducia, capace di mobi- litare conoscenza e consenso. Ecco il circolo vizioso, la trappola, in cui siamo conficcati: non ci può essere fiducia senza cambiamento; non ci può essere cambiamento senza fiducia.
Per uscire dalla trappola, per evitare che questa uscita sia peggio del male — un’uscita autoritaria, tanto per intenderci — “loro” dovrebbero fare la prima mossa, una mossa vera e radicale. Il passo indietro di una generazione — quella al potere — come suggerisce Michele Serra, che metta in circolo nuove energie, rinnovi l’amministrazione, inietti concorrenza nel sistema delle imprese, dia un colpo al cinismo e alla rinunzia. Ma all’amor proprio di “loro” questa mossa converrà solo quando si troveranno sull’orlo del burrone e non ci saranno più Monti e taglio delle pensioni per tornare indietro. Non servirà, perché a quel punto sarà tardi. E allora?
Allora, c’è la politica. La sola che permette di uscire dalla trappola. Un pensare e agire collettivo dove amor proprio e amore per gli altri — spirito pubblico, scriveva Adam Smith — si mescolano in un moto dove tutto diventa possibile, perché non è più la convenienza spicciola a guidare i comportamenti. Ma la visione, il disegno di una rigenerazione, guidata da valori robusti, di sinistra. Coerente con l’idea di sinistra che il cambiamento delle gerarchie sociali è un valore in sé.
E così diviene possibile immaginare che un bel pezzo di “loro”, la classe dirigente che appartiene o fa riferimento al Pd, faccia unilateralmente il passo indietro. Concordando con le leve “giovani” che subentrano, non un lasciapassare o qualche posto al sole da cui “ cumannari” ancora, ma l’annuncio e la pratica di nuove regole del gioco, per assicurare che dopo una breve cavalcata nuovista i nuovi non si trasformino in “loro”, prima ancora di accorgersene. Insomma un partito palestra, che coinvolga le forze dei territori, le intelligenze, il lavoro in uno straordinario e emozionante impegno per riscrivere il Paese. E che sappia costruire un rapporto robusto fra generazioni, con le nuove leve che dirigono e quelle vecchie che si lasciano usare.
Di questo passo indietro, delle nuove regole del gioco che devono accompagnarlo, di come ripristinare i canali di comunicazione tra partito e società, di “tre questioni” sulle quali galvanizzare “noi” attorno ad una visione di sinistra dell’Italia del 2033, vorremmo vedere discutere Pippo Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi da qui al 7 dicembre notte. Assieme e più volte. Perché un Congresso sia davvero un Congresso (come lo è stato, nonostante tutto, in molti circoli e province del Paese). Perché già dal confronto intenso ma coeso venga il segnale limpido di un impegno a colmare il vuoto fra “noi” e “loro”.

La Repubblica - 23/11/2013

Il vecchio con gli stivali

FRANCESCO MERLO

Finalmente Berlusconi lo ha detto: non teme la prigione ma «i cessi». E vuole dire che è terrorizzato dalla fine dei miserabili e degli immiseriti.
Igabinetti sono infatti l’ossessione dei potenti italiani, degli arricchiti, come benissimo racconta la letteratura industriale, da Volponi a Ottieri sino a Parise (“Il padrone”). Insomma i cummenda sono tali anche perché dispongono di molti gabinetti, nelle case e negli uffici. E però al tempo stesso li temono come destino finale.
Lucio Colletti mi raccontava, stupito e divertito, che Berlusconi aveva in casa più bagni che camere. Ebbene, per lui è quello il servizio sociale. «Pulire i cessi» è in metafora l’espiazione, è l’umiliazione, è la rieducazione. Tanti anni fa quando riceveva in casa l’amico Craxi che, soffrendo di prostata, andava spesso in gabinetto e qualche volta sporcava, era lo stesso Berlusconi che andava poi a pulire «per evitare — raccontò — che i camerieri si accorgessero che Bettino aveva sporcato». Ecco, di quel che un giorno fece vanto adesso Berlusconi fa esorcismo. I servizi sociali, in questo senso, sarebbero peggiori di una galera. È quella la degenerazione terminale alla quale vuole sfuggire: il bagno (penale).
Il sogno del moribondo è la rigenerazione. L’ultimo approdo della sua cosmesi è questo mito della rigenerazione che sempre prevede l’arruolamento dei giovani più ingenui e più ottusi, persino dei bambini nel caso di Salò, ed è tipico dei potenti in decomposizione. Certo Berlusconi e Dell’Utri più che ad Hitler e a Mao, più che a Mussolini e a Ceaucescu, somigliano ai retori imbolsiti che Brancati chiamava “vecchi con gli stivali”, gli ex papaveri che sognavano ancora la prestanza eroica ed erotica degli avanguardisti, e cercavano conforto alla loro desolazione reclutando ragazzi che nominavano generali. Li imbottivano di fanatismo, gli mettevano in mano un mitra e una bandiera e li mandavano a sparare sul quartier generale.
Ma qui non ci sono grandezze piegate dalla Storia, duci con gli occhi spiritati, timonieri ridotti a monumenti, Führer che accarezzano imberbi nibelunghi, ma c’è invece, alla testa dei falchetti, un pregiudicato gonfio di botulino e avvelenato di tinture, e c’è un altro pregiudicato, Dell’Utri, nel ruolo del padrino “posato”, come si dice nella mafia, il papa absconditus del diritto ecclesiastico, ormai inutile e ingombrante anche nella Sicilia delle coppole.
Sono di nuovo insieme, e importa poco quel che Berlusconi ha detto ieri, nel suo ultimo discorso da senatore, non vale la pena smontare le solite enormità con le quali ha cercato di sedurre, riscaldare e caricare questi suoi nuovi ragazzini, quel che conta è il tono bellico, la messinscena, la dichiarazione di guerra all’Italia, all’Europa, al Mondo. Ormai infatti Berlusconi, che pure è ancora potente e ricchissimo con tutte le sue tv e i suoi giornali, vede solo nemici: dai magistrati ai quotidiani, dalla polizia giudiziaria al Parlamento, dal capo dello Stato alla Corte costituzionale, dalla Merkel sino ad Obama, e dunque la nuova Forza Italia è contro la moneta unica, contro la Germania, contro le tasse, contro i comunisti...
E torna la beatificazione di Mangano: «Aveva ragione Dell’Utri, è un eroe» ha detto ieri. Dell’Utri gli stava accanto come ai tempi in cui Berlusconi smise di esibire la pistola sul tavolo per spaventare i sequestratori: gliela sostituì proprio Dell’Utri con la protezione di quello stalliere mafioso e maestro di vita che divenne il precettore di Piersilvio. A quel Mangano, con il quale trattava per telefono partite di misteriosi “cavalli”, Dell’Utri disse: «Berlusconi non suda» e voleva dire che non sgancia, non paga sotto minaccia. In realtà, a Dell’Utri, l’amico Silvio ha dato un fiume di danaro. L’ex impiegato di banca palermitano gli ha portato in cambio «la Sicilia come metodo» direbbe Sciascia, la sostanza di un antico “saperci fare” per compensare le inadeguatezze del brianzolo, una scienza di vita dunque, un rapporto con uomini che «ad uno come te possono togliere le scarpe ai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene». A Dell’Utri Berlusconi deve anche la costruzione prima di Pubblitalia e poi di Forza Italia «su modello maoista in versione palermitana».
D’altra parte, mafiosamente parlando, Mangano è davvero un eroe, il solo che non lo ho mai tradito, un vero uomo d’onore che si è tenuto tutto nella panza, l’unico che lo ha protetto veramente ed è morto di cancro in galera, condannato per mafia e per omicidio. E probabilmente è vero che se avesse parlato sarebbe stato premiato con la liberazione. Non lo ha fatto. Quale altro esemplare eroismo ha da indicare ai giovani Silvio Berlusconi?
Ieri ha anche detto che la sua condanna e la conseguente decadenza da senatore è un golpe. Berlusconi infatti prepara la piazza mentre Alfano continua a servirlo al governo. La scissione come raddoppio, la divisione che nasconde una moltiplicazione è la versione berlusconiana dei due forni di Andreotti, del partito comunista di lotta e di governo, insomma dell’antica doppiezza italiana. La doppia identità è l’estrema furbata, stare al governo e stare all’opposizione è il disperato tentativo di sopravvivere, per truffare il destino di cui parlava Goffredo Parise. «Non andrò a pulire i cessi», ha detto. Non vuole fare la fine del vecchio con gli stivali di Brancati: «Una sola qualità lo vestiva dalla testa ai piedi, di fuori e dentro, ne involgeva ogni atto e parola: insignificante».

La Repubblica - 24/11/2013